Bloc-notes

"I BENADITTI MORTI"

 

 

di Carmelo Cordiani

 

         A  Galatro succedeva un tempo, quando novembre era piovoso ed il due cadeva al freddo, con le strade disseminate di pietre e di pozzanghere e, al cimitero, si raccontava la storia di quei cumuli di terra, grandi e piccoli.

 

         Ce n’era uno due spanne e, mio padre, mi diceva che sotto avevano messo un piccolo di un solo giorno.

 

         Nelle case si accendeva la “lampa” (1) con l’olio che scarseggiava, ma lo si risparmiava volentieri, come doveroso, per la “settina”.(2)

 

         I morti, presenti nelle loro case, volevano un po’ di luce per i loro occhi spenti, per rivedere, senza sosta, il volto dei loro cari, almeno tutti i giorni della settina. Specialmente quelli andati via da poco, in pieno giorno, e avevano lasciato un figlio piccolo legato alle loro carezze.

 

         Con il buio del mattino si andava a messa, chiamati dai rintocchi a tempo che davano alla pioggia un sapore di pianto. Il “de profundis”, “libera me Domine”, “requiem” che il prete intonava da solo, coperto dal piviale nero, riempivano di mistero la chiesa e i presenti. C’erano tutti, anche quelli che non sempre ci credono, ché la morte è quello che è: bisogno di fede.

 

         Poi ci si recava al cimitero, alla “casa comune”, come si diceva, dove un posto non si può negare a nessuno, nemmeno a chi non ha mai avuto un posto in questo mondo.

 

         Allora ero piccolo; pochissime le lapidi di marmo con lunghe scritte che raccontavano le storie, vere e non, e che ai morti non interessavano più. Nemmeno ai vivi, a volte, perché la storia, ognuno la lascia scritta in vita, quando passa davanti al vicino e se ne accorge, lo saluta, gli sorride e dimentica…

 

         Poche le fotografie; la maggior parte non aveva volto, a un metro e mezzo sotto terra. Una sola croce di legno, con nome, cognome, data di nascita e di morte. Al resto pensavano i vivi, i genitori, i figli, le vedove, i vedovi, i congiunti che avevano un fiore per tutti, un crisantemo coltivato negli orti per il due novembre.

 

         Al rientro a casa le strade si riempivano di ragazzi, quasi tutti scalzi, con le cocche di una salvietta annodate al braccio. Si passava di porta in porta a chiedere “I BENADITTI MORTI”: una manciata di fichi secchi. Tutto lì. E non si rifiutavano a nessuno, anche se alla stessa porta bussavano in tanti.

 

         Forse si credeva che quell’alimento, allora prezioso, serviva anche a loro, ai “benaditti morti”, ancora presenti nelle case finché la fiammella della lampa non si fosse spenta.

 

 Note:

(1)  Lampada. Si preparava in un bicchiere, metà acqua, metà olio con un sottile pezzettino di canna a galla e un forellino per l’osmosi, sul quale si deponeva un particolare stoppino ricavato da una pianta (ancora esistente) chiamata “luminara”. So che una persona ancora usa questa “lampa” al posto dei lumini commerciali.

 

(2) Di solito le festività importanti venivano precedute da “novene”. Il due novembre era, invece, preparato con sette giorni di preghiere durante la messa.

  

 

 

Cordiani Carmelo: «"I BENADITTI MORTI" ...pochissime le lapidi di marmo con lunghe scritte che raccontavano le storie, vere e non, e che ai morti non interessavano più. Nemmeno ai vivi, a volte, perché la storia, ognuno la lascia scritta in vita, quando passa davanti al vicino e se ne accorge, lo saluta, gli sorride e dimentica…», Galatro (RC), Venerdì 2 Novembre 2012

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