In memoria di Francesco Cordiani: Una lezione di vita |
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di Carmelo Cordiani
“Grazie, grazie”. Sono le ultime parole che gli ho sentito scandire, sabato trenta luglio, alle ore undici e quindici. Avevo appena chiamato sul suo cellulare per sapere se il volo della speranza Reggio – Milano si fosse concluso senza problemi. Mi ha risposto Rocco. “Tutto bene. Zio è sveglio. C’è già l’ambulanza per Monza”. Ciccio, per gli amici, il Dottore Francesco Cordiani, aveva sentito e ha domandato a Rocco chi aveva chiamato. “Tuo cugino Carmelo”. “Grazie, grazie”. Poi i successivi contatti si erano conclusi verso le diciassette, con un pizzico di ottimismo. “E’ appena uscito il professore e ci ha detto che l’intervento è stato perfetto, il cuore batte regolarmente, le condizioni generali sono soddisfacenti”. “Ci sentiamo più tardi”. Più tardi, verso le 20.30, una telefonata interrotta dal pianto. “Ciccio non ce l’ha fatta”.
Due giorni prima, giovedì 28, mi ero fermato a lungo accanto al suo letto del Policlinico di Reggio. Cercavo, come al solito, qualche battuta per tenerlo sveglio, per stimolarlo a parlare, per farlo uscire dal dormiveglia che mi faceva tanta rabbia. Lunedì 25 lo avevo trovato seduto, sorridente per la visita aspettata. Era stato lui a dirmi : “Vieni, voglio scambiare due parole”. Ne avevo voglia e lo portai sul tema, tanto agitato in tempi sereni, del destino. Lui ci credeva e, a rinforzo, mi citava esempi di casi inspiegabili, di chi, per esempio, aveva perso l’aereo che, poi, è precipitato. “Come lo spieghi?”. Gli dicevo che la vita umana è un continuo esercizio di libertà individuale. Gli atti che ne derivano possono essere i più disparati. Quel tizio aveva perso l’aereo non perché il destino gli avesse messo tra i piedi un qualche intoppo, ma perché si era volutamente indugiato senza guardare l’orologio. “E, poi, se questo destino c’è, come dici, perché non lo citiamo in giudizio quando ci fa commettere qualcosa di grosso?”
Alla nostra conversazione si aggiunse un amico comune, anche lui tormentato dai tanti perché che intrecciano la vita e che ci fanno chiamare in causa Dio. “Dio sa, Dio vede e prevede… Perché non ferma l’odio, la violenza la morte…Anche Dio ha punito in modo crudele quando ha sommerso il mondo nelle acque del diluvio”. Ha risposto Ciccio. “Cristo ci ha fatto conoscere Dio Padre, Dio amore”. E si è dilungato sulla domanda che Gesù fece a Pietro: “Mi ami tu? Per tre volte ha ripetuto la stessa domanda e per tre volte Pietro ha risposto di amarLo. Ma (continuò Ciccio, dimostrando di aver letto il brano nella versione greca ), mentre Gesù, nella domanda, usava il verbo agapào Pietro rispondeva con il verbo filéo. C’è una sostanziale differenza tra i due verbi. Il primo ti dà il senso profondo dell’amore di chi dona la propria vita. L’altro traduce l’amore umano”. Mi resi conto del cambiamento radicale. L’amore impenetrabile di Dio con l’incomprensibile trama dei suoi disegni aveva preso il posto del destino. Unica traccia decifrabile è la fede. Unico supporto alla ragione che si pone delle legittime domande, ma non arriva a risposte altrettanto legittime, è la luce della fede. Un dono, d’accordo. Ma l’uomo, se non ha questo dono, se si accorge di rimanere irretito nel dubbio, nell’incertezza, nell’ansia dell’esistenza, deve chiedere, come il cieco nato: “Signore, fa che io veda”. Continuando in tali riflessioni, Ciccio, con la voce calma, quasi stanca, ma decisa aggiungeva che l’errore frequente è di abbassare Dio a livelli umani, pretendere che ragioni come noi, che intervenga nelle nostre azioni, che fermi la mano degli assassini, che impedisca ad una mamma di buttare dalla finestra la sua creatura. “Dobbiamo andare noi verso Dio. Questo è il vero significato della parola Verità”. E, di nuovo, ricorreva alla voce greca di Verità: “Aletéia, formata dal verbo “allo” e dal nome “Teos”. Andare verso Dio, incontrare Dio. Questo è Verità.
Caro Ciccio. Ora per te è tutto chiaro. Tu sei andato verso Dio, tu conosci la verità, tu ti sei reso conto del profondo significato dell’amore di Dio. La lezione di vita che mi hai dato lunedì 25 luglio nella stanza numero 106 del Policlinico di Reggio, come testamento spirituale, a pochi giorni dal tuo incontro con Dio, ha aperto uno squarcio in quel mistero che avvolge le vicende umane. Forse questo squarcio si chiuderà ancora. Forse di fronte a tante amare esperienze sarò tentato di sostituire Dio con il destino, irrazionale e, per questo, imprevedibile. Forse… Ripeti ancora la tua lezione. Trova tra i tanti abitanti del Cielo le persone care a te e a me. Insieme ricomponete la nostra famiglia per aiutarla nella speranza, nel riappropriarsi della chiara luce della fede che dà senso alla vita. Ora sono io a ripeterti: “Grazie, grazie”.
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