Claudio Risè

 

Diario di bordo: Il blog di Claudio Risé

 

 

 

 

 

 

 Indice analitico:

 

»  2013: Psiche lui
»  2013: Diario di Bordo
»  2012: Diario di Bordo
»  2012: Psiche lui

»  2011
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»  2009

 

 


 

   

 

 

 

2013: Psiche lui

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Finalmente un uomo diretto (ma impegnato)! Adesso come faccio?
26 ottobre 2013
Ciao Claudio, ho 38 anni, oggi vivo da sola. Ho avuto due storie importanti, di cui parliamo magari dopo. Adesso è apparso un uomo  molto diverso da quelli conosciuti finora. E’ un super affermato stimato impegnato. Io me ne sarei stata su stima, ammirazione, rispetto. Invece lui non ha cercato...
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Omo non sposo! Ma in Comune no.
19 ottobre 2013
Ciao Claudio, ho 50 anni e sto con un uomo (lui si definisce “ragazzo”) di 30. E’ un tipo simpatico e gentile, stiamo bene insieme, ma da un po’ di tempo lui insiste perché ci “sposiamo”, se non si riesce qui in un altro paese. A me l’idea di avere (o essere) una moglie-uomo non interessa...
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Quel ragazzo chiuso in camera. Come lo faccio uscire?
12 ottobre 2013
Ciao Claudio, mio figlio, 24 anni si è chiuso in casa da più di due anni. Sta tutto il giorno in camera con play station, pc e vari strumenti musicali. Autodidatta, suona e ascolta musica. A volte dorme di giorno a volte di notte. Per un anno e mezzo ha lavorato part time nello studio di un parente,...
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Il cortile dell’Ego. E il mondo intorno.
5 ottobre 2013
Ciao Claudio, se riuscissi a odiare e affrontassi il mio egocentrismo come si fa col famigerato “Potere politico-ideologico-finanziario” etc.., sarei pieno di energie. Invece 
mi amo odio. 
Quando leggo certe tue frasi e pensieri sento una voce rabbiosa e disperata che urla “non voglio morire”....
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 Il potere? E’ un servizio. Servitene.
28 settembre 2013
Ciao Claudio, a proposito del potere, di cui state discutendo. Come molti giovani maschi (ho 29 anni) con madre ambizioso-invadente e padre depresso - isterico, preferirei non averci niente a che fare (anche perché non so “come” farci qualcosa). Però gli altri lo chiedono. Te lo chiedono alla fine...
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Basta con gli opposti! Mettiamoli assieme.
21 settembre 2013
Ciao Claudio, il dibattito tra chi stima la forza e chi la debolezza (post precedente) è interessante. Ma non è  possibile avere e arrivare a una visione unitaria dell’essere umano e delle sue relazioni, non sempre o solo in termini di contrapposizione debolezza vs forza, umiltà vs arroganza, etc? Paolo,...
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Guarire da Narciso. Ma come?
14 settembre 2013
Ciao Claudio, hai scritto sul blog che: “la grande malattia di oggi (chiamata “narcisismo”) si manifesta nel continuo bisogno di apprezzamento e conferma da parte dell’altro, ma si fonda su una tremenda paura di essere abbandonati. E sulla sensazione di inconsistenza personale, di non essere...
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Quando l’amore diventa violenza
7 settembre 2013
Ciao Claudio, in una delle tue recenti risposte parlavi della violenza sottesa a tanta apparente affettuosita' nelle relazioni d’amore ( riassumo tanto per farla breve), chiedevi di approfondire...Ci penso da giorni, se mi guardo indietro riconosco qualcosa anche di me. Non è forse  quella violenza...
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Bello l’amore! Ma se non si può?
31 agosto 2013
Ciao Claudio, d’accordo: amare è bellissimo. Ma quando non si può? Non so come sia combinato Peter (e mi piacerebbe saperlo). Ma per esempio io amo una donna sposata. L’amavo già prima, poi c’è stata una crisi importante, lei si è sposata. Io sono innamorato di lei, lei mi vuole bene, e basta....
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Mi ha ingravidato l’Anima! Sono felice.
24 agosto 2013
Ciao Claudio, ho scoperto una cosa bellissima, che c’entra molto coi vostri ultimi post. Sarà il sole caldo ma non troppo, sarà che mi sono innamorato, sarrà chissà (Fausto Cigliano - Sarrà chi sa - YouTube), fatto sta che sono felice. E ho scoperto che il mio destino è amare, e quindi lo...
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La distanza nell’amore. A cosa serve?
16 marzo 2013
Ciao Claudio. Sia io che Laura e Benedetta siamo rimaste molto colpite dal tema della distanza e dalle tue parole: “ il corteggiamento è a tutto vantaggio del corteggiatore che, sperimentando la distanza, impara un sacco di cose e, in fondo, non rischia nulla (può smettere quando vuole). E’ quando...
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L’Anima potente sta ai margini. (Quella debole si mostra).
9 marzo 2013
Ciao Claudio, volevo parlare con te/voi dell’”anima che abita ai margini”. Nel film di Bergman Sussurri e Grida (ad esempio), la serva Anna, colpita dal lutto e dalla morte, non viene distrutta da questo, ma diventa la guaritrice che scioglie l'angoscia. Chi è portatore di questa funzione salvifica...
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Vorrei sceglierla. Ma è così insicura!
2 marzo 2013
Ciao Claudio, faccio il bis di Luca, ultimo post. Tre o quattro ragazze che mi fanno girare la testa; ma a me ne interessa una, bella e anche intelligente. Con le altre ho paura di perdere lei, l'unica importante per me, e che capisce i miei sentimenti. Lei però non si accetta. Più mi piace, più fatico...
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Mi piace solo lei! Qualcosa non va?
23 febbraio 2013
Ciao Claudio, ho 26 anni, fidanzato da 6 con una ragazza che amo. E’ stata la prima, a 20 anni. La consideravo troppo bella per me, mi pareva strano che mi amasse. Una sera poi mi costringo a reagire. Mi apparto con lei in spiaggia e lì ho il mio primo rapporto. Non mi riuscivo a lasciarmi andare...

Mio figlio non fa niente. Come fare?
16 febbraio 2013
Ciao Claudio, anch'io come altre tue lettrici/lettori, sono molto preoccupata per mio figlio, 20 anni. Sono separata da molti anni. Il mio ex, fortemente depresso, non è  in grado di occuparsene, e ostacola ogni mia iniziativa. Lui dopo il diploma dorme tutto il giorno, e si risveglia solo per vedere...
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Le armi giocattolo sono criminali?
9 febbraio 2013
Ciao Claudio, sabato  mio nipote che compiva i 7 anni.
 Non so cosa mi ha preso…gli ho regalato una mitraglia… sembrava vera... quando ha aperto il pacco si è spaventato e mi ha detto: “Zia questa la usa Gheddafi, io non la voglio”. Tutti mi hanno guardato come se fossi impazzita…io ho...
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Mi piace tutto troppo. Allora le lascio.
2 febbraio 2013
Ciao Claudio, come far crescere e alimentare l’amore? Voglio dire la mia capacità di amare . Ho 29 anni, un lavoro che mi piace, molti interessi. Con le donne prendo fuoco facilmente, ed è bellissimo. Ma poi...devo partire, devo fare, incontrare, etc. (tutta roba di lavoro o amicizia, ma piuttosto...
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Perché il padre non è uno sceriffo. Ancor meno un kapò.
26 gennaio 2013
Ciao Claudio, ho 30 anni, un bambino di due. Non condivido che ( come si ripete nelle discussioni sul padre sui media e con gli amici), “il padre rappresenta la legge”. Io non mi sento  uno “sceriffo”.  Anche riguardo a bambini, famiglia etc., certe leggi mi fanno star male. Se penso agli...
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Meditare: a cosa serve?
19 gennaio 2013
Ciao Claudio, ho 38 anni, vivo da sola in una grande città. Non mi fido dei tanti occidentali che, dopo qualche libro o un viaggio in India, “fanno gli indiani”. Però 11 anni fa, lasciata da un fidanzato e profondamente addolorata, un giorno, vidi un libro in vetrina + cassetta da seguire 10 o...
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Mi piacciono le “ragazze cattive” e temo le affettuose-accoglienti. Ma perché?
12 gennaio 2013
Caro Claudio, chiedo aiuto o “dritte” a te e ai cari amici del blog. Nonostante i 34 anni, un lavoro fisso, (che non mi emoziona), una casa mia dove vivo da 2 anni, sono ancora insicuro nel rapporto con le donne. Mi intestardisco e finisco per farmi trattare male da tipe molto sexy, o che sembrano...
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Che fare della paura? (E da dove viene)
5 gennaio 2013
Ciao Claudio, eh la paura! Lavoro con i bambini nell’atelier di pittura di un asilo.  Per l a mia formazione nell’educazione e terapia artistica, conosco  la ricchezza del lavorare con i bambini e gli adulti insieme.  Mi  dicono  che ho anche spirito imprenditoriale, e molti mi  suggeriscono... CONTINUA A LEGGERE

 

 

2012: Psiche lui

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Ho messo Gesù sul calorifero. E adesso?
22 dicembre 2012
Ciao Claudio, il dibattito precedente mi ha suscitato diverse curiosità. Nella tua esperienza, la religione  può far bene ? Ho letto che secondo Freud è un’illusione senza avvenire, legata anche a patologie psichiche. Io, come altri che ti hanno scritto, ho  "esperienze" religiose, che mi aiutano... 
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Il mondo sta per finire! Che si fa?
15 dicembre 2012
Ciao Claudio, un sacco di gente pensa che in settimana il mondo finirà. Comunicati ufficiali degli Stati per tranquillizzare, masse in movimento, insomma un gran casino. Non ci credo, e non mi sembra di aver paura. Però un po’ d’aria “strana”, un po’ da fine del mondo, in giro c’è.... 
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Ci hanno fregati! Della rabbia che ne facciamo?
8 dicembre 2012
Ciao Claudio, sono arrabbiatissimo. La notizia del trentenne Manuele, con bar a Treviso, che non ce l'ha più fatta a tirare avanti tra ostacoli, soprusi, burocrazie e tasse, fino a impiccarsi, lasciando il biglietto: "W l'Italia, finalmente libero", mi ha fatto infuriare. Anche su "psiche lui" molti... 
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Ero potentissimo. E adesso?
1 dicembre 2012
Ciao Claudio, il “come trasformare una catastrofe in una fortuna”( di cui stavate discutendo), mi interessa molto. Sono uno dei tanti amministratori politici travolti dalle varie inchieste. Niente di penale (spero), ma forse abbastanza da rovinarmi (sembra). Al di là del lasciar fare agli avvocati...
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Dal miliardo all’orto. Andrà bene?
24 novembre 2012
Ciao Claudio, la mia storia c’entra col dibattito. Piccola borghesia, laurea in economia, dunque zero cultura (non come Eugenio ed altri di voi). Entro in contatto con una star di borsa-finanza, che mi apprezza. Più di dieci anni (ho iniziato a 25) di ricchezza. Molto lavoro e soldi e lusso a volontà....
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Che fare del gorilla?
17 novembre 2012
Ciao Claudio, sogno d’ombra (forse). Sono dietro la casa dei genitori, (qui è su un promontorio che mi ricorda l’osservatorio astronomico di Campo dei Fiori a Varese, dove andavo da adolescente). Sul bordo di una scurissima foresta, fredda e con nebbia che scorre tra gli alberi, illuminata dalla...
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Il terapeuta e la sua Ombra
10 novembre 2012
Ciao Claudio, ho una domanda. Mi tocca molto, non so bene perché, un dipinto del Masaccio: “San Pietro risana gli infermi con la sua ombra”. Che significa? Benedetta Ciao Benedetta, il dipinto che tu ami, riprodotto qua sopra, è a Santa Maria del Carmine a Firenze, ed ha una storia complessa...
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Il padre che accompagna i bambini soli.
3 novembre 2012
Ciao Claudio, le tue parole (ultimo post) “confido nel Padre, a lui guardo e basta”, muovono ricordi.. Figlia di ragazza madre, orfanotrofio. Poi a 7 anni lei si sposa con un inglese, mi preleva e mi porta con lui. Sono la sua ferita, lei non ama stare con me. Beh se togli un gatto da una scatola...
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Ma a che serve il “Padre” quando sei grande?
27 ottobre 2012
Ciao Claudio nell’ultimo post inviti Federico, emancipatosi contro le resistenze del padre, a cercarsi dei “padri simbolici” che lo aiutino nel suo futuro percorso. Ma a cercarsi figure paterne in carne ed ossa da adulti è facile restare delusi (anche se serve per “andare oltre”). I racconti...
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Ho una nuvola nera sulla testa! Che fare?
20 ottobre 2012,
Ciao Claudio, ho lasciato la casa dei miei a 37 anni appena compiuti, per un lavoro nel nord Italia, a 1000 km da casa. Mia madre mi incitava a partire e mio padre a restare, finchè mamma e sorella l’hanno zittito. Inizia così la mia emancipazione. Però non ero preparato ad affrontare il nuovo lavoro...
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Amo la mia ragazza libera
13 ottobre 2012
Ciao Claudio, ho vent’anni e volevo dire la mia sulla libertà sessuale della ragazze.  Mi colpisce che sul blog sia un tasto dolente per molti maschi,  e anche donne.  Io dai 15 anni ho avuto due ragazze importanti.  Nessuna di loro era vergine, né me l’aspettavo.  Nessuna mi ha tradito, né... CONTINUA A LEGGERE

Di quelle che amo, perdo il telefono!
6 ottobre 2012
Ciao Claudio, perché faccio sesso con una persona che  non fa per me, e lo evito  dove fiuto qualche possibilità di intesa profonda? In quei casi salta fuori una mia sbadatezza (o lapsus, come nel post di cui parlavi due tre settimane fa), che impedisce la continuazione del rapporto. Tipo: dò un... CONTINUA A LEGGERE

Ora amo. Perché “sono”
29 settembre 2012
Ciao Claudio, interessante quel che dici nell’ultimo post: solo un senso di sé forte è in grado di reggere l’amore dell’altro. Per me, nei primi quarant’anni di vita, è stato così: un matrimonio fallito, e diversi rapporti importanti naufragati. Non reggevo quando le donne si innamoravano...
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E se il mostro fossi io? Perché sul più bello la rifiuto?
22 settembre 2012
Ciao Claudio, che fare quando il “mostro” siamo noi? A me ogni tanto sembra di esserlo. Capita quando lei è così affettuosa, indifesa e disponibile e, proprio allora, mi viene in mente qualcosa di stupido che lei ha detto, o una circostanza dove lei si è mostrata inadeguata. O brutta, o malvestita....
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Era distrutto. Ho gongolato. E’ una vittoria?
15 settembre 2012
Ciao Claudio la ferita è guarita quando ho smesso di rimestarci dentro, non potevo sanguinare in eterno, dovevo metterci una garza e lasciarla cicatrizzare. Ora non c’è più  (l'ho capito quando ho scoperto che ero ancora in grado di emozionarmi davanti ad un cielo stellato), ma è rimasta una parte...
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Non lasciarti ferire invano!
8 settembre 2012
Ciao Claudio, di post in post molto si chiarisce. Dolore e esperienze negative ci aiutano a cercarci e a scoprire il nostro Sé, a volerci bene. Mettere la nostra vita nelle mani di un altro diventa allora impossibile, sarebbe l'amore del bambino per la mamma, l’espressione di un bisogno assoluto....
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Ho trovato le prove: l’altro è un mostro! E adesso?
1 settembre 2012
Ciao Claudio, era (a suo modo) una bella storia. Poi un giorno per caso trovo una risma di fogli dattiloscritti. La cronaca dettagliata e quotidiana della nostra storia, eventi e discorsi condivisi. Ma la cosa orribile era che a fondo pagina c'era sempre una nota di biasimo per me tipo:.. siamo stati...
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La passione erotica. Come non farsene possedere?
25 agosto 2012
Ciao Claudio, e tutti, la questione "passioni" continua ad intrigarmi/ci, non credo solo per la calura estiva. In tanti, vedo, desideriamo un’ esistenza animata dalla passione. Che si accende in me con facilità: per gli altri, per il mio lavoro, la conoscenza, il bello... La passione erotico-amorosa... CONTINUA A LEGGERE

Un lavoro che ti appassioni è solo un lusso?
18 agosto 2012
Ciao Claudio, vorrei parlare di un altro aspetto della passione: quello del lavoro. (  Il tema c’era anche nei commenti di Nico). Ho 22 anni, tiro in là faticosamente scienze politiche fatta su pressione della famiglia che mi vorrebbe in un impiego statale: da brividi. Io vorrei metter su qualcosa...
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Passioni di cuore e “di pene”, e arti femminili.
11 agosto 2012
Ciao Claudio, e tutti. Vorrei capire meglio la differenza tra “passione di cuore e passione di pene” di cui parlano Roberto ed altri nell’ultimo post. Tolto il desiderio sessuale di un momento (ma è già “passione”?), la passione “di pene”, orientata in maniera forte verso una precisa...
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Come si accende la passione?
4 agosto 2012
Ciao Claudio, grandi cambiamenti da quando ti ho scritto!  Esco con gli amici, feste, vedo un sacco di ragazze. Anche i maschi sono entusiasti di me, e se io posso fare qualcosa per loro ci sono sempre. Ma manca qualcosa. Mi interessa una ragazza intelligente e sensibile. Mi sembra che mi veda come...
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Come insegnare la responsabilità ai figli?
28 luglio 2012
Ciao Claudio, il vostro dibattito sulla responsabilità mi spinge a chiederti: quando e come insegnarla  ai figli ? Io  ho due maschi , uno di cinque e uno di otto anni; come aiutarli ad essere responsabili senza annoiarli e farsi mandare a quel paese? Non c’è il rischio di sviluppare un “dover...
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Dal lamento alla responsabilità. E’ ora di fare.
21 luglio 2012
Ciao Claudio, il dibattito seguito al post di Mario ha mostrato come sia difficile vederci come siamo. Argomenti come: “gli altri non sono meglio di noi”, o accuse di disfattismo a chi critica, provano solo quanto siamo infantili e in fondo ‘mammoni’, sempre in attesa di mani amiche. Io la vedo...
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Ma l’Italia in che pianeta vive? Perché tornare?
14 luglio 2012
Ciao Claudio, ho 37 anni, lavoro in Inghilterra da anni, sono in Italia in vacanza e allibisco leggendo le ironie dei giornali italiani di oggi su come si vestono Bill Gates e Warren Buffet, e  la sgridata a Mario Monti perché si è presentato senza cravatta a una riunione nelle montagne dell’Idaho...
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Farcela da soli? Dopo madri così: IMPOSSIBILE!
7 luglio 2012
Ciao Claudio, la questione uscita nell’ultimo post, posta insistentemente da Roberto, Gabriele ed altri, mi riguarda. Anch’io ho avuto una “madre cattiva”; la mia mi cacciava via quando voleva guardare la TV o parlare con le amiche; mi strappava agli amici per  riempirmi improvvisamente di botte,...

STO PER DIVENTARE PADRE. MA CHI E’ IL PADRE?
30 giugno 2012
Ciao Claudio, ho 28 anni, e tra poco sarò felicemente padre. Ma chi è/cos’è un padre? A parte le ovvie stupidaggini sul fatto che all’occorrenza cambi pannolini e che per solito non allatti, etc. cosa lo rende indispensabile? Da quel che dici e scrivi, forse potresti dirmi qualcosa di interessante....
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Canoa per me, yoga per lei. A ciascuno la sua vacanza!
23 giugno 2012
Ciao Claudio, quest’anno con mia moglie avremmo deciso di prenderci 10 giorni di vacanza per conto nostro, mentre l’altro tiene i due bambini, 9 e 7 anni, maschi. Io vorrei fare un po’ di canoa sui torrenti, lei meditazione e yoga. Le famiglie però sono scandalizzate, e gli amici temono pericoli... CONTINUA A LEGGERE
 

Dov’è la mia “Terra lontana”?
16 giugno 2012
Ciao Claudio, il dibattito del blog (ultimi post soprattutto), mi riguarda da vicino. 25 anni, posto pronto, ragazza innamorata, ok. Genitori, (con leadership materna) attivamente collaboranti. Io però mi riconosco totalmente nell’ultimo commento di Roberto, dove dopo aver detto “la ferita nell'Anima...
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La mamma mi cerca un amante ricco! Sono senza parole.
9 giugno 2012
Ciao Claudio, mio marito, 40 anni ha perso il posto, abbiamo 2 bambini, e non è una passeggiata. A turbarmi però è che mia madre, che l’ha sempre considerato un incapace perché  ritiene me ( e lei) “superiore”, ha cominciato un’insidiosa campagna perché lo molli, o almeno mi trovi un amico...
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Lei mi vuole in azienda. Ma io la detesto!
2 giugno 2012
Ciao Claudio ti prendo in parola: per essere felici occhio all’anima.  Se l'anima  ha però a che fare con emozioni e sentimenti (come mi sembra d’aver capito) non riguarderà solo le questioni d’ “amore”, immagino. Per esempio i miei sentimenti (ho 23 anni)  mi chiedono anche: che lavoro... 
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Stiamo insieme da sempre, tutto OK. Ma sarà amore?
26 maggio 2012
Ciao Claudio, lei vuole che la sposi. Siamo insieme da quando avevamo 16 anni (ora siamo a 25), tutto OK, ma....Non certo per “tenermi libero” sessualmente, ma non mi sento “pazzo di lei” come forse dovrei essere, e in fondo non sono mai stato ( lo è stata certamente lei, da subito). Abbiamo... 
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Amo i maschi “perturbanti”. E’ un guaio?
19 maggio 2012
Ciao Claudio, d’accordo con l’ antiviolenza del blog. Perché però gli uomini che amo di più sono delle bombe a orologeria? Molto gentili, ma appassionati alla forza e al rischio, che esprimono sia nel tempo libero che nell’amore. Fuori da ogni formalismo, di ogni tipo. Con le donne creano un’intimità...
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Leggerezza, come trovarti?
12 maggio 2012
Ciao Claudio, scrivi sul blog che per seguire il movimento della vita bisogna anche essere leggeri.. La leggerezza io l’ho sempre rimossa dalla mia vita, come una colpa. Sarà che la confondo con la superficialità? Il cristianesimo ha messo sul selvatico Cristoforo il peso del mondo facendogli portare... CONTINUA A LEGGERE

Violenza e aggressività. Non ne posso più!
5 maggio 2012
Ciao Claudio, ho 27 anni e  non sopporto più la violenza della vita quotidiana. Quella contro le donne, continuamente aggredite, e spesso uccise; contro i bambini, ancora pestati, molestati, maltrattati; contro gli omosessuali, anch’essi aggrediti e a volte ammazzati; contro i deboli ( o i forti,... 
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Aiuto! Mi sono laureato
28 aprile 2012
Ciao Claudio, prima anni persi anni in una facoltà iperscientifica, non proprio le mie materie. Poi anno di obiettore di coscienza. Ricomincio l'università a Farmacia, tentato di mollare tutto, quando finisco è una gioia! Però ho 28 anni, voto mediocre.  Ora per trovare lavoro dovrei lasciare il...  CONTINUA A LEGGERE

Quel mio figlio chiuso in casa. Come liberarlo?
21 aprile 2012
Ciao Claudio, mio figlio ha 26 anni. Diploma, università, dieci esami con profitto, un ragazzo a posto. Conosce una ragazza in chat, si mettono insieme un anno, poi si lasciano. Va in confusione, non sa più cosa volere dalla vita, ansia, depressione. Dramma. Prima psicoterapia inutile. Vuole risposte...  CONTINUA A LEGGERE

 

Dopo le medie? Il buio
, 9.4.2012
Ciao Claudio, sono molto preoccupata. Tra poco mio figlio farà l’esame di terza media, ma più che una festa, io e mio marito vediamo davanti un tunnel buio. Gli insegnanti e la loro indicazione orientativa? Chi ha detto mandatelo al liceo, chi alla scuola professionale (2 anni), chi in un istituto professionale (5)… Per quanto vediamo  noi sono rare le scuole di qualsiasi tipo che preparano veramente i ragazzi, che danno la possibilità di affrontare il futuro in modo dignitoso. Anzi, a dire la verità, mio figlio non mi sembra preparato neppure ad affrontare le superiori, tante sono le lacune che vedo ovunque nonostante i voti sempre sufficienti. Cosa decidere? Il ragazzo, 14 anni, non capisce l’importanza della situazione. E poi: di che strada parliamo  se si parla solo di crisi, chiusura di aziende e niente lavoro? Mah, ciao Ida

Ciao Ida, s’è inceppato tutto, e la scuola lo era già prima. Quindi, primo: educatelo voi, parlandogli, spiegando la situazione, facendogli capire che molto (quasi tutto) dipenderà dalla sua capacità di farsi carico di se stesso e prontezza a reagire alla situazioni.  LUI deve intuire cosa vorrebbe fare, cosa gli interessa, dove sarebbe disposto a impegnarsi: aiutatelo a farlo. Nessuno sa dove indirizzarlo? Fatene una risorsa: che si impegni lui a capire. Poi magari si cambia. Ma finché lo si tratta come un pacco, sarà “un pacco”, un peso per sé e per gli altri. Mentre nelle crisi lunghe e prolungate, si può contare solo su se stessi, sulla propria forza vitale. Secondo: flessibilità. Tutto cambia. Non ci sono (ma già da un bel pezzo), scuole  per sempre. Parliamone con te, e con gli altri, ciao, Claudio

Papà finalmente se n’è andato! Come faccio adesso?
Scritto da , 31.3.2012
Ciao Claudio, nei due post ultimi di Rinaldo e Andrea c’è lo stesso evento che ha segnato la mia storia di donna. Il padre se ne va o è buttato fuori e cosa succede ai figli. Si è visto come va ai maschi, ti dico come è andata a me. Papà aveva un’altra. Mamma furiosa, io e mio fratello anche. Buttato fuori, etc. La mamma si prende nel letto, “per consolarlo” mio fratello minore, 8 anni. Ne uscirà a 16, ma sarà sempre il suo cocco (io non lo ero mai stata, troppo indipendente e passionale, come il mio cattivo papà, mammà è freddina come un pesce lesso). Dopo una fase di imbranamento, mio fratello diventa un seduttore seriale, che se non ce l’ha più lungo di tutti muore. Io più tardi  ritrovo un rapporto con papà, che per la verità l’aveva sempre cercato, e il suo apprezzarmi come persona ha rimediato alla freddezza della mamma,  persa dietro il fratello. Ora, 37, a me va meglio. Direi che papà serva ad entrambi. Per lui a diventare uomo, senza che sia una donna a dirtelo, e per la figlia papà è indispensabile per essere amata come persona da un uomo che ti ama senza portarti a letto. Mina
Ciao Mina, storia importante e frequente la tua. Il grande potere della madre  dopo la cacciata del maschio “indegno” spesso invade e copre un po’ tutto: i rapporti di sangue, le differenze di genere, i confini tra affettività e sessualità in sviluppo, ponendo le basi per altri guai. Tu sei tornata a galla, e rinata come persona di genere femminile, capace di autostima e senso di sé e dell’altro, ritrovando il rapporto col padre e guadagnando un valore personale femminile negato dalla madre persa nell’amore per il figlio e nella competizione con le altre donne. La tua storia aggiunge un tassello allo scenario del padre assente: oltre al maschio abbandonato alla madre, la mancata costruzione di un solido ponte  che aiuti la figlia ad entrare con sicurezza nel mondo e nella società. Parliamone con te e con gli altri, ciao Claudio

Tra maschi: volersi bene o competere?
Scritto da 24.3.2012
Ciao Claudio, mi riconosco quasi totalmente nell’Andrea del post precedente, anche se sono un po’ più giovane, 24. Senza padre, nessuna figura maschile importante, squadra di sorelle, zie, maestre. Solo, assediato, e deriso da tutte. E dai maschi che mi vedevano prigioniero delle donne. Mamma, sorelle etc, e amici mi chiamavano: “il poeta”, e giù a ridere. Sono fuggito in Inghilterra, studio e lavoro, ma anch’io come Andrea non so gestire aggressività, emozioni e organizzarmi bene. Anche se qui sono tutti più “cool”, freddi, e questo un po’ aiuta. Però quando dopo la partita si ubriacano tutti, vomitano  e ti cadono addosso per strada, i “fratelli maschi” mi fanno un po’ schifo. “Fai pace col maschile”, hai detto ad Andrea…ma come si fa? Anch’io non accetto il confronto con gli altri… E scappo. Anche dalle donne che stanno al gioco scemo dei maschi premiando il più forte ( o sono gli uomini che stanno al gioco delle donne, di mettere i maschi in competizione tra loro?). Help! Rinaldo
Ciao Rinaldo, uno dei miti della società senza padri è che il mondo maschile sia fondato sulla competitività, mentre si è sempre retto sulla solidarietà. Senza la quale nessun esercito avrebbe mai vinto una sola battaglia. Poi, certo occorre anche competere. Che è uguale a: superare le prove, quindi diventare capaci di disciplinarsi, e organizzare le proprie forze. Prima però, è necessario essere solidali, rispettare se stessi e gli altri. Tutto questo sapere maschile non è più stato trasmesso da padri assenti, o cacciati, ed ora i maschi devono ritrovarlo. Senza di esso  perdono  il piacere di vivere: meglio dunque impegnarsi seriamente a riconoscerlo. Parliamone con te, e con gli altri. Ciao, Claudio
Scrivere a : lavitasacra@claudio-rise.it

 

Dal bisogno al desiderio delle donne. La sfida maschile
Scritto da , 17.3.2012
Ciao Claudio, mio padre non c’è stato, e io sono insicuro con le donne. Le ragazze fuggono perché percepiscono (non so come) allo stesso tempo la mia insicurezza e il mio eccessivo bisogno di loro. Mi invaghisco di qualsiasi femmina carina che mi faccia una gentilezza…ma magari poi non me ne importa granché…di conseguenza non riesco a diventarne veramente amico. Eppure le donne più grandi mi fanno spesso complimenti (forse si sentono al sicuro da ogni avance perché sono più giovane). Ma senza donne è triste! Sono riuscito ad andarmene via da mia madre, e ora sto molto meglio: sono più me stesso. Contrariamente a quel che temevo, non sento la  mancanza sua (né dei suoi manicaretti e varie cose), anzi mi sento libero dalla sua intrusiva, costante, presenza. La mia indipendenza ha lunghe solitudini che cerco di occupare con studio, passeggiate e distrazioni varie.  Quando però si arriva al week end e i vecchi amici se ne stanno a casa a spupazzarsi con la donna tu sei  lì a guardare il soffitto ed aspettare che torni il lunedì per poter riprendere la routine e non pensare. A volte lo sconforto ti invade. Ciao, Andrea
Ciao Andrea, hai già fatto una grande cosa: andar via da una madre da cui eri dipendente. Ciò  dovrebbe rafforzare il tuo “senso di sé”, e renderti più fiducioso delle tue forze. Che aumenteranno se accetterai di uscire dal “bisogno” della donna, per sviluppare invece un autentico “desiderio” per lei. Tu stesso ammetti che per ora “non te ne importa granché”. E’ il desiderio che deve crescere, ma ciò accade quando accetti di essere tu a   nutrire   i tuoi sentimenti ( come hai già fatto col tuo corpo, lasciando i manicaretti della mamma). Occorre sostituire vere “passioni” personali (culturali, estetiche, sportive, etc.) alle “distrazioni”, e smettere di vivere in attesa di “lei”, per poterla davvero incontrare. Parliamone con te e con gli altri, ciao Claudio
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Troppo buona con gli uomini
Scritto da , 10.3.2012
Ciao Claudio, ho 29 anni e un fidanzato che amo. Ma non riesco a lasciare del tutto i ragazzi con cui ho avuto  storie  più o meno importanti. Quando loro mi cercano,  fatico a tenerli alla larga, e prima o poi mi faccio trovare. Provo con difficoltà a mettere il rapporto sul piano dell’amicizia, il fidanzato si irrita (sente che la cosa non è pulita del tutto), e sono in imbarazzo.  Il sesso non c’entra. Ma mi sembra di far loro del male inutile, mi inteneriscono, hanno bisogno d’affettoPerché non riesco a essere più cattiva?  Patti
Ciao Patti, di solito è meglio diffidare quando ci diciamo che dietro un nostro comportamento poco convincente c’è la nostra  eccessiva bontà.  Quando imbrogliamo (magari noi stessi), viene comodo raccontarci di farlo per il nostro cuor d’oro. Spesso, però, c’è un interesse. Quale? Nel tuo, come in tanti casi analoghi, mi sembra che c’entri la gratificazione che il tuo narcisismo riceve dalla loro presenza, da questi inconsolabili che non possono fare a meno di te. Più che la loro “tenerezza”, sembrerebbe  il tuo bisogno di essere cercata e desiderata a farti essere ambigua quel che basta a non decimare gli (ex) spasimanti. Altrimenti troveresti il modo giusto di presentarti a loro, e potresti verificare se sono davvero interessati a te come persona, e all’amicizia. Dietro ogni bisogno narcisistico, c’è poi, naturalmente, un’autostima vacillante. Parliamone con te, e gli altri, ciao, Claudio
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Per favore, non mordermi sul collo!
Scritto da , 3.3.2012
Ciao Claudio, a volte (anche in questo blog), mi sento ferito. Dalla violenza. Ho 24 anni e da sempre soffro l’aggressività smisurata, gli attacchi personali, l’insofferenza per le opinioni diverse. Nel post “Ma come fanno i marinai…”, ma anche in altri su temi forti (es. Vorrei separarmi. Ci ucciderà?), mi sembra che molti – uomini e donne – cerchino proprio la rissa, mettere a tacere l’altro, annichilirlo! Mi ricorda ( quando in classe, i più forti a volte se la prendevano con i deboli e insicuri, o le belle “prepotenti” con quelle meno determinate . Attorno a me, a noi,  accade in continuazione. Perché? Come evitarlo? Non ne sono mai stato vittima diretta, forse perché ho stima di me, e gli altri magari lo sentono, e non mi attaccano. Ma esagero nel soffrirne per gli altri (pure i “carnefici”mi sembrano così malmessi..)? Clemente
Ciao Clemente, il malessere prende le strade che può, per uscire da “dentro”. Quando rompe dei codici stabiliti, salta fuori, in psicologia si chiama “acting out”, agito, e non è un buon segno. L’aggressività compulsiva, zittire o insultare sullo schermo di un computer un altro che non hai mai visto e di cui non sai nulla, è oggi uno degli sbocchi più facili, con meno rischi (se lo fai in tram magari ti prendi un cazzotto, o l’altro chiama un vigile), e ti dà una sensazione di potenza che compensa altre frustrazioni. Certo, non fa star bene neppure chi lo fa, il “carnefice”, come lo chiami. E intossica chi c’è intorno. Nella sua faticosa sgradevolezza, ha però una sua paradossale funzione, oggi. Discutiamone con te, e con gli altri, ciao, Claudio

“Ma come fanno i marinai….a baciarsi tra di loro e a rimanere veri uomini però…”
Scritto da , 25.2.2012
Ciao Claudio, intorno a Natale un uomo incontrato in un forum di viaggi mi ha chiesto di farci gli auguri: ci siamo visti, qualcosa è scattato. Ha 44 anni (io 40), divorziato, è nella Marina militare, il suo matrimonio è “naufragato” per le sue assenze per mare.  Oltre il feeling c’è subito stato fra noi un dialogo aperto e sincero. Con lui posso essere come sono, mi scopro nella mia realtà e avverto molto calore. Insomma, mi sento accolta come raramente accade. E’ determinato, e si sciroppa 250 km x una serata con me. Dice che è innamorato e che ciò gli dà un’energia incredibile. Io sono rifiorita dopo una storia con un ragioniere dei sentimenti. Nell’ultimo incontro si è parlato del suo lavoro, di come si sopravvive mesi in mare senza mai sbarcare, del cameratismo,…ed è uscito che capita che si faccia sesso fra uomini x scaricare le tensioni. Dice che non si tratta di omosessualità, e che non ha nulla a che fare con lo stare con una donna, dove c’è amore e tenerezza. Questa rivelazione è avvenuta in un momento rilassato ed intimo, dopo  aver fatto l’amore, disponibili ad ascoltare tutto dell’altro. Dopo però sono andata in tilt.… Di notte mi sveglio in ansia e vedo come un sabba di uomini che si accoppiano fra loro. Sarei tentata di chiudere ma forse sarebbe solo una fuga…mi aiuti? Veronica.
Ciao Veronica, quest’uomo ti ha svelato un grande tabù. Anche se gran parte della psicoanalisi riconosce una bisessualità di base negli umani, l’idea che o si è etero o si è omosessuali è tuttora dominante, proprio per la sua rassicurante semplificazione. Il tuo amico, come molti altri nella storia delle marine, di altri corpi militari e comunità maschili, alterna momenti di intimità fra uomini alla tensione (che tu stai sperimentando) affettiva e sessuale verso la donna. Fa parte di una lunga tradizione maschile, non a caso tabuizzata in quest’epoca di “liberalizzazioni”. Parliamone con te, e gli altri, ciao, Claudio
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Il mondo va in aria. Ma lei non vuole parlarne.
, 18.2.2012
Ciao Claudio,ho 25 anni e sono piuttosto scosso da “come va il mondo” (crisi, Atene che brucia e l’Italia in miseria, atomica iraniana, Israele sotto tiro etc.). Sono tra l’altro di religione ebraica, e mi sento coinvolto in prima persona. Tutto ciò mi interessa molto, parlarne mi appassiona e mi fa riflettere su “grandi problemi”: vita, morte, stili di vita, etc. La ragazza che amo, però, comincia a irritarsi, dice che non mi interesso a lei come prima, che la trascuro per storie su cui non si può far nulla; mi sembra annoiata. Però per me partecipare anche con l’emozione a cosa succede è più soddisfacente che far finta di niente. Che ne dici? Ciao, Francesco
Ciao Francesco, capisco bene, anch’io penso che siano tempi speciali, terribili e interessanti. Per tutti è importante vivere nel tempo, ma per i giovani è essenziale, fa parte della formazione personale. E’ vero che esiste il rischio di farsi travolgere dai contenuti emotivi dell’inconscio collettivo, che diventano particolarmente intensi in vicende che coinvolgono quasi tutti i popoli, come oggi. Può accadere insomma (specie nei più giovani, ma non solo), che la personalità individuale, l’Io, venga soverchiata dalle emozioni di massa. Una situazione ricca e intensa, ma con qualche problema per l’equilibrio personale. E’ però un rischio da correre: il mettersi fuori dal tempo, di cui ti senti partecipe, potrebbe fare anche peggio. Mantenere viva l’attenzione per la ragazza che ami, può aiutarti a “tenere i piedi per terra”: occorre bilanciare partecipazione al mondo, e affettività personale. Ora sentiamo gli altri, e anche te, ciao Claudio
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Via questo cordone ombelicale!
, 11.2.2012
Ciao Claudio, nei tuoi libri tu parli spesso della fatica maschile di rompere con la mamma e uscire di casa. Io ho 34 anni e nella mia vita ho avuto una forte presenza femminile di mamma e zia. Leggendo come tu spieghi la “matrizzazione” del maschio di oggi m’è venuto il sospetto di non essermi  mai davvero  staccato dal mondo materno: in effetti non ho avuto una vera iniziazione al maschile ( in parte la cerco immergendomi nella natura). Ho avuto anche qualche buon risultato in vari ambiti lavorativi e di interesse, ma ad un certo punto mi blocco. Un esempio tra tanti: ho fatto un ottimo master in comunicazione discografica che mi ha permesso di unire la passione per la musica all’economia che ho studiato. Ma dopo lo stage non mi sono impegnato fino in fondo per farlo diventare un lavoro (anche dal punto di vista delle relazioni)…e sono tornato a casa. Non ho ancora tagliato il cordone ombelicale? Ciao a tutti Juan
Ciao Juan, per capire meglio come sei messo serve qualche informazione in più. Per esempio se quando dici “torno a casa” intendi proprio la casa della mamma, o è una metafora per dire, che ne so, che non ti stacchi dalla città ( o dalla nazione)?  Oppure: di maschi in casa non c’era nessuno? Padre, fratelli, zii? Comunque, già da quel che dici, e dal fatto che sia tu a dirlo per primo, parrebbe che sì, il cordone non l’hai ancora tagliato (come moltissimi maschi, oggi). Altrimenti ti impegneresti, per esempio, ad avere una tua casa, un tuo lavoro (visto che gli interessi non ti mancano), con relazioni e affetti  tue, che esprimono la tua propria vita e personalità. I blocchi che tu descrivi si presentano spesso   proprio per impedirti di lasciare la madre, e realizzare te stesso per quel che sei.  Così, però,  la “casa”, che è  anche potente simbolo della personalità, rimane quella della mamma. Aspetto dunque che  tu mi racconti qualche altra cosa di te, e di sapere che ne pensano gli altri, ciao, Claudio
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Ma chi vede, quando mi guarda?
, 4.2.2012
Sia per mio gusto che per lavoro, consulente di marketing, sono sempre impeccabile e elegante
. Ma  per il mio fidanzato, 18 anni più di me, così non va bene. Ho 35 anni e faccio un lavoro in cui l’immagine conta (sono anche beauty editor), inoltre la considero una forma d’arte.  Lui però mi vorrebbe con abiti ultra-fashion e sexy.  Per giunta, da sfilata, costosissimi, che non metti di certo per andare al ristorante sottocasa. Me lo passa per complimento: “hai l’età per indossare”. Ma mi ferisce perchè mi sento “non vista” da lui. Come ci vogliono questi uomini? Donne che di giorno sfoderano tailleur manageriali e di sera escono da una sfilata di alta moda? O  è solo un sognatore? Poi si chiedono perché siamo così insicure e insoddisfatte. Ma se neppure ci vedono! Ciao, Giovanna

Ciao Giovanna, probabilmente il tuo fidanzato  “vede” non te ma una sua immagine ideale di donna, un’indossatrice sexy che non va né in azienda né nel ristorante sotto casa. Da un certo punto di vista è un “sognatore”, come tu dici. Spesso però queste persone hanno grandi difficoltà ad amare realmente le persone in carne ed ossa, ad avere “oggetti d’amore” umani, reali. Sono  a volte personalità (più o meno fortemente) sociopatiche che vedono  gli altri come strumenti, e vivono le donne come modo per realizzare le loro immagini erotiche interne. Fa parte della malattia di oggi: difficoltà ad amare l’altro per quello che è, di cui abbiamo parlato anche in alcuni commenti dell’ultimo post. Parliamone anche con gli amici del blog, e con te, ciao, Claudio
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Lei ha 10 anni meno. Un abisso invalicabile?
Scritto da 28.1.2012
Ciao Claudio, non molto tempo fa  rimasi attratto una ragazza di 18 anni (io ne ho 28). Lei piaceva a me, ma io non piacevo a lei. E’ acqua passata, ma mi è rimasta  questa domanda che ti/vi faccio: quanto “pesano”, oggi 10 anni di differenza? E perché? I miei genitori hanno lo stesso “gap” anagrafico, ma per loro non sembra essere troppo importante. Certo loro sono un’altra generazione… si sono sposati 40 anni fa. Come mai però il tempo passa e questo pregiudizio/discriminazione (+ vecchio, + giovane…) forse invece di indebolirsi si rafforza? Nel 2012 una differenza del genere è da considerarsi abissale? Saluti da Tommy.
Ciao Tommy, alcuni pregiudizi col passare del tempo si indeboliscono, altri si rafforzano, a seconda di cosa succede nella società. Negli ultimi decenni il mondo degli adolescenti ha progressivamente sviluppato i propri specifici stili di vita e comunicazione all’ interno, e si è più chiuso, non solo affettivamente, verso gli adulti. Il “gruppo dei pari” d’età presenta gusti, comportamenti linguaggio sempre più  ”specializzati”,  diventando  inaccessibile ai più grandi. Media e rete accentuano il fenomeno, funzionale ai consumi. Come ogni “ghettizzazione” però, ciò è anche una grave perdita (non solo sul piano affettivo), come tu hai sperimentato. I diversi gruppi d’età comunicano tra loro certamente di meno, e questa separazione di esperienze e vissuti  impoverisce tutti. Ciao, ora sentiamo gli altri, e anche te, Claudio
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Figli diversi. Che ne sarà di loro?
Scritto da , 21.1.2012
Ciao Claudio, ho 50 anni e due figli, 18 e 16 anni. Del tutto indifferenti a ciò  che interessa noi adulti: per es. soldi e carriera. In famiglia siamo professionisti affermati:  ma il grande farà il cuoco. Sono molto interessati, invece, all’amicizia. Immersi nei loro sentimenti ed emozioni, lontanissimi da ciò che consideravamo “il sapere”, sensibili ma soprattutto verso i loro pari. E con la certezza che il mondo cambierà  totalmente. Simpatici, ma che sarà di loro? Cosa faranno? Guardano disgustati  la competizione globale: come se la caveranno ? A volte mi preoccupo, a volte penso che (come dice mia moglie) sono fatti loro, e  troveranno il modo. Tony
Ciao Tony, credo occorra lasciar perdere l’idea dell’educazione  come formazione al successo-status, propria del secolo scorso. L’unica formazione proponibile oggi è quella alla vita, che i giovani più creativi si stanno già dando per conto loro. L’idea di fare il cuoco del tuo primogenito può  rivelarsi molto più felice, e redditizia, di molte “carriere” di prestigio, specie nelle circostanze attuali. Inoltre, come  il sapere paterno tradizionale (dalla Bibbia in poi) ha sempre trasmesso:  l’insuccesso è altrettanto e più formativo del “successo”.  In qualche modo lo  attraverseranno, per diventare veramente “grandi”. Tanto più in una situazione di crisi ricorrente del sistema economico e sociale. Non dobbiamo lasciarci atterrire dalla paura: solo loro costruiranno il proprio futuro. Se  insegnamo loro ad essere autentici, e a rispettare sé e gli altri, ci saremo già “guadagnati la nostra giornata” di genitori. Ora sentiamo anche gli altri, e naturalmente anche te, ciao Claudio
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Vorrei separarmi. Ci ucciderà?
Scritto da 14.1.2012
Ciao Claudio, avrei deciso di separarmi ma ho paura dell’instabilità di mio marito ( non gliel’ho ancora detto, ma forse percepisce qualcosa), di fronte alla rottura della famiglia.  Scenate, oppure slanci amorosi improvvisi, giorni in cui quasi non parla, sguardi tristi, sempre attaccato ai bambini (3, dai quattro ai dieci anni). Sono, naturalmente, anche impressionata dalle stragi e/o i suicidi, dei padri che rifiutano la separazione. Perché gli uomini fanno così fatica a chiudere un rapporto? C’è un pericolo psicologico forte, per lui, o per noi? Timor
Ciao Timor, non ho abbastanza elementi per esprimermi sulla vostra situazione, forse ce li fornirai tu, e la discussione. Poiché me lo chiedi, ti confermo però che, come dicono le cronache, una separazione non voluta apre spesso un rischio psichico grave per il marito-padre. Ciò è dovuto al fatto, generalmente trascurato nei commenti sui vari casi, che per come è applicata la nostra legislazione in materia, l’uomo da cui la moglie si separa perde di fatto, oltre alla moglie, quasi interamente il rapporto coi figli (specie se piccoli), e la casa famigliare (che a volte viene dalla famiglia di lui). Si tratta di tre perdite affettive e simboliche che (al di là dell’aspetto economico, rilevante), possono distruggere l’identità di una persona ed il suo senso di sé. La strada viene così aperta, potenzialmente, a disorientamento, disistima, depressione: se non sei più quello che fino ad allora sei stato, puoi precipitare nel nulla. In quella situazione ormai patologica, può irrompere la spinta a distruggere anche quelli che sono stati ( e ancora sono) i tuoi oggetti d’amore.  Questa è (per risponderti) spesso la condizione psichica dell’uomo di fronte ad una separazione che non vuole. Occorre saperlo, non per non separarsi ma per ridurne al massimo i danni, presenti e futuri. Ora sentiamo gli altri, e anche te, ciao, Claudio

 

 

2013: Diario di Bordo

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Lasciate liberi i vecchi di scordare la parte
(Di Claudio Risé, da “L’Ordine”, allegato cultura a “La Provincia di Como”, 22 settembre 2013, www.laprovinciadicomo.it)
L’Alzheimer che ha colpito Sean Connery e Jack Nicholson, relegandoli nell’oblio, è la spia di un mondo che non presta più attenzione alle vere necessità dell’anziano, prima di tutte quella di essere finalmente libero di essere se stesso
Gli ultimi famosi vittime dell’Alzheimer (per ora) sono due grandi attori dei nostri anni: il re degli OO7, Sean Connery, e Jack Nicholson, che ha fatto del suo volto la maschera del terrore e della follia. Due protagonisti grandi e spesso “cattivi” che oggi si ritirano dalle scene, inghiottiti (si dice) dall’oblio. Il fatto è che il pubblico si ricorda benissimo di loro, ma loro non ricordano più le parti.
È già accaduto a grandi scrittori, come Agatha Christie o Iris Murdoch; statisti come Ronald Reagan e Margareth Thatcher, protagonisti dello star system. I “grandi vecchi” concludono la loro vita nella dimenticanza e nel silenzio, vengono nascosti dai familiari, non dirigono e non orientano più nessuno. Anzi diventano sempre più spesso essi stessi bisognosi non solo di cure, ma di guida, attenzioni. Loro che emozionavano il mondo, diventano inespressivi, sembrano non provare più nulla.
Come mai questi personaggi vincenti nelle professioni, nella popolarità, nel cuore delle folle, sembrano smarrire la loro presenza nel mondo, e lo stesso gusto per la vita?
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Vogliono uccidere il Padre
(Intervista a Claudio Risé, di Davide Brullo, da “La Voce di Romagna”, 18 agosto 2013)
Un libro dello psicoterapeuta più scomodo d’Italia fa tremare i perbenisti. E si scaglia contro una società che tenta di distruggere la figura paterna fondamentale
I giornali si sa, come si dice, “sguazzano nella polemica”. Maneggiato da una certa stampa, perciò, l’ultimo libro di Claudio Risé, “Il Padre. Libertà, dono“, edito da Ares (Milano, 2013), è stato usato come una clava contro la devastazione morale del mondo odierno.
Giusto: se le mamme sono voraci “sciupamaschi” e i babbi indossano il grembiulino da cucina dopo essersi accuratamente adornati con il contorno occhi, non lamentiamoci se i figli crescono cretini, per lo meno disorientati.
C’è una magnificenza, una magniloquenza nell’ordine naturale delle cose che una patetica idea di uguaglianza (le donne possono farsi maschi e i maschi, magari, partorire i figli, come fantomatici, orribili, dèi) e uno scaffale di leggi non possono abolire.
Al di là delle opinioni e degli schieramenti (i paladini del progresso, pur nel covo dell’abisso e quelli della restaurazione a colpi di Croce), c’è una “ragione” nel testo di Risé, una profondità, che per una volta tanto non meritano lo strillo, la fuciliera da esaltati.[Continua a leggere l'Articolo/Intervista - clicca qui]

 

Il padre e il grande esodo verso la libertà dell’uomo
 (Intervista a Claudio Risé, a cura di Gioia Palmieri, da “Il Giornale del Popolo”, 17 agosto 2013, www.gdp.ch)
In ciascuno di noi è forte l’idea che l’essere liberi consista nella possibilità di fare ciò che vogliamo quando vogliamo. Ma pochi di noi sono fino in fondo consapevoli che ogni scelta implica la sequela di qualcuno che ci invita a perseguire o rifiutare un bene. Chi allora oggi, tra tutte le scelta che la società propone e impone, è veramente in grado di risvegliare la libertà dell’uomo orientandola verso il suo vero bene?
L’ultimo libro di Claudio Risé, “Il padre. Libertà dono” (Ed. Ares, 2013) risponde a questa domanda. «Il padre è colui che ci porta e ci guida nella realizzazione del nostro personale destino risvegliandoci alla consapevolezza di averlo, di avere una chiamata personale e concreta a cui rispondere», ci spiega lo psicanalista di fama internazionale.
«Il padre, come il Dio degli ebrei, ci indica la strada della liberazione dalla schiavitù», che oggi consiste nella condanna a ripetere gesti senza capire, a chiudersi in ossessioni, paure e dipendenze sempre più logoranti e diffuse». [Continua a leggere l'Intervista a Claudio Risé - clicca qui]

 

La libertà: un dono di ogni padre
(Intervista a Claudio Risé, di Luca Marcolivio, da “Zenit”, 19 agosto 2013, www.zenit.org)
Tra i libri in corso di presentazione alla XXXIV edizione del Meeting di Rimini, c’è Il padre. Libertà. Dono (Ares, 2013) di Claudio Risé. Il noto psicoterapeuta ha già all’attivo numerose pubblicazioni sul tema della paternità.
In questo nuovo saggio, Risé ha voluto analizzare un aspetto relativamente poco studiato delle dinamiche psicologiche familiari, ovvero il modo in cui l’autorità paterna, lungi dal reprimere la personalità del figlio, lo aiuta nella conquista del bene prezioso della libertà.
Per conoscere i contenuti de Il padre. Libertà. Dono, ZENIT ha intervistato l’autore.
Prof. Risé, lei ha già all’attivo numerose pubblicazioni sulla figura del padre. In questo nuovo volume quale aspetto particolare viene affrontato?
Claudio Risé: Ho sentito la necessità di accentuare l’aspetto della relazione tra padre e libertà, di presentare il padre come colui che porta l’esperienza della libertà nella vita dei figli. L’ho fatto per rispondere allo stereotipo diffuso secondo il quale il padre rappresenterebbe l’autorità, sarebbe una figura autoritaria. C’è poi l’ostilità di tutto il sistema mediatico, da decenni impegnato in una marginalizzazione della figura del padre, sia come padre terreno che nell’archetipo del Padre celeste. Tuttavia, la auctoritas (da augeo, “accrescere”) ha proprio la funzione di far crescere i figli, di dare spazio alla loro libertà. L’autorità, quindi, non è per il piacere fine a se stesso di esercitarla. Il punto è proprio testimoniare la libertà nella vita dei figli. Don Giussani diceva: “Libertà è la possibilità di decidere, di vedere, di riconoscere, di decidere, del proprio destino, del destino dell’irripetibile persona umana”. Dopo un indispensabile periodo di dipendenza, di fusione, che è quello della formazione del bambino, prima nel ventre materno, poi dopo la nascita, dove la fusione è necessaria per la formazione della personalità, è necessario l’intervento di una figura terza che è proprio quella del padre, che amorosamente si avvicina al bambino per distaccarlo da questa fusione con la madre e portarlo al riconoscimento della propria libertà di avere un proprio destino personale, di doversene prendere la responsabilità, di doverlo difendere dai condizionamenti: questo è il padre e questa è la ragione principale per la quale ho scritto questo libro.
Qual è invece il legame tra padre e dono (il secondo concetto espresso nel titolo)?
Claudio Risé: Il dono del padre è proprio quello di presentare la libertà al figlio. Parlo di dono proprio perché soprattutto oggi, anche concretamente, è l’unico modo che il padre ha per entrare in relazione con il figlio, anche affrontando l’eventuale ostilità della madre a conferire questa libertà al figlio. L’unico modo che il padre ha di raggiungere il figlio è il dono e un dono va fatto in modo discreto, senza aspettarsi un riscontro immediato di gratitudine. Un dono, in quanto tale, non attende conferme. Il processo di formazione dei figli dura molti anni, attraversa molte fasi, incontra molti ostacoli. Quando però il padre presenta i suoi doni, con affetto, discrezione, profondità, quei doni rimarranno, incideranno in qualche modo nella vita dei figli. Tuttavia non bisogna avere fretta, né essere avidi di conferme: anche in questo dobbiamo accettare il mistero della vita umana.  [continua a leggere l'intervista su Zenit.org - clicca qui]

 

Adulti poco attenti, le “droghe leggere” sono pericolose
(Intervista a Claudio Risé, di Annamaria Bacchin, da “Il Gazzettino”, 13 agosto 2013, www.gazzettino.it)
Mentre il Nordest sembra prendere sempre più le distanze dalla percezione della diffusione delle droghe leggere, l’ultimo rapporto del Dipartimento Politiche Antidroga (Dpa), parla invece di un incremento del consumo di cannabis soprattutto tra i giovani. A segnalarlo è Claudio Risé, psicanalista, uno dei primi in Italia a scrivere un libro sugli effetti nocivi che l’hashish produce all’organismo, “Cannabis. Come perdere la testa e a volte la vita” (Ed. San Paolo, 2007).
«Mentre in tutta Europa diminuisce il consumo delle “droghe leggere”, l’Italia va in controtendenza e indossa la maglia nera – dice Risé -, un record negativo che è, purtroppo, strettamente connesso alle lacune sul fronte dell’informazione». [Leggi tutta l'intervista - clicca qui]

 

L’amore imperfetto
Dove nasce l’attuale disorientamento della famiglia e dei suoi membri
(Di Claudio Risé, da “L’Osservatore Romano”, 14 luglio 2013, www.osservatoreromano.va)
Si moltiplicano le riflessioni orali e scritte su l’amore imperfetto. Il recentissimo seminario della Pontificia Commissione per la Famiglia su L’amore imperfetto. La madre e il padre nell’educazione dei figli, così come i recenti libri della psicologa Grazia Attili, (L’amore imperfetto. Perché i genitori non sono sempre come li vorremmo. Il Mulino), o quelli della neuropsichiatra Mariolina Ceriotti (La coppia imperfetta, La famiglia imperfetta. Ares), accettano di lasciarsi provocare dall’ imperfezione dell’amore. Sia quello che abbiamo ricevuto che quello che siamo chiamati a dare, in particolare nei rapporti tra generazioni e nel processo educativo di cui proprio l’amore è indispensabile veicolo.
Questi lavori si impegnano a rispondere alla forte domanda d’amore, insoddisfatta da modelli culturali sterili e utilitaristici oggi proposti in modo sempre più pervasivo. Ciò richiede però di andare oltre l’analisi della scena familiare.
L’attuale disorientamento della famiglia e dei suoi membri, infatti, non nasce solo al suo interno. Così il suo superamento non è ottenibile solo con una dettagliata descrizione delle dinamiche familiari. Esse rimandano sempre, infatti, ad una ferita più profonda, più ampia. Il malessere della modernità è di natura antropologica.
Oggi è in questione lo stesso statuto dell’uomo nelle sue caratteristiche fondamentali: per esempio se sia una creatura oppure (come viene sempre più spesso descritto) un creatore, se sia un soggetto dotato di libertà o un oggetto prodotto e continuamente aggiornabile e manipolabile dalle tecnoscienze.
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Per la scienza non ci sono “droghe leggere”, solo l’Italia resta nella disinformazione
(Intervista a Claudio Risé, di Rodolfo Casadei, da “Tempi”, 27 marzo 2013, www.tempi.it)
Claudio Risé, psicanalista junghiano, è autore di Cannabis. Come perdere la testa e a volte la vita (San Paolo, 2007). A lui ci siamo rivolti per commentare la rinnovata penetrazione delle tendenze antiproibizioniste in Italia e negli Stati Uniti in relazione alle cosiddette “droghe leggere”.
Professore, stando al codice di comportamento dei suoi deputati, il Movimento 5 Stelle dovrebbe presentare una proposta di legge dal titolo “Legalizziamo, tassiamo, e (con i suoi proventi) disincentiviamo l’uso e la vendita delle droghe!”, inteso da molti come un via libera alle droghe cosiddette “leggere”. Cosa ne pensa?
L’espressione “droghe leggere” non ha alcun significato scientifico da almeno dieci anni.
La cannabis non lo è, lo ha spiegato a più riprese l’Istituto superiore di Sanità nei suoi documenti.
Preoccupazione per la sua diffusione esprimono puntualmente l’Oms (Organizzazione mondiale della sanità) e l’Osservatorio europeo delle droghe e delle tossicodipendenze, che a proposito dell’Italia propone dati allarmanti: il nostro paese fra il 2001 e il 2008 ha registrato il massimo incremento di consumatori in Europa, passando dal 9,2 al 20,3 per cento nelle persone fra i 15 e i 34 anni.
I costi sociali di ciò sono altissimi e colpiscono le fasce più deboli della popolazione.
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Quando comincia la paternità
18 marzo 2013 (A cura della Redazione)
L’Ass. cristiana The Radiance Foundation, Virginia, Usa: venti cartelli stradali, centinaia di manifesti su muri e bus, contro la crisi della paternità e per invitare i padri ad amare i figli combattendo l’aborto.
Se cliccate qui sotto trovate articolo e foto del cartello stradale:
http://www.echristiannews.com/new-billboard-campaign-exposes-how-abortion-takes-the-place-of-fathers

 

L’Anima potente sta ai margini. (Quella debole si mostra).
14 marzo 2013  Psiche Lui: viaggio nell’Anima, di Claudio Risé e gli amici del blog
Ciao Claudio, volevo parlare con te/voi dell’”anima che abita ai margini”. Nel film di Bergman Sussurri e Grida (ad esempio), la serva Anna, colpita dal lutto e dalla morte, non viene distrutta da questo, ma diventa la guaritrice che scioglie l’angoscia. Chi è portatore di questa funzione salvifica non ottiene però un riconoscimento sociale, ma viene confermato come marginale: Anna la licenziano subito dopo. Significa che il “servizio dell’anima” è per forza una condizione di marginalità…(“Ecce Ancilla Domini”…) ? Certe sfumature preziose nelle relazioni con le persone in difficoltà con cui lavoro non hanno senso e visibilità sul piano sociale, dove invece sono privilegiate modalità più esteriori…Come se questa marginalità, mistero, silenzio, fosse malattia ed anche possibilità di guarigione, di sé e degli altri. Ma solo se tenuta a distanza dalla folla, riconoscimento, pubblicità. Che ne pensi? Ciao Rebecca
Ciao Rebecca, l’Anima che trasforma abita sempre ai margini, è dentro e non fuori. Non solo nelle persone, anche nelle cose (cavi, bottoni, strumenti) l’”anima” è quella che è dentro. Non si vede. [continua a leggere su Psiche Lui]

 

Quei bambini in rivolta contro i rumori
Claudio Risé, da “Il Mattino di Napoli” del lunedì, 25 febbraio 2013, www.ilmattino.it
È un popolo silenzioso, che vive con noi, ma di rado ci parla, e poco ci ascolta. Sono i nostri bambini autistici. Uno su cento è così, ma il loro numero è in aumento: in Occidente raddoppia ogni sei anni. Anche perché lo “spettro autistico”, il campo di questi disturbi, si allarga sempre di più.
In generale, gli autistici sono quelli che non giocano il nostro gioco. Nel mondo della “comunicazione” e delle chiacchiere, loro tacciono. E sono loro a decidere cosa ascoltare, cosa guardare. In un mondo sempre più uguale e uniforme, sono i diversi per eccellenza.
Il loro codice genetico è soggetto a cambiamenti assenti nelle altre persone. Le loro aree cerebrali presentano diversità da quelle degli altri, ed anche molto variate da loro. Sono un vero rompicapo per la scienza, perché la diagnosi di cosa non va è in loro molto diversa da persona a persona. E’ certo però che sono nella stragrande maggioranza maschi: 8 a 1.
Non facili da trattare, come racconta ora Gianluca Nicoletti, nel libro dove descrive la sua tenera e competente esperienza di padre di un bimbo autistico (Una notte ho sognato che parlavi).
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La crisi del padre e l’indebolimento del matrimonio
Claudio Risé, da “Il Mattino di Napoli” del lunedì, 18 febbraio 2013, www.ilmattino.it
L’estinzione dei padri è ormai nei nostri media un genere comico di successo. Non così altrove: «Dobbiamo fare di più per incoraggiare la paternità. Ciò che fa di te un uomo non è la capacità di generare un figlio. È il coraggio di crescerlo. Famiglie forti creano comunità forti». Quindi uno Stato forte. Chi l’ha detto? Benedetto XVI prima di dimettersi? Un conservatore impenitente?
Il presidente degli Stati Uniti, Obama, nel primo discorso sullo “Stato dell’Unione” dopo la rielezione.
Sono ora disponibili le prime reazioni della galassia di associazioni e istituzioni che si occupano negli USA di paternità, famiglia e educazione. Tutte piuttosto soddisfatte di come l’icona mondiale dell’opinione democratica abbia insistito sul ruolo centrale che il padre occupa in ogni strategia di rafforzamento dello Stato e ricordato come il suo indebolimento sia stato invece determinante nel rendere più fragile l’America.
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Maschi e femmine a scuola
Claudio Risé, da “Il Mattino di Napoli” del lunedì, 11 febbraio 2013, www.ilmattino.it
Genitori, insegnanti, opinionisti, tutti in Italia e altrove sono preoccupati per i ragazzi. Vanno male a scuola, non stanno attenti, sono scarsamente interessati a quasi tutto. Insomma un disastro. E’ tutto (New York Times compreso) un chiedersi come mai questo accade, e un accettare scommesse sulla prossima estinzione del maschio. Qual è dunque la realtà?
Cominciamo col dire che è tutto vero: i maschi (e non solo i ragazzi), sono in un mare di guai. Quali le cause, per i più giovani?
Cominciamo dalla scuola, dove la questione è ben visibile, con le ragazzine studiosette e i maschi disperati. Come mai? Beh, l’attuale impostazione didattica, preoccupata dall’eguaglianza, ha dimenticato che i maschi e le femmine, dai 13 anni ai 18, sono completamente diversi. Per esempio (non è cosa da poco) le ragazzine sono già quasi perfettamente a posto con lo sviluppo. Mentre i maschi stanno appena cominciando a capire come sopravvivere ai bombardamenti ormonali che da lì alla maggiore età assorbiranno gran parte delle loro energie e della loro attenzione, anche se cercheranno di non farlo capire.
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Come uscire dalla solitudine
Claudio Risé, da “Il Mattino di Napoli” del lunedì, 4 febbraio 2013, www.ilmattino.it
La sofferenza più diffusa oggi? La solitudine. Un disagio che ne crea molti altri, anche gravi. Spesso comincia presto, anche prima di nascere, dalla faticosa ricerca di uno scambio armonico tra madre e figlio.
Oggi i bambini affetti da disturbi della comunicazione (dalle dislessie all’autismo), sono sempre più numerosi. Sono, o si sono sentiti, soli. Sono bimbi sensibili, e il loro disturbo è la metafora della malattia del tempo: solitudine e difficoltà a comunicare ciò che si sente.
Le cronache lo ricordano in continuazione: dalle vite difficili di molte star, a quella perdute delle cronache quotidiane di giovani o vecchi trovati abbandonati in fondo a un cortile, o in un appartamento chiuso. O il professionista famoso che si tira un colpo nel suo super studio, in pieno centro.
La solitudine è la grande sfida con la quale si deve confrontare l’uomo oggi. Da dove nasce? Il fatto è che l’uomo è un essere sociale, vive e si sviluppa comunicando con gli altri. Per comunicare, però, ha bisogno di appartenere a qualcosa in cui si possa riconoscere. Un territorio, una comunità, un gruppo. E una famiglia. Nel giro di pochi decenni molte di queste cose si sono squagliate, o quasi. I territori sono esplosi sotto sviluppi enormi, o si sono svuotati per l’abbandono dei loro tradizionali abitanti.
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Le App. dell’oblio
Claudio Risé, da “Il Mattino di Napoli” del lunedì, 28 gennaio 2013, www.ilmattino.it
Non possiamo ricordare tutto. Anche la capacità di conservare ciò che non può essere dimenticato, si rafforza cancellando ricordi inutili. Dimenticare però fu impossibile da Internet in poi. Da allora la registrazione dei particolari anche secondari o sciocchi della vita di tutti si trasformò in una delle maggiori attività della rete. All’inizio fu bello; ma dopo l’euforia di ritrovare sempre le proprie immagini e storie cominciò il panico.
Integerrime docenti universitarie si trovarono improvvisamente senza lavoro per via di vecchie foto che le ritraevano un po’ troppo scollate e allegramente brindanti. Manager impeccabili si rivelarono amici di personaggi discutibili, segnando la fine della loro carriera.
I messaggi dei social network cominciarono ad essere seguiti da avvocati divorzisti in cerca di prove imbarazzanti, con conseguenze disastrose nella vita di chi li aveva mandati. Fidanzati e mariti cominciarono a cercare su siti erotici tracce fotografiche delle loro amate (a volte trovandole).
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Psicologia delle tribù. Danni e vantaggi
Claudio Risé, da “Il Mattino di Napoli” del lunedì, 21 gennaio 2013, www.ilmattino.it
“L’Italia è un insieme di tribù”, ha dichiarato il Presidente del Consiglio Mario Monti. A dirlo è una persona che da più di un anno governa il Paese, ed ha ottimi elementi per parlarne. Che significa, però, in concreto, che l’Italia è un “insieme di tribù”? E siamo sicuri che sia davvero un guaio?
Dieci anni fa fece scalpore il testo “Il tempo delle tribù”, dove il sociologo francese Michel Maffesoli sosteneva che proprio da loro nasceva la vitalità psicologica dei tempi postmoderni.
Le tribù, i clan, le corporazioni, gli interessi locali e particolari esprimono storie e psicologie differenti, tra le quali mediare. Però portano anche alla luce punti di vista, interessi, risorse che non verrebbero notati se non rappresentati nella scena politica.
L’Italia, contro 150 anni di Stato unitario, ha una storia più antica nella quale è stata presente nel mondo proprio con le sue vitalissime tribù: le città marinare, quelle mercantili, le corporazioni artigianali, le sue associazioni bancarie, e molte altre. Serve una sintesi tra questa storia italiana “tribale”, e lo Stato moderno presente sulla scena globale.
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I bambini non sono oggetti, ma titolari di diritti
(Intervista a Claudio Risé, di Andrea Gagliarducci, da “La Sicilia”, 15 gennaio 2013, www.lasicilia.it)
Non è detto che l’impostazione che apre ai matrimoni gay e alle adozioni dalle coppie omosessuali alla fine prevalga
«L’impressione è che la biopolitica segua le orme della vecchia politica: ideologizzare i comportamenti umani in modo da farne piattaforme per i poteri politici e burocrazie specializzate».
Claudio Risé è psicoterapeuta e scrittore. Ai problemi della genitorialità ha dedicato un libro già pubblicato (“Il padre, l’assente inaccettabile”, San Paolo editore) e uno in stampa (“Padre Libertà Dono”, Ares edizioni).
Ha seguito con interesse la Manif pour tous, la manifestazione indetta in Francia (ma erano moltissimi a manifestare nel mondo davanti le ambasciate francesi, 500 solo a Roma) in difesa della famiglia naturale composta da un uomo e una donna, della filiazione naturale e del diritto del bambino di essere allevato da un padre e da una madre.
Un’opposizione pacifica al progetto di legge Mariage pour tous francese, che apre ai matrimoni omosessuali e anche alle adozioni per le coppie gay. Un’impostazione che sembra prendere sempre più piede nel mondo. Ma – spiega Risé – «non è detto che questa impostazione prevalga. La manifestazione francese ha dimostrato un’ostilità al progetto di legge che né il governo né i media si aspettavano. Anche alcuni gruppi omosessuali sono ostili al “matrimonio”, e infatti hanno aderito con una percentuale assai bassa anche al già esistente Pacs (Patto di solidarietà sociale). Questo era stato istituito dai politici anche in nome di “esigenze degli omosessuali”, che forse però loro non condividono.
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Stato e vita privata. Una convivenza difficile
Claudio Risé, da “Il Mattino di Napoli” del lunedì, 14 gennaio 2013, www.ilmattino.it
Quando lo Stato fatica a tenere i conti a posto, mette il naso nella vita privata dei sudditi, cercando nuovi spazi al proprio potere, e nuove categorie e tipi di “sudditi” da fidelizzare con apposite norme. Il filosofo Michel Foucault la chiamava “biopolitica”: quella che investiga e regola sessualità, natalità, stili di vita, alla ricerca di elettori e potere. Servono però precauzioni. Spesso, infatti, lo Stato o i suoi organi sanno poco di queste materie, estranee alle loro mansioni.
Il rischio è quello di seguire le indicazioni di consiglieri politici più interessati alla propria influenza personale che ad ascoltare ciò che pensa la gente. Si suscitano così reazioni scomposte, che disturbano la tranquillità e la vita privata delle stesse categorie che si pretendono di proteggere. E’ quanto sta accadendo in Francia a proposito della legge sul matrimonio omosessuale.
A quante persone serve questa legge? Agli omosessuali, che parteciperanno alla manifestazione anti matrimonio di Parigi con una loro associazione Plus gay sans le mariage (più contenti senza il matrimonio), non è certo che interessi molto. Sul milione di Pacs (Patto di solidarietà sociale), censiti nel 2010, le coppie omosessuali rappresentavano solo il 6%. Poiché però gli omosessuali sono molto di più (sembra il 6% della popolazione), forse non sono interessati al matrimonio.
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Il perdono
Claudio Risé, da “Il Mattino di Napoli” del lunedì, 7 gennaio 2013, www.ilmattino.it
A inizio d’anno, e con la crisi, meglio pensare a come economizzare non solo il denaro, ma anche le energie. Che vanno usate bene e sfruttate fino in fondo. Attenzione quindi a non sviluppare troppe energie negative, rabbia e risentimento, perché tolgono risorse alle spinte positive, come gioia e voglia di fare.
L’Università di San Diego, California, ha recentemente riproposto per questo scopo un vecchio rimedio: il perdono. La cui pratica sistematica ci risparmierebbe molti guai.
Che perdonare faccia bene, filosofia, religioni, e scienze educative l’hanno sempre saputo, e a loro modo spiegato. La psicoterapia però non ha finora granché potuto servirsi di tutta questa saggezza perché la persona che chiede di essere curata si sente più o meno “alla frutta”, ed è poco disponibile a discorsi complessi e moraleggianti. Vuole stare meglio, ed è poco disponibile a donare o perdonare niente e nessuno.
Non è un atteggiamento aperto e lungimirante, quello della persona sofferente psichicamente, ma ha l’attenuante dello stato di necessità: se non hai nulla (o così credi) non puoi neppure donare granché.
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Viviamo senza paura le sfide del domani
Claudio Risé, da “Il Mattino di Napoli” del lunedì, 31 dicembre 2012, www.ilmattino.it
Stasera il mondo entrerà nel 2013 con prudente cautela. Il passaggio di San Silvestro ha due facce: l’anno che finisce, e quello che comincia. A volte, l’attenzione è sul festeggiamento della fine, a volte sul benvenuto a ciò che inizia. Questa volta, non c’è dubbio che è il secondo che interessi di più: dall’Italia, con le sue elezioni; agli Usa, col brivido del «precipizio fiscale»; al mondo, ansioso di uscire dalla crisi.
Quanto al vecchio anno, un sospiro di sollievo lo saluterà. E il nuovo? Più che un anno che comincia, sembra un quiz da decifrare. Per iniziarlo bene però, non bisogna «isolare» San Silvestro dal periodo che lo ha preceduto, e da quello che lo seguirà fino all’Epifania, con la sua Comare secca da bruciare.
Tutto il periodo che segue al Natale (ne abbiamo parlato una settimana fa) rappresenta infatti una svolta nel ciclo del tempo, nella natura e nella psiche individuale e collettiva. È il Bambino la vera nascita del nuovo, dentro e fuori di noi, che si svilupperà durante l’anno (e anche nei successivi).
A Capodanno, in realtà, c’è in giro ancora molta vecchia mercanzia, dal vecchio pianeta Saturno, ai diavoli o gli spiriti, come sanno bene i napoletani che li cacciano con i botti. Fino appunto all’aspetto del femminile «vecchio», i cui doni più o meno secchi segneranno all’Epifania la fine del ciclo vegetativo precedente e l’inizio del nuovo.
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2012: Diario di Bordo

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La fine del mondo per ricominciare
Claudio Risé, da “Il Mattino di Napoli” del lunedì, 17 dicembre 2012, www.ilmattino.it
Milioni di persone, nei vari continenti, sono convinte che il mondo stia per finire. Preoccupati dalle manifestazioni di panico, dagli spostamenti di masse in cerca di rifugi ed altre manifestazioni imprevedibili, alcuni governi hanno diffuso comunicati ufficiali spiegando perché il mondo non finirà. Così ha fatto anche la NASA, agenzia spaziale americana, assicurando che nel cosmo tutto è tranquillo.
Cosa significano, però, queste periodiche e collettive convinzioni che tutto finisca?
Nel mondo prendono forma ciclicamente movimenti più o meno estesi, impegnati a diffondere l’attesa della fine. Qualcuno ne profitta per guadagnarci denaro o potere, magari come capo di una setta; ma il grosso di queste masse è in buona fede, e disinteressato. Come mai continuano a riproporsi aspettative di una fine che viene poi sempre smentita?
Le risposte sono diverse. Secondo la psicoanalisi tutti sono più o meno preoccupati della propria fine. Questi movimenti sarebbero allora un modo di condividere quest’angoscia, riferendola ad una fine collettiva. Al problema personale verrebbe insomma dato un senso più ampio, coinvolgendovi il resto del mondo.
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L’odio per la vita dei nuovi Erode
Claudio Risé, da “Il Messaggero”, 15 dicembre 2012, www.ilmessaggero.it
Ancora una strage di follia, ancora tanti morti. In maggioranza bambini. Teatro del massacro: una scuola, a conferma che era proprio quella, la nuova vita che cresceva, l’obiettivo della strage. Gli adulti, il preside, lo psicologo, gli altri che si sono messi di mezzo, erano probabilmente intralci rispetto all’obiettivo principale: i bimbi. E’ solo l’ultimo scoppio di un cattivo sentimento fin troppo diffuso: l’odio per la nuova vita.
Non è una novità assoluta della modernità. Si tratta di quel funesto “complesso di Erode” che già da prima del Re biblico ha procurato nella storia del mondo diverse “stragi degli innocenti”, massacri di bambini falciati da adulti terrorizzati (come quel Re) dal timore della propria morte, e dall’ossessione del proprio potere, reale o immaginario.
Certo, questo odio per la vita diventa più forte quando – come accade appunto oggi – il cambiamento si intensifica, e cresce la spinta a rinnovarsi, a riconoscere il proprio bisogno di crescere, di cambiare, di imparare nuove cose. Quando i deboli, che vorrebbero invece essere forti, si sentono sfidati dall’incalzare del tempo, del cambiamento, del necessario rinnovamento.
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Il Dio dei sensi
(Claudio Risé a Paolo Rodari. Il Foglio, sabato 15 dicembre 2012, www.ilfoglio.it)
Spiega lo psicoterapeuta Claudio Risé che “la psicologia moderna, che si crede pratica e utilitaria, è poco abituata a vedere la trascendenza nei rapporti sessuali. Con l’eccezione del pensiero junghiano, che ha individuato il transpersonale “inconscio collettivo”, coi suoi Archetipi invarianti nel tempo, la relazione tra sessualità e trascendenza più che in psicologia è studiata principalmente nella storia delle religioni e dalla filosofia. E’ su  questi terreni che vengono esplorati  i sensi  come strumenti per rompere la chiusura dell’Io e arrivare all’altra persona, e di lì all’Altro, infinito.
Il cristianesimo esplicita tutto ciò con la sua particolare passione per l’Incarnazione. E’ la scandalosa religione in cui Dio prende il corpo di un uomo, muore e rinasce con quello.  Se l’essere umano, col suo corpo, è immagine e somiglianza di Dio, amarlo e desiderarlo è un’esperienza sensata e religiosa, mentre il disprezzarlo è irrazionale e blasfemo.
Anche nella mistica cristiana il corpo è importante. “La bellezza seduce la carne per arrivare all’anima” dice Simone Weil. L’esperienza religiosa è l’incontro con l’amante-Gesù, sia che a cercarlo sia una delle molte mistiche che l’hanno trovato, sia che sia Giovanni della Croce, in vesti femminili. Ma l’incontro corpo-trascendenza c’è anche in altre religioni, ad esempio nel buddismo tibetano (che si avvale di tutta l’esperienza tantrica), dove i sensi sono un campo illimitato di percezioni che attraverso le esperienze della vita quotidiana  ci permettono di comunicare col trascendente”.
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Intervista a Paola Bonzi, del CAV Clinica Mangiagalli di Milano
A cura dell’Associazione Maschi Selvatici, 15 dicembre 2012
Fondato nel 1984, per volontà di Paola Marozzi Bonzi, il Centro di Aiuto alla Vita “Mangiagalli” ha salvato più di 11 mila bambini che sarebbero stati uccisi con l’aborto. Lo ripetiamo: 11 mila bambini! Che si aggiungono alle donne e alle coppie guidate, con premura e attenzione, verso strade diverse da quelle proposte dal mondo incapace di dono in cui viviamo. Paola Marozzi Bonzi ha raccontato la splendida avventura del Centro nel suo libro Oggi è nata una mamma. Storie e sfide del Centro di aiuto alla Vita Mangiagalli (San Paolo Ed.). Abbiamo intervistato la fondatrice Paola Marozzi Bonzi per sapere cosa ha da dire agli uomini su questo argomento:
Signora Paola, noi siamo un’associazione maschile che da anni riflette sulla relazione tra l’uomo-padre e la vita concepita. Dal punto di vista del suo osservatorio cosa si sente di dire agli uomini che si trovano davanti alla gravidanza della loro donna?
Come sempre non si può fare di ogni erba un fascio:
- Agli uomini presenti nella vita della donna, bisogna dare la consapevolezza del proprio ruolo; infatti spesso si sentono tagliati fuori e vivono la gestazione del loro figlio come spettatori.
- Serve invece che l’uomo faccia da “contenitore” della donna che a sua volta fa da contenitore al loro bambino. Ciò procura nella madre una regressione allo stato di “figlia” che ha bisogno di gesti affettuosi, di rassicurazioni, di sentirsi comunque desiderata nonostante i cambiamenti corporei a volte importanti, di progettualità comune, di condivisione anche dei piccoli eventi.
-
Altri uomini tendono a lasciare la donna che sta per diventare madre, da sola, dicendo “sono affari tuoi” e ciò avviene anche per l’accettazione o meno della gravidanza. Leggi il resto dell’articolo

Inverno demografico e crisi economica
Claudio Risé, da “Il Mattino di Napoli” del lunedì, 10 dicembre 2012, www.ilmattino.it
L’Europa, con l’Italia in buona posizione, ha in questi anni tre primati che fanno pensare: il maggior sviluppo di patologie psichiatriche; la crisi economica più persistente; il tasso di natalità più basso nel mondo, solo 1,47 figli per donna. Per avere una popolazione almeno stabile ne occorrerebbero 2,1.
Che ci sia un nesso tra questi tre primati? Se ne parla poco, ma è molto probabile. I rapporti fra sviluppo economico e demografico, e tra invecchiamento e demenza, sono noti.
Chi lavora con l’inconscio sa che la comparsa dei bambini nei sogni annuncia sempre l’arrivo di nuove energie, la possibilità di reagire alle spinte depressive, a stanchezze e pessimismo. Il perché non è poi difficile da capire: il bambino significa nuova vita, nuova forza vitale, e così è visto in tutte le culture.
In quella cristiana dove l’arrivo del bambino Gesù, attorno al solstizio d’inverno (fra poco), segna l’inizio nascosto del rinnovamento. Ma anche, ad esempio, nella cultura Maya (se ne parla oggi a proposito delle sue previsioni di “fine del mondo”), che nel momento del suo fulgore adorava un dio fanciullo e buono, Xochipilli, sostituito poi con una figura tenebrosa e crudele. Cominciarono allora a moltiplicarsi i sacrifici di bambini al dio Sole, e quella civiltà si avviò alla decadenza e alla scomparsa.
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Diciamo addio all’era dei bamboccioni
Claudio Risé, da “Il Mattino di Napoli” del lunedì, 3 dicembre 2012, www.ilmattino.it
Cosa si aspettano i nostri (troppo pochi) giovani? Capirlo potrebbe aiutare il Paese ad uscire dallo stallo e malessere in cui si trova.
Chi, come genitori, educatori, terapeuti, è a contatto coi più giovani, può individuare con una certa chiarezza alcuni elementi comuni, presenti fra di loro e piuttosto nuovi rispetto alla generazione precedente. Uno è il rifiuto di ogni atteggiamento paternalista da parte dei “grandi”. Questi ragazzi si considerano persone, e sanno cosa ciò significa.
C’è – spesso – la consapevolezza di non sapere molte cose, e a volte la curiosità di conoscerle. Ma ancora più forte è la coscienza della propria dignità.
Dal punto di vista psicologico, la loro situazione è diversa da chi li ha preceduti 10 o vent’anni fa. Questi oscillano meno spesso tra depressione e trasgressione, i due poli degli adolescenti a cavallo del millennio. In compenso sono piuttosto stabilmente “arrabbiati”, in modo meno isterico ma più costante.
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Disubbidisce al giudice, padre assolto ‘per amore’
Separazioni, sentenza rivoluzionaria a Firenze
Firenze, 20 nov. 2012 – (Adnkronos/Catola&Partners/Quotidiano.net) – Condannato dopo la separazione a vedere la figlia per non più di tre ore infrasettimanali e successivamente processato per aver più volte ritardato a riportarla alla madre, un trentottenne professionista fiorentino è stato assolto in primo grado dal tribunale di Firenze perché il fatto non costituisce reato.
La sentenza è di alcuni giorni fa, ma ne danno notizia oggi Fabio Barzagli, presidente del network internazionale Paternita.info, e Marino Maglietta, presidente dell’associazione Crescere Insieme, cui si deve il disegno di legge 54/2006 sull’affido condiviso.
“Sentenza rivoluzionaria”, esulta Maglietta. “Vittoria della ragionevolezza”, aggiunge l’avvocato Elisabetta Bavasso, difensore dell’imputato. “Un ottimo provvedimento pilota”, commenta Giancarlo Ragone, in Italia il primo consigliere comunale (comune di Bari) incaricato di promuovere la Bigenitorialità.
Si tratta in ogni caso di una sentenza innovativa, che prelude a una giurisprudenza più attenta alle aspettative dei genitori svantaggiati nella frequentazione dei figli (quasi sempre i padri), sollecitando implicitamente norme più equilibrate.
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Morte e resurrezione del maschio
Claudio Risé, da “Il Mattino di Napoli” del lunedì, 19 novembre 2012, www.ilmattino.it
E’ davvero la fine del maschio? Probabilmente no, ma ci sono segni di cambiamento importanti. Per esempio nelle cliniche in giro per il mondo che applicano metodi per selezionare tra spermatozoi “maschili” e “femminili”, i genitori chiedono ormai in prevalenza femmine (negli USA nel 75% dei casi).
Sempre negli USA i tre quarti dei posti persi dall’inizio della crisi erano di uomini, e riguardavano settori “pesanti”, maschili. E le donne sono in testa ai diplomi universitari meglio pagati.
Inutile dire che le femmine, all’università (ma anche molto prima) hanno voti migliori dei maschi. In molte professioni, dalla ricerca alla finanza, le donne si fanno strada con più forza, e nei Paesi più industrializzati ormai il livello di occupazione è uguale per maschi e femmine.
Certo, il cambiamento è più impressionante negli Stati Uniti dove l’immagine del pioniere-cowboy, che letteralmente “apriva la strada” alla famiglia, appartiene all’inconscio collettivo. Però il fenomeno è visibile dovunque, anche nei paesi del centro-nord Europa o di nuova industrializzazione, come la Corea.
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Le amare passioni dei potenti
Claudio Risé, da “Il Mattino di Napoli” del lunedì, 12 novembre 2012, www.ilmattino.it
L’uomo e la donna moderni sono di rado all’altezza della loro grandezza, intelligenza, forza fisica, ricchezza e generosità. L’amara vicenda di due famosi primi della classe globale, il generale David Petraeus, attuale capo della Cia e vincitore del conflitto irakeno, e della sua amica Paula Broadwell, laureata a West Point e a Harvard, atleta, scrittrice e altre cose eccellenti, lo dimostra.
Il fatto è che i famosi di oggi sanno meno sull’amore di quanto l’Occidente ha sempre saputo.
Non solo Dante ed i poeti dell’amor cortese hanno esaltato la capacità dell’amore tra uomo e donna di riempire uno spazio emotivo assai ampio, che andava dalla tenerezza e condivisione dell’amore coniugale all’intensa partecipazione affettiva delle altre numerose e forti forme della passione. Il trovatore cantava all’amata lontana: la distanza, accettata, lo rendeva capace di amare più intensamente, in modo elevato.
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Il ritorno dei sogni
Claudio Risé, da “Il Mattino di Napoli” del lunedì, 5 novembre 2012, www.ilmattino.it
I sondaggi si moltiplicano, e si può capire. Ai politici, industriali, commercianti, interessano le opinioni e le intenzioni delle persone. Chi voteranno, cosa compreranno, dove andranno.
Su una cosa, però, i sondaggi tacciono: i sogni. Quelli gli intervistatori non li chiedono, né (forse) glieli direbbero. Eppure sono importanti. Non solo perché c’entrano coi voti e con gli acquisti. Ma perché (come appare lavorando con la psiche) le persone, specie giovani, ricominciano a sognare.
E’ assai probabile che pezzi di questi sogni stiano contribuendo ai sommovimenti in atto nella vita pubblica, non solo italiana.
Anche le elezioni di domani, in America, rispetto a competizioni del passato, più fredde e ragionate, hanno (ad esempio) un forte aspetto di sogno: quello dei diritti civili del candidato nero, Obama, e quello dei doveri per tutti del candidato mormone, Romney. Per entrambi, certo, sono in ballo anche affari e potere, ma è sulla forza del sogno e la capacità di comunicarlo che vinceranno, o perderanno.
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Servono grandi amori
Claudio Risé, da “Il Mattino di Napoli” del lunedì, 29 ottobre 2012, www.ilmattino.it
Forse, prima e più dell’economia, è malato l’amore. O meglio la nostra capacità di innamorarci, di appassionarci all’altro.
E’ noto (e stradimostrato) come l’innamoramento dia nuove forze, nuove energie e capacità di immaginare cose, prendere iniziative. Oggi però ci si innamora sempre meno. Si costituiscono meno coppie, si rompono più velocemente. Anche il single, poi, non è felice, come sanno bene terapeuti e servizi sociali. Tutto ciò crea depressione e ristagno (anche economico).
In questo panorama desolato Francesco Alberoni, uno dei sociologi italiani più noti nel mondo (i suoi libri sull’amore sono stati tradotti in trenta lingue), lancia una proposta del tutto controcorrente. Mentre la maggior parte (anche dei terapeuti) convivono con le relazioni evaporate della società “liquida”, Alberoni scrive un libro (che chiama senza esitazioni: “L’arte di amare”), che è un inno, ragionato ma anche molto appassionato al: “grande amore erotico che dura”.
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Quella sofferenza d’amore che uccide
Claudio Risé, da “Il Mattino di Napoli” del lunedì, 22 ottobre 2012, www.ilmattino.it
Carmela, la diciassettenne uccisa a Palermo mentre cercava di difendere la sorella dal suo ex ragazzo, potrebbe aiutarci a evitare che nei prossimi mesi ricominci l’insensata strage di donne che ci ha accompagnato fino all’estate. Dietro questo eccidio, infatti, non ci sono solo i problemi affettivi e psichici degli assassini; c’è anche un buco culturale, un deficit cognitivo che essi condividono con buona parte della società. E che Carmela ha affrontato proprio nel suo ultimo tema.
Nel componimento, commentando una ballata del poeta Petrarca sul rifiuto ricevuto dall’amata Laura, Carmela nota con grande precisione: “La sofferenza d’amore uccide le facoltà mentali”.
Una brava maestra, un grande poeta, e soprattutto la sua anima sensibile hanno portato Carmela dritta al punto centrale della tragedia di cui, di lì a poco, lei stessa sarà vittima: chi soffre per amore, come chi è rifiutato, è già in una situazione di grave disagio psichico. Ciò non diminuisce in nulla la sua responsabilità, tuttavia l’ignoranza su contenuti e dinamiche di questa condizione esistenziale ed affettiva non fa che renderla più potenzialmente devastante.
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Pace per Leonardo, e tutti i bambini
Claudio Risé, da “Il Mattino di Napoli” del lunedì, 15 ottobre 2012, www.ilmattino.it

E’ bello che Leonardo, il bimbo trascinato sull’asfalto davanti a scuola per trasferirlo dalla madre al padre, dedichi alla madre un tema sull’ulivo, e la sua qualità di albero della pace. Bello per lui, fresco reduce dalla battaglia tra i genitori (con rispettive famiglie), e segno di speranza per i milioni di persone che si sono appassionati alla sua storia, specchio delle migliaia di bambini che negli ultimi quarant’anni sono stati trascinati e travolti nelle guerre tra i genitori.
E’ indispensabile che queste guerre tra madri e padri finiscano, se non si vuole perpetuare nei figli e nella loro vita affettiva i malesseri psicologici evidenti nella relazione tra i loro genitori, contagiando con l’odio una società che non ha certo bisogno di una “cura” così intossicante.
In questa pace deve impegnarsi direttamente lo Stato, che ha finora trattato l’intera questione badando ai voti e alle pressioni delle lobby, ma con distrazione verso quanto emergeva dalla società. Nella quale la conflittualità tra gli ex genitori ricadeva sull’equilibrio dei figli, sviluppando in loro i più diversi disturbi psicologici, dalle depressioni ai disturbi alimentari, alle patologie borderline, con i loro caratteristici scompensi affettivi ed emotivi.
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Disorientamento sociale e malessere psichico
Claudio Risé, da “Il Mattino di Napoli” del lunedì, 8 ottobre 2012, www.ilmattino.it
C’è un aspetto nuovo nei malesseri che le persone presentano allo psicologo negli ultimi mesi. Si tratta del “disorientamento”, una sensazione di difficoltà nel muoversi nell’ambiente abituale. E’ un sintomo noto da sempre alla psichiatria, che lo tiene d’occhio come indicatore dello stato di salute della persona.
Chi sta bene sa dove andare, oggi invece questo orientamento è sostituito da sconcerto, che crea incertezza. E, non sapendo bene dove andare, le persone preferiscono fermarsi.
A cosa è dovuto questo disorientamento collettivo, testimoniato dalle persone in cura, ma anche, più banalmente, dai molti sondaggi (come quelli elettorali) che presentano una società sconcertata, priva di una direzione precisa, un programma più o meno condiviso?
Il fatto è che la chiarezza del nostro orientamento psicologico dipende anche da quanto ci riconosciamo nel mondo attorno a noi, nella società in cui viviamo. La società è lo scenario umano in cui è posta la “casa”, la vita quotidiana delle persone, è lo sfondo dell’orizzonte ad esse familiare. Oggi, però, si stenta a vedere nella società un ambiente sufficientemente affidabile, in cui si possa vivere e crescere.
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La fiducia riparte da noi
Claudio Risé, da “Il Mattino di Napoli” del lunedì, 1 ottobre 2012, www.ilmattino.it
La patologia più diffusa oggi? La sfiducia. E non è solo il frutto degli ultimi scandali, o della crisi. E’ qualcosa di sotterraneo, che si sta sviluppando lentamente, da anni, non solo in Italia. Sfiducia verso le autorità, lo Stato, i superiori. Ma anche verso i genitori, i figli. E, soprattutto, se stessi.
La corruzione è legata, nel profondo, anche a questo. Facciamo molta fatica a pensarci onesti. Sarà ben difficile diventarlo finché vediamo in questo modo noi stessi e gli altri.
Questa sfiducia porta con sé il pessimismo: se non mi fido di nessuno, la vita diventa più difficile. Ed alimenta la paura, lo stato emotivo in cui crescono ansia, e instabilità.
All’origine di siffatto scenario, che rende difficile superare le crisi e risanare persone e nazioni c’è un sentimento preciso: la sfiducia.
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Stare in famiglia non aiuta a crescere
Claudio Risé, da “Il Mattino di Napoli” del lunedì, 24 settembre 2012, www.ilmattino.it
Un italiano su tre resta nella casa materna. Tra loro c’è anche un quarto della popolazione tra i 30 e i 40 anni, e quasi il 12% delle persone tra i 45 e i 65 anni. I dati sono stati commentati per lo più dal
 punto di vista economico, sottolineando la positiva funzione di ammortizzatore sociale della famiglia in tempo di crisi. Come stanno però dal punto di vista psichico questi 30-40 a casa con la mamma? E ancora: che effetto ha questo fenomeno sulla salute e la vitalità del Paese?
Sono domande che occorre porsi, cercando risposte nei dati disponibili da altri settori. Infatti, “ammortizzare” fatiche e difficoltà individuali e di gruppo non è necessariamente il miglior criterio per aiutare lo sviluppo psicologico, affettivo e cognitivo delle persone: ogni educatore responsabile lo sa.
La mancanza di lavoro in loco, nelle poche centinaia di metri che la maggior parte delle persone esaminate sembra disposta a percorrere, non toglie il fatto che in altre città e regioni risultino disponibili e offerti migliaia di posti per i quali nessuno si presenta, sia perché non previsti nel modello culturale familiare (e quindi non ci si è preparati a svolgerli), sia perché “lontani”.
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Quando il cemento fa ammalare
Claudio Risé, da “Il Mattino di Napoli” del lunedì, 17 settembre 2012, www.ilmattino.it
Non è che il cemento faccia male, come vorrebbe una vulgata “verde” un po’ sommaria. Serve a fare case, e altre cose indispensabili. Però distruggere in 40 anni aree verdi grandi come tre regioni per
 coprirle di cemento, come è accaduto in Italia, fa di certo molto male. Non solo all’economia o al paesaggio, ma al corpo: lo fa ammalare. Nei paesi più sviluppati di noi (anche culturalmente), è nota da tempo la sindrome da “deficit di natura”, oggi all’origine dei malesseri psicofisici.
L’eccessiva cementificazione è innanzitutto causa di molteplici forme di disagio e di comportamenti a rischio che giocano una parte importante nell’attuale crisi. L’uso e il commercio di droghe ad esempio, che è la seconda causa di ricoveri ospedalieri con i connessi costi (in testa alle motivazioni di omicidi, furti e attentati alla sicurezza delle persone), è direttamente correlato alla diminuzione di aree verdi ed alla perdita di qualsiasi rapporto con la vita dei campi e delle zone boschive.
Non a caso le Comunità di recupero terapeutico più efficienti, come quella di San Patrignano, si trovano in località agricole, ed il lavoro coi prodotti della natura e con gli animali è uno dei più potenti strumenti di ricostruzione di personalità prima devastate dall’uso di droghe.
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Il cinema e l’attualità del senso religioso
Claudio Risé, da “Il Mattino di Napoli” del lunedì, 10 settembre 2012, www.ilmattino.it
Da più di un secolo scienziati e saggi annunciano la scomparsa delle religioni, relitti del passato o “illusioni” (così le definiva Freud, fondatore della psicoanalisi). Intanto però le religioni vecchie e nuove fanno sempre notizia, e interessano molto. Ad esempio alla Mostra del cinema di Venezia un buon numero di film era di argomento e sensibilità più o meno religiosi, e tra essi il vincitore, il coreano Pietà con la sua ripresentazione dello stato attuale della “Pietà” madre-figlio.
Il cinema, comunque, non è l’unica industria ad interessarsi delle religioni. Esempio non irrilevante: anche le compagnie aeree sono pronte a fornire voli per raggiungere i luoghi dove si ritiene avvengano apparizioni o miracoli, come Lourdes o Medjugorje (dove si può effettuare un pellegrinaggio in giornata). Oppure le case editrici, impegnate a mettere in catalogo ogni anno almeno un poliziesco goticheggiante, di ambientazione vaticana, per alzare le tirature.
Insomma la religione è ancora tra noi, anche se in modi diversi dalla predica media dei parroci italiani. La cui qualità scadente è d’altra parte una delle più sicure prove (secondo quanto ebbe a dichiarare l’attuale Papa, Benedetto XVI), della presenza divina nel Cristianesimo, che altrimenti non avrebbe potuto sopravvivervi.
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Come finirla col Principe azzurro
Claudio Risé, da “Il Mattino di Napoli” del lunedì, 3 settembre 2012, www.ilmattino.it
Qualcuno dirà che è solo un prodotto commerciale, consumistico, e ci sarà anche del vero. Però ho l’impressione che in questa nuova eroina femminile della Disney, Merida, la protagonista del film Ribelle-The Brave in uscita nei prossimi giorni, ci sia molta attualità, e tutt’altro che sciocca. Questa ragazza che tende l’arco per colpire il bersaglio e dichiara: “sono Merida e gareggerò per ottenere la mia mano”, centra infatti un problema psicologico attualissimo, per donne e uomini.
Si tratta del fatto che “il principe azzurro”, l’immagine fiabesca dell’uomo attorno al quale si erano organizzate fino a ieri le fantasie sentimentali della donna dall’infanzia in poi, ammesso che sia mai esistito, non c’è più. Chi lo aspetta perde il suo tempo: non arriverà. Non solo perché si tratta di un’immagine fiabesca, e non di un grande mito, di quelli che descrivono le situazioni della vita umana di ogni tempo. Ma perché è una fiaba dell’ottocento, un secolo fortemente impegnato a tenere addormentate il più possibile, in attesa del principe, le donne che cominciavano a scalpitare.
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Verità o ipocrisia
Claudio Risé, da “Il Mattino di Napoli” del lunedì, 27 agosto 2012, www.ilmattino.it
L’odierno glorificare la trasparenza universale non coprirà un’ipocrisia degna dei tempi del puritanesimo più spinto? Le foto del principe nudo, fatte dal cellulare di una escort avida di dollari e pubblicate da giornali avidi di lettori, ricordano le costose sedie davanti al palco dell’impiccagione: un modo per soddisfare la morbosità a spese di trasgressori famosi.
In terapia del resto, l’ansia di scoprire l’intimità dell’altro si accompagna alla riluttanza nel vedere se stessi. Anche perché quando vediamo veramente chi siamo, diventa difficile non avere compassione delle debolezze altrui.
Rifiutare invece di confrontarci con la nostra ombra ci riempie di ansia, che cerchiamo di scaricare ispezionando accuratamente il lato oscuro degli altri. Soprattutto se hanno la disgrazia di essere famosi, magari anche ricchi, e quindi suscitano, assieme all’invidia, i nostri lati peggiori. Tra i quali appunto l’antica tendenza umana ad appassionarsi alle colpe altrui.
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Psicologia dei tempi di siccità
Claudio Risé, da “Il Mattino di Napoli” del lunedì, 20 agosto 2012, www.ilmattino.it
Sembra proprio che questo fine vacanze-rientro in città avvenga nel segno del sole bollente e della siccità. Non solo in Italia, come dimostrano le foto dell’ormai riarso granaio d’America, il Midwest, e
 di altre zone agricole.
Il problema non sarà solo economico, per l’aumento dei costi alimentari. La presenza o assenza dell’acqua, infatti, ha degli effetti psichici molto precisi. Ce lo ricorda il simbolo dell’“acqua della vita” con l’immagine della fonte presente in tutte le culture.
Senza acqua, ci racconta questo simbolo universale, la vita, bisognosa di acqua sia per gli umani che per gli altri esseri viventi (piante e animali), diventa difficile, faticosa.
Nei periodi più caldi aumentano, per esempio, i vari malesseri psichici, come se la personalità facesse più fatica a mantenere una posizione stabile ed equilibrata. Servirebbe ombra e fresco, per mitigare gli attacchi dell’astro bollente; ma, appunto, se vi è siccità è difficile trovare alberi e frescura.
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Disprezzo per l’impresa e disoccupazione crescente
Claudio Risé, da “Il Mattino di Napoli” del lunedì, 13 agosto 2012, www.ilmattino.it
Nell’Italia della crisi e della disoccupazione crescente, molte aziende non trovano risposte alle loro offerte di lavoro. Quei posti, di solito (ma non solo) operai specializzati nella meccanica fine e tecnici informatici sofisticati, corrispondono spesso ai “sogni adolescenziali” che il trenta-quarantenne in crisi racconta allo psicoterapeuta oggi, quando l’impiego scelto perché più “sicuro” o “d’immagine” lo lascia a spasso. Come mai quei ragazzi non seguirono le loro vocazioni?
Si tratta di una questione che questa rubrica segue con attenzione, ed è ora confermata da un nuovo rapporto dell’Unione delle Camere di commercio. Nelle sue pagine, ricche di dati e statistiche, si mostra come molte aziende in Italia fatichino a trovare le persone necessarie al loro sviluppo.
Perché, però, in Italia moltissimi giovani, malgrado le loro diverse aspirazioni, finiscono con l’impegnarsi in professioni inflazionate rispetto alle necessità di oggi, come la pletora di avvocati (se ne occupa ora Severino), psicologi, ed altre occupazioni a difficile impiego, trascurando invece le richieste del mercato del lavoro?
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Violenza, pulsioni collettive ed ordine sociale
11 giugno 2012
Claudio Risé, da “Il Mattino di Napoli” del lunedì, 11 giugno 2012, www.ilmattino.it
Aumenta la voglia di non subire, di reagire alle difficoltà anche con la violenza. Il sospetto assassino di Melissa che dichiara (chissà se è vero) di aver messo l’esplosivo per protestare contro lo Stato che non protegge i truffati come lui, non è l’unico a pensare di farsi giustizia da solo. Idee del genere compaiono sempre più spesso nei racconti delle persone in difficoltà psicologica. Anche il dibattito nella società, d’altra parte, diventa meno fermo nel condannare la violenza.
Diverse forme di “antipolitica” contestano spesso (magari in nome della vera politica e dell’interesse pubblico) che la violenza venga riservata allo Stato e ai suoi organi. Una posizione sul tema è sviluppata nel veloce saggio «Dio è violento», appena pubblicato dall’acuta filosofa femminista Luisa Muraro, e accolto con attenzione dai media.
Muraro, persona impegnata e con molteplici collegamenti con la realtà sociale osserva: ”C’è una violenza nelle cose e fra i viventi che prelude a un ritorno della legge del più forte: dobbiamo pensarci”. Dopo di che, però, propone: “Mi riprendo l’intera responsabilità di me e della mia forza… e mi do la licenza di usarla”.
Molti, inutile negarlo, la pensano come lei, come accade a volte ai pamphlet scritti da chi ha il senso del proprio tempo. Proprio questo, però, ci chiede di pensarci, di capire cosa significa questa diffusa voglia di “riprendersi la responsabilità di sé e della propria forza”.
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I grandi vecchi testimonial del futuro
5 giugno 2012
Claudio Risé, da “Il Mattino di Napoli” del lunedì, 4 giugno 2012, www.ilmattino.it
L’inconscio collettivo si stringe attorno alle figure di cui si fida: Joseph Ratzinger, 85 anni, gode di un’attenzione globale; Elisabetta II, 86, e Giorgio Napolitano, 87, sono i più amati nei rispettivi paesi. Anche nelle famiglie e nell’economia i vecchi ritrovano nuovo prestigio (e potere), dopo che la crisi ha spazzato via molte ricette e stili di azione degli ultimi anni. Come mai, mentre avanza il nuovo millennio, sono soprattutto i vecchi a suscitare affetto, stima, affidamento?
Per chi, come lo psicologo, ascolta la vita delle persone, non è difficile capire il perché di quest’attenzione. La cultura e gli stili di vita degli ultimi decenni sono stati del tutto indifferenti al passato e centrati invece sul presente.
Negli anni della ricchezza e dello sviluppo dell’informazione globale si è creduto che la vita fosse solo ciò che accadeva in quel momento, che ciò che era stato fatto prima non avesse nessuna importanza.
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Corvi ed inquietudine dei credenti
29 maggio 2012
Claudio Risé, da “Il Mattino di Napoli” del lunedì, 28 maggio 2012, www.ilmattino.it
Come reagisce il vasto e multiforme popolo cattolico allo svolazzare di corvi sui documenti riservati del Papa, ai periodici licenziamenti dei banchieri vaticani, all’inquietante ritrovamento all’interno delle Basiliche di tombe con resti imprevisti e assai sconcertanti? Nei colloqui di questi giorni con lo psicoterapeuta emerge subito la curiosità e lo sconcerto. Che non diventa gossip, ma si rivela invece materiale prezioso per la ricerca e la trasformazione psicologica personale.
La Chiesa è infatti per i cattolici, in modo più o meno chiaro, un’immagine del bene. Il cattolico la vorrebbe pulita, accogliente, perfetta. Come del resto vorrebbe essere anche lui (almeno quando si mette in discussione, andando in terapia): bravo, affidabile, apprezzato dagli altri e tranquillo dentro di sé. Ed è proprio sul volersi in un modo, e essere in un altro, voler essere impeccabili, ed essere molto discutibili (il volere le cose buone, e fare quelle cattive lamentato da San Paolo), che si organizza ogni nevrosi, con relativi malesseri e potenziali scissioni della personalità.
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Divorzi, si litiga di meno
22 maggio 2012
Claudio Risé, da “Il Mattino di Napoli” del lunedì, 21 maggio 2012, www.ilmattino.it
Una buona notizia, di gran peso, dal fronte famiglia. Finalmente sembra che gli italiani comincino ad essere stufi dei divorzi guerreggiati, dove l’altro è il nemico, e i bambini (in nome loro si combattono le battaglie più cruente) le fatali vittime. Dopo oltre 40 anni di questa musica, che ha bruciato una buona quantità di reddito nazionale e rovinato la vita a decine di migliaia di persone, si incomincia a cambiare spartito.
Si fa sempre più strada il “diritto collaborativo”. Di che si tratta? Di una pratica piuttosto nuova, anche se negli Stati Uniti esiste da anni: la separazione-divorzio riguarda entrambi i coniugi, regola alcuni loro rapporti per il resto della vita, e quindi i due devono procedere di comune accordo (anche se non è semplice).
Ad esempio non va bene il bambino che per salomonica (nel migliore dei casi) sentenza viene tagliato in due (in proporzioni diverse), e diviso tra un genitore e l’altro: crea scissioni gravi nel bambino, e sviluppa nei genitori nevrosi e squilibri, più preoccupanti di quanto essi credano.
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Lettera Carron / Risé: la lotta tra la luce della grazia e l’oscurità della pesantezza
16 maggio 2012
(Di Claudio Risé, da “Il Sussidiario”, 16 maggio 2012, www.ilsussidiario.net)
Don Julian Carron, con la sua lettera a Repubblica, ha ripetuto, e quindi proposto a chi la leggeva, il gesto introduttivo alla meditazione cristiana e al Mistero della Messa: Signore pietà.
Atto sorprendente in un’epoca e un costume in cui l’esibizione di forza e irreprensibilità ( come di tutto ciò che cattura lo sguardo altrui: bellezza, sfrenatezza, successo), è esercizio e quasi dovere quotidiano, all’interno di quel culto dell’immagine ansiosamente praticato dai più (e, per quel che ho capito, presente anche tra le accuse mosse nella campagna politica contro il Presidente della Lombardia, Roberto Formigoni e Comunione e Liberazione). [
continua a leggere su ilsussidiario.net]

Ritroviamo un linguaggio comune
15 maggio 2012
Claudio Risé, da “Il Mattino di Napoli” del lunedì, 14 maggio 2012, www.ilmattino.it

Bisogna parlarsi. Se non vogliamo che i bagliori degli incendi greci ci raggiungano, che la vita quotidiana venga inghiottita da risse e spari, dobbiamo ricominciare a parlarci, ad ascoltarci, a progettare insieme, gli uni con gli altri. I genitori coi figli, gli uomini con le donne, lo Stato coi cittadini, le Autorità con le persone comuni.
Occorre abbattere i muri che ci separano, trasformando in Comunità le attuali gabbie di individui arrabbiati e minacciosi, potenzialmente violenti.
La prima grande risorsa per tornare a crescere e far ripartire lo sviluppo è rappresentata dalle energie degli altri.
Ogni psicologo sperimenta come dietro la depressione e l’astenia psichica ci sia un deficit di scambio, di ascolto, di abbraccio dell’altro. Per ritrovare le forze perdute occorre abbattere molti muri: ogni malessere individuale, infatti, si nutre di un malessere sociale e lo alimenta.
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La crisi e il rischio “depressione di massa”
Claudio Risé, da “Il Mattino di Napoli” del lunedì, 7 maggio 2012, www.ilmattino.it
I suicidi delle persone rovinate dalla crisi, diversi tra loro, hanno in comune un elemento: la convinzione che “non farcela” sia una colpa, una lesione della dignità personale, come ha scritto Paganelli. Un’idea comprensibile, ma sbagliata, che genera gesti rinunciatari e autodistruttivi. È necessario che autorità e media la smentiscano con chiarezza.
Nell’economia di mercato affrontare il rischio d’impresa è una virtù, di cui lo Stato riconosce la dignità profonda, comunque vada.
Lavoratori ed imprenditori sono i veri eroi della Repubblica “fondata sul lavoro”, come dice la Costituzione. La loro qualità sociale non è condizionata all’esito positivo dei bilanci, ma deriva dall’aver scelto l’attività sulla quale si fonda il funzionamento di gran parte della società moderna: il lavoro in azienda, piccola o grande, con le sue fatiche e i suoi pericoli. Sia il rischio di un’impresa, anche piccola, sia quello che si assume il prestatore d’opera.
Anche chi cerca una lavoro, senza trovarlo, è un dignitoso lavoratore, anche se al momento sfortunato.
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Ogni bambino è diverso
Claudio Risé, da “Il Mattino di Napoli” del lunedì, 30 aprile 2012, www.ilmattino.it
Nuovi pericoli per i bambini, in arrivo dalla rete e dagli sviluppi dell’elettronica. I guai, questa volta, non vengono dall’insaziabile curiosità dei bimbi, che a volte li mette a rischio, ma da quella dei genitori, che potrebbe fare molto male ai bambini. Di che si tratta?
Stanno circolando (ma le più sofisticate arriveranno tra poco), delle applicazioni per cellulari intelligenti, I Pad, computer, per “rassicurare” i genitori sul fatto che i loro figli siano “come tutti gli altri”.
Le prime avevano carattere medico: i genitori inserivano i dati del figlio, quanto mangia, dorme, quanti pannolini cambia e così via, e le applicazioni fornivano indicazioni, terapie, consigli. Partendo, naturalmente, da confronti con l’ipotetico “bimbo sano”, cioè quello “medio”, corrispondente alla media dei comportamenti individuali. Il quale, ecco uno dei problemi di questo modo di guardare ai bambini (come anche alle donne, ai vecchi, a chiunque), non esiste. Perché le variabili sono infinite e con sfumature non valutabili con dati quantitativi.
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Creatività. Istruzioni per l’uso
Claudio Risé, da “Il Mattino di Napoli” del lunedì, 23 aprile 2012, www.ilmattino.it
L’accordo è unanime: bisogna crescere, innovare, tornare allo sviluppo (magari più equilibrato). Per questo però servono nuove idee. Da dove vengono?
L’Europa deve evitare di adottare una visione troppo cupa e ansiosa dell’innovazione e dello sviluppo.
Le idee che cambiano la vita nostra e degli altri, non nascono infatti da estenuanti studiate o seminari barbosi. Nascono (spiegano le neuroscienze) quando ci concediamo di non pensare a niente di speciale, di andare a zonzo con la mente.
Non è un caso che tutta la rivoluzione dei computer sia nata e cresciuta in California, dove ci sono ottime università ma anche si va al mare, a spasso, si fa surf. Con grande indignazione dei paesi della costa est, quella atlantica (oggi più declinante), che considerano i californiani dei fannulloni, quasi dei “mediterranei”. Però le idee più rivoluzionarie sono nate lì, e hanno anche prodotto un fiume di denaro. Come mai darsi la libertà di non pensare a nulla, e un po’ di godersela, genera idee fantastiche?
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Dalla passione la rinascita
Claudio Risé, da “Il Mattino di Napoli” del lunedì, 2 aprile 2012, www.ilmattino.it
Passione, morte, resurrezione. Queste tre tappe, riproposte ancora una volta nella prossima settimana, non appartengono solo alla storia di Gesù, ma ad ogni trasformazione e sviluppo umano.
Il successo ha sempre un termine, molti si allontanano, occorre rientrare dentro se stessi e accettare con passione la fine di come si è stati. Solo così si risorge, si entra nel rinnovamento.
La vita umana cresce sempre attraverso esperienze pasquali. Ma non è semplice vederlo e accettarlo davvero.
L’idea della fine e della resurrezione è presente nella maggior parte delle antropologie (non solo nel Cristianesimo), e parla appunto della necessità del cambiamento, che deve passare sempre attraverso una perdita: di abitudini, di situazioni consolidate, di modi di essere.
Il nostro tempo, la modernità, fatica però più di altre epoche ad accettare questa visione. Anche se una delle sue scienze più giovani e più promettenti, la neuroscienza, ha dimostrato che è proprio così che il cervello si forma e cresce, attraverso un continuo sviluppo, che passa attraverso distruzioni e trasformazioni, dalla giovinezza fino alla fine della vita. Leggi il resto dell’articolo

Congedi di paternità oggi e domani
Claudio Risé, da “Il Mattino di Napoli” del lunedì, 26 marzo 2012, www.ilmattino.it
I tre giorni di paternità obbligatoria stabiliti da Elsa Fornero nella riforma del lavoro sono importanti. Non solo perché quei tre giorni alleviano la fatica di tante mamme e consentono ai papà di sbrigare le pratiche e impegni familiari del dopo la nascita. Non solo perché fanno risaltare di più la distanza rispetto ai 15 giorni votati dal parlamento Europeo, e dai tempi ben più lunghi di molti paesi. Ma perché mettono i due genitori, insieme, di fronte all’altro: il bambino.
Un momento importante, che era finora impossibile per l’obbligata presenza della madre e per l’effettiva assenza del padre, spesso impegnato nel lavoro. Un’assenza che non lasciava spazio ai genitori per chiedersi, insieme: cosa serve davvero al nostro bambino, chi sarà meglio che stia con lui? Una domanda fondamentale, sia per la famiglia che per la società, la cui salute dipenderà domani anche dal benessere fisico e psicologico dei bambini che oggi nascono.
Questa riflessione, però, non si fa quando si ragiona sulla questione solo in funzione del mercato del lavoro: chi ha il lavoro meglio remunerato si dedica a quello; l’altro, che nella maggioranza dei casi in Italia è ancora la donna, sta a casa. Leggi il resto dell’articolo

 

Buona giornata del papà
Claudio Risé, da “Il Mattino di Napoli” del lunedì, 19 marzo 2012, www.ilmattino.it
Il giorno del papà, che si festeggia oggi, diventa sempre più sentito. Non solo occasione di regali, o lavoretti per impegnare i bimbi delle elementari. Di anno in anno questa festa scandisce ormai le tappe del riconoscere cosa significhi essere padri oggi, e della conseguente trasformazione degli uomini e di tutti i rapporti familiari. Ci allontaniamo così sempre di più da quella triste etichetta di “società senza padri”, come antropologi e psichiatri definivano l’Occidente negli anni 70.
E’ stata ed è, quella dei papà, una lunga marcia, emozionante ed anche dolorosa, che contribuisce a cambiare non solo i rapporti tra le persone, ma anche il clima affettivo ed emotivo del nostro tempo.
L’aspetto più evidente è certamente l’ancora incompiuto “ritorno del padre”, una figura di cui negli anni 70 nessuno sapeva più che dire, se non che, appunto, non c’era, mentre oggi la sua presenza torna ad essere evidente, anche se spesso in modo drammatico.
Si tratta di un ritorno davvero “epocale”, perché era stato nell’Ottocento, con l’avvento dell’industrializzazione, che la figura paterna si era ritirata dall’educazione dei figli, da allora affidata alla madre, per dedicarsi alla particolare attività economica che allora nasceva: l’azienda. Fino ad allora il mondo del lavoro, sia nei campi che nelle botteghe artigiane delle città, era stato anche la principale scuola di vita dei figli, nella quale il padre era insieme papà e maestro d’arte e mestiere. Leggi il resto dell’articolo

I miti che generano depressione
Claudio Risé, da “Il Mattino di Napoli” del lunedì, 12 marzo 2012, www.ilmattino.it
Un europeo su dieci è depresso. Le donne il doppio degli uomini, e i giovani più degli adulti. Lo rivela l’ultimo sondaggio importante svolto in Italia, Francia, Inghilterra, Spagna e Germania, che conferma i dati precedenti. Sappiamo così che non aumenta. Ma cosa succede quando si entra in depressione, e perché accade?
Alcuni aspetti diventano sempre più evidenti: ad esempio i tratti “sociali” della depressione, i suoi legami col lavoro, la famiglia, e il modello di sviluppo attuale.
I depressi vengono messi in difficoltà dal carattere “performativo” del nostro modello sociale che richiede in continuazione di “funzionare” bene nei diversi campi, dal lavoro alla sessualità.
Ridurre la persona a produttore (di denaro, successo, piacere), suscita in molti l’ansia di “misurare” direttamente quanto siano adeguati alle richieste degli altri e del collettivo. A questo punto, se non si è sostenuti da una forte autostima, e da molta concretezza e umiltà, è facile deprimersi. Leggi il resto dell’articolo

La tentazione di chiudersi
Claudio Risé, da “Il Mattino di Napoli” del lunedì, 5 marzo 2012, www.ilmattino.it
“Sei venuto a sparare?… Voglio vederti sparare”. Il monologo del militante No Tav sporto sullo scudo del carabiniere silenzioso non è solo provocazione. Più simile invece a quel particolare rovesciare la colpa e il male sull’altro, trasformandolo in nemico (potenzialmente assassino), che sta dietro alle tragedie storiche dell’ultimo secolo, l’ultima delle quali fu la stagione degli anni di piombo. Accade anche in drammi privati, raccontati al terapeuta di solito dopo che sono accaduti.
Gradualmente l’altro diventa un individuo pericoloso, che qualunque cosa dica, o faccia, ti vuole far fuori. Mentre le persone attorno a lui, quelli che condividono la sua posizione sono partecipi del “complotto”.
La prima caratteristica di queste costruzioni immaginarie, personali o collettive che siano, è che alla loro origine non c’è (nella stragrande maggioranza dei casi), nessuna specifica patologia. Sono invece presenti due caratteristiche che, insieme, possono generare problemi: un forte senso critico, e l’insicurezza. Leggi il resto dell’articolo

La neuroplasticità: il movimento è il nostro destino
(Di Claudio Risé, dal libro Guarda, tocca, vivi. Riscoprire i sensi per essere felici, Sperling & Kupfer, 2011)
Il movimento e la conseguente trasformazione sono il nostro destino, e la consapevolezza di questo fatto è ciò che consente alla vita dell’uomo moderno di essere all’altezza del suo tempo.
Solo verso il 1990, mentre esplodeva l’Unione Sovietica e la globalizzazione riceveva una nuova, decisiva spinta, cominciarono a essere prese in considerazione le ricerche neuroscientifiche che dimostravano che il cervello umano non è una struttura definita, che si formerebbe nell’infanzia e sarebbe sostanzialmente compiuto e immutabile entro i 20 anni, bensì un insieme dinamico di circa 100 miliardi di neuroni, ognuno dei quali con migliaia di sinapsi, impegnati in un continuo movimento di formazione, trasformazione, morte e rigenerazione, prodotto fondamentalmente da noi stessi. È, infatti, ciò che noi facciamo e pensiamo, le nostre esperienze e il nostro comportamento, a modellare e costituire il nostro cervello. Leggi il resto dell’articolo

Paure e incubi dell’uomo macchina
Claudio Risé, da “Il Mattino di Napoli” del lunedì, 27 febbraio 2012, www.ilmattino.it
Quali sono le paure più diffuse in questo “tempo della crisi”? A giudicare da quanto si vede in psicoterapia, la paura della povertà è presente ma non sempre genera malessere psichico. Quella l’uomo la conosce (magari nel racconto familiare), anche se non l’ama; sa che ci si può convivere.
La paura che fa star male, e che oggi si diffonde, è quella di venir trattati sul lavoro e nella società come cose. Ciò spiega anche buona parte della riluttanza giovanile a inserirsi nelle aziende.
Giovani pieni di buona volontà, che si cimentano con ambite (anche se assai esigenti) opportunità di lavoro, di notte sognano di diventare gradualmente macchine, robot, o di venire divorati dagli squali.
Raramente si tratta di persone viziate, con poca voglia di lavorare sodo. Sono in genere intelligenti, ambiziosi, con forte senso del dovere, tanto da accettare ritmi di lavoro superiori alle 10 ore al giorno, come è ormai corrente nei posti “importanti” delle grandi città. Non hanno vizi, né nevrosi particolari. Leggi il resto dell’articolo

Divorzio breve: una legge che rende malati i nostri figli
(Intervista a Claudio Risé, di Paolo Nessi, da “Il Sussidiario”, 24 febbraio 2012, www.ilsussidiario.net)
DIVORZIO BREVE. Ciò che tradizionalmente si intende definire “società” assume via via la parvenza di un pulviscolo indifferenziato. Le forme relazionali che di consueto si instauravano tra le persone sono, sempre più spesso, sostituite da temporanei e quasi accidentali interscambi tra singoli. Come leggere, altrimenti, l’ennesimo passo del Parlamento italiano nella direzione di favorire sempre di più non tanto la famiglia, quanto chi ne ha una e vuole disfarsene?
Ieri, infatti, la Commissione Giustizia della Camera ha completato l’esame degli emendamenti sulla proposta di legge relativa al divorzio breve. Tutte le correzioni sono state ritirate, salvo quella del relatore Maurizio Paniz che prevede la riduzione a un anno per il periodo di separazione prima di ottenere il divorzio (ora è di tre) mentre sarà di due anni in caso della presenza di figli minori. Cosa sta succedendo all’Italia (e al mondo)? Lo abbiamo chiesto a Claudio Risé.
Come interpreta la decisione della Commissione?
Mi sembra che la società occidentale si sia incamminata ormai da tempo, almeno dagli anni 70, sulla strada della precarietà dei rapporti tale per cui il rapporto breve viene reputato pratica normale, mentre quello di chi decide di impegnarsi per tutta la vita è valutato eccezionalmente.
[continua a leggere su ilsussidiario.net]

 

Il mondo va in città
Claudio Risé, da “Il Mattino di Napoli” del lunedì, 20 febbraio 2012, www.ilmattino.it
La popolazione mondiale sta correndo verso le grandi città. Nel 2030 il 60% dell’umanità vivrà nelle metropoli. In Cina, questo cambiamento è ormai realtà.
Le megalopoli, però, sviluppano anche numerosi malesseri: dalle cardiopatie alle psicosi, dall’obesità alla schizofrenia. Ma allora perché 180 mila persone al giorno vanno proprio lì? Non solo perché nelle città c’è più lavoro, e più denaro. Ci sono anche altre opportunità. Da riconoscere e valorizzare, per renderle utilizzabili.
Chi ogni giorno va in città, cerca (col denaro e il lavoro), più socializzazione, modelli e stili di vita più numerosi e variati, maggiore cultura, possibilità ampie di istruzione per i figli. Leggi il resto dell’articolo

 

Il necessario ritorno dei lupi
Claudio Risé, da “Il Mattino di Napoli” del lunedì, 13 febbraio 2012, www.ilmattino.it
Malgrado alcuni falsi allarmi, sembra che i lupi comparsi con la neve ai bordi dei boschi appenninici non abbiano finora azzannato nessuno. Etologi e ambientalisti hanno così potuto rispiegare che i lupi sono indispensabili per ridurre le mandrie di cinghiali sempre più numerose e le devastazioni di culture da loro compiute, come per altri problemi attuali del territorio. L’uomo, però, ha paura del lupo. Perché rappresenta una sua parte selvatica, oscura, che preferisce non vedere.
L’istinto dell’uomo non è, infatti, solo quello domestico del cane. Il quale d’altra parte una volta abbandonato dal padrone (molti lo fanno), è sempre pronto a riprendere la strada della montagna dove diventa anche più selvaggio dei lupi: sembra che fossero di cani inselvatichiti i morsi di questi giorni nel riminese. Leggi il resto dell’articolo

 

Claudio Risé, da “Il Mattino di Napoli” del lunedì, 6 febbraio 2012, www.ilmattino.it
Quando la TV annuncia che qualcuno ha rubato milioni alla collettività, la maggior parte degli spettatori pensa che è un mascalzone, e un furbo. Quando un paziente lascia capire in terapia che ha preso illegalmente del denaro, al terapeuta si apre una pista significativa per capire che egli è davvero malato, e come si configuri il suo malessere.
Se la psicologia del profondo ha ragione, l’attuale classe politica non sta dunque molto bene. Di cosa soffrono, però, i truffatori politici?
Il primo disturbo, lo sanno anche molti penalisti, è una profonda (anche se spesso inconsapevole), disistima di sé. Come mi raccontava il professor Alberto Dall’Ora, uno dei principi del Foro penale, ladri e truffatori sono molto spesso persone piuttosto intelligenti, che avrebbero risultati importanti anche comportandosi correttamente. Ma, come sa l’analista, non ci credono. Per varie ragioni biografiche e ambientali non si credono capaci di veri successi. Quindi scelgono, spiega lo psicoanalista Alfred Adler, “la menzogna…vie traverse..dolo e astuzie”. Leggi il resto dell’articolo

 

Quei bambini senza padre allevati da servi o trasgressori
(Intervista a Claudio Risé, di Federico Ferraù, da “Il Sussidiario”, 1 febbraio 2012, www.ilsussidiario.net)
Cosa c’entra la manovra del governo Monti con l’irresponsabilità diffusa dei «bambinoni» che escono dalle nostre scuole? Per Claudio Risé, psicoterapeuta e scrittore, un legame c’è, e affonda le sue radici nelle travagliate vicissitudini dell’Autorità. «Se non c’è più un maestro inteso come formatore e suscitatore di libertà, il soggetto non si sviluppa». E finisce per essere solamente un servitore fedele dell’Apparato. Risé interviene nel dibattito sull’autorità aperto da Ilsussidiario.net.
Lei ha scritto che il tema della crisi dell’autorità è divenuto un slogan. Perché?
Autorità è un termine molto ampio e credo che valga la pena di distinguere almeno tra due aspetti diversi. Il primo è il bisogno del soggetto umano che chiede un’autorità come fonte di sapere, di accoglimento, di identità, in ultima analisi di crescita della propria personalità, del proprio sé. Come ricorda Luigi Giussani, autorità viene da augeo ovvero «aumento, faccio crescere, alimento». Il valore di questa autorità è comunemente negato dalla società attuale, questo è vero. Ma al tempo stesso, e molto insidiosamente, assistiamo ad una ipertrofia della seconda valenza dell’autorità, intesa come fatto di potere burocratico-organizzativo. Leggi il resto dell’articolo

 

Tra i giovani e gli adulti deve tornare il dialogo
Claudio Risé, da “Il Mattino di Napoli” del lunedì, 30 gennaio 2012, www.ilmattino.it
Difficili da raggiungere. Così appaiono agli adulti gli adolescenti di oggi. Chiusi nel «mondo dei pari» di età, ormai diventato sempre più un filtro difficile da superare per chi deve comunicare con loro, magari per proteggerli, educarli, o trasmettere informazioni indispensabili alla vita. I genitori, gli insegnanti impegnati, gli altri adulti che si trovano a comunicare con loro raccontano la stessa impressione, a volte dolorosa. I ragazzi comunicano quasi soltanto coi coetanei.
Vivono in una “città dei ragazzi”. I muri di questa fortezza che li ha resi a lungo “invisibili”, come li definì il sociologo Ilvo Diamanti, non li hanno però costruiti i ragazzi. Bensì i loro padri, delusi dal naufragio delle speranze di cambiamento degli anni 70, sconcertati dalla “fine delle ideologie” dopo la deflagrazione dell’Unione Sovietica, inquietati dalla globalizzazione. Leggi il resto dell’articolo

 

Quando l’Autorità diventa inaffidabile
Claudio Risé, da “Il Mattino di Napoli” del lunedì, 23 gennaio 2012, www.ilmattino.it
Si dice che il naufragio della Concordia sia la perfetta metafora della fine del principio di autorità. Che non esisterebbe praticamente più: da qui gli errori del Capitano, della Compagnia, degli organismi di soccorso etc.
E’ davvero così? La nostra società ha dunque liquidato ogni autorità? E’ meglio chiarirlo, perché l’uso impreciso delle parole ispira spesso comportamenti disastrosi. In questa storia le autorità c’erano, ma sembra abbiano, ognuna a suo modo, fatto gravi errori.
La questione è rilevante, non solo per le vittime, ma perché in effetti ha a che fare con come si sia modificato il principio d’autorità, con conseguenze devastanti sulla psicologia e la vita delle persone.
L’autorità ha in sé due anime diverse: la responsabilità verso sé stessi e gli altri, che ci si impegna a proteggere, e il potere, che consegue da questa assunzione di responsabilità.
Fin dall’alba dell’umanità, gruppi di uomini impauriti dai predatori e dalla natura riconobbero l’autorità di quei capi che si dimostravano capaci di fronteggiarli, e di addestrare gli altri a farlo. Da questo punto di vista l’autorità deriva dalla capacità di educare le proprie pulsioni, impaurite e distruttive, garantendo così la protezione agli altri. Leggi il resto dell’articolo

 

Casa e figli “persi”: come la separazione può colpire l’identità maschile
(Intervista a Claudio Risé, di Viviana Daloiso, da “Avvenire”, 13 gennaio 2012, www.avvenire.it)
l disagio psichico dei padri rimane ancora invisibile alla società
Padri disperati. E, tuttavia, invisibili. Non solo ai servizi sociali, ma alle comunità d’appartenenza, alle istituzioni, all’intera opinione pubblica. C’è una “leggerezza” diffusa, alla base di stragi come quella di Trapani: quella che non coglie, spiega lo psicoanalista Claudio Risé, «come il più delle volte la separazione pesi con violenza inaudita sui mariti e in particolare sui padri».
Cosa intende dire? Che gli uomini sono più fragili delle donne? Che soffrono di più?
Non mi riferisco a fragilità e sofferenza, ma al tipo di perdita che la separazione comporta per gli uomini. Questi ultimi nell’80% e forse più dei casi oltre a “perdere” la moglie, lasciano anche figli e casa.
Si tratta di un trauma affettivo fortissimo, che comporta una perdita contestuale di identità: non a caso lo step successivo è quasi sempre anche la perdita di lavoro e il progressivo impoverimento. Leggi il resto dell’articolo

Perché la scuola è in ritardo di vent’anni
Claudio Risé, da “Il Mattino di Napoli” del lunedì, 9 gennaio 2012, www.ilmattino.it
La diagnosi del malessere profondo degli italiani è ormai sul tavolo di chi governa. Il problema dell’Italia è in gran parte la sua scarsità di «capitale umano», come l’ha definito il presidente Mario Monti. Vale a dire il poco valore (segnalato da sempre in questa rubrica) delle competenze scolastiche e formative degli italiani. Di sicuro intuitivi, intelligenti e laboriosi, ma non dotati dalla scuola e da altre agenzie formative delle nozioni necessarie a guadagnare e produrre, oggi.
È un deficit che riguarda tutti, ma è particolarmente preoccupante se si guarda alla situazione giovanile, che rappresenta potenzialmente l’Italia di domani.
Nella popolazione solo poco più della metà (il 54%) ha un diploma, mentre la media Ocse è al 73% (ma già Estonia e Polonia sono attorno al 90%). Meno diplomi significa che sappiamo fare di meno i mestieri e le professioni oggi richieste: da qui disoccupazione ed anche trasferimento di imprese (che vanno dove c’è lavoro qualificato), e contrazione del sistema produttivo. Leggi il resto dell’articolo

 

2011

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2010

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@    La nostalgia d’amore degli adolescenti
Claudio Risé, da “Il Mattino di Napoli” del lunedì, 5 luglio 2010, www.ilmattino.it
Forse il cinismo ha davvero stancato le nuove generazioni. Le strade delle città sono piene di: «Ti amo, mia principessa», di scritte-ricordo del primo bacio tra i due, di scuse di maschi forse anche troppo inginocchiati.
Comunque il bullo, il menefreghista, il villano, va poco, e solo tra le ragazze un po’ problematiche. Le altre vogliono amore, fedeltà, sentimento, come quelli offerti dai fidanzati-vampiri degli ultimi, gettonatissimi, film. È corsa all’innocenza anche tra i maschi.
Anche fra i ragazzi, infatti, tramonta l’interesse per le mini-vamp, e torna il fascino della ragazzina acqua e sapone. Con una moda dove i pantaloni sono stati sostituiti da gonnelline svolazzanti, pizzi, volants, fiocchi e fiocchetti; tutti trucchi conosciuti alla perfezione più che dalle mamme di queste adolescenti, dalle loro nonne.
Nei gadget, che subito approfittano ed amplificano le tendenza in atto, trionfano quindi cuoricini, cerchietti, dolci mostrini e vampiri tenerissimi. Tramontano invece piercing e tatuaggi, soprattutto quelli pesanti e a sfondo sadomaso, diventati appannaggio ormai di ristretti gruppi di appassionati. (more…)

@  L’equivoca “empatia” e la caccia ai vampiri
Claudio Risé, da “Il Mattino di Napoli” del lunedì, 28 giugno 2010, www.ilmattino.it
Forse negli ultimi cinquant’anni abbiamo sopravvalutato le virtù dell’empatia (sentire come l’altro, mettersi nei suoi panni). L’abbiamo messa al centro di tutto: educazione dei giovani, rapporti coi dipendenti, con gli stranieri e i diversi, relazioni uomo-donna. Adesso però ci accorgiamo che sempre più spesso un giovane sgridato cade in depressione (e a volte si toglie la vita), sul lavoro ci si sente «empaticamente» controllati, l’intolleranza cresce, e fra maschi e femmine è guerra.
Sembra proprio che l’ubriacatura di empatia sia stata soprattutto un modo di aggirare i conflitti che crescevano in una società in rapido cambiamento.
Con lo slogan dell’empatia ad ogni costo chi deteneva il potere (i politici, i genitori, gli insegnanti) doveva mettersi nei panni dell’altro (il giovane, la donna, il diverso di qualsiasi tipo, lo straniero). In questo modo, però, si è in fondo occupato lo spazio proprio di questi «altri», impedendo loro di farsi davvero carico delle propria diversità. Si è così reso più difficile alle identità «altre» di rafforzarsi e sviluppare le proprie capacità di resistenza e discussione nei confronti del potere. (more…)

@ Conoscere il male preserva i bambini
Claudio Risé, da “Il Mattino di Napoli” del lunedì, 21 giugno 2010, www.ilmattino.it
Cos’è che non funziona nel benessere? Perché i bambini nei quartieri «alti» tendono ad ammalarsi più spesso e gravemente che nelle zone povere? Perché a Milano, in una delle zone più ricche della città, la scuola di quartiere ha registrato in pochi mesi ben quattro casi di leucemia infantile, ed un altro si è manifestato a breve distanza? Sono ormai sempre più numerosi i pediatri e i clinici che prendono in seria considerazione l’ipotesi che la troppa igiene non faccia bene alla salute.
Tenere il corpo dei piccoli lontano da ogni germe lo rende debole. Gli impedisce di sviluppare verso batteri e virus, le difese che il corpo naturalmente produce contro i loro attacchi. (more…)

@ La guerriglia delle molestie
Claudio Risé, da “Il Mattino di Napoli” del lunedì, 14 giugno 2010, www.ilmattino.it
In tutto il mondo, da Milano a Gerusalemme, da Bari a New York a Tokio, uomini più o meno potenti si mettono nei guai con gesti o battute sbagliate, che fanno infuriare le donne e finiscono col mettere in pericolo la carriera degli imprudenti. Cosa c’è dietro queste risse, che hanno quasi sempre degli strascichi pubblici abbastanza importanti? Sono gli uomini troppo arroganti, o le donne troppo cattive? Si tratta di cose sempre accadute, ma prima taciute, o c’è anche qualcosa di nuovo?
La ”guerriglia delle molestie“ rivela, in realtà, aspetti significativi delle tensioni oggi in atto tra i due sessi. Anche l’ascolto di uomini e donne in psicoterapia conferma che non si tratta di episodi banali, né casuali. (more…)

@ Matrimoni, lo sfarzo batte la passione
Claudio Risé, da “Il Mattino di Napoli” del lunedì, 7 giugno 2010, www.ilmattino.it
C’è una diminuzione di passione nelle coppie che decidono di metter su famiglia in Italia, e questa rubrica (che si occupa appunto di passioni), lo documenta puntualmente. Il diffondersi delle coppie ”no child“, senza bambini, oppure di quelle che decidono di vivere in luoghi separati, pur essendo insieme, si accompagna ad altri fenomeni che mostrano un calo di intimità. Ad esempio i matrimoni diminuiscono, ma gli invitati aumentano, le cerimonie diventano più sfarzose, di immagine.
Secondo i dati Istat, rispetto agli anni ’70, oggi quasi la totalità dei matrimoni è festeggiata con ricevimenti o pranzi nuziali, che nel circa il 60% dei casi supera i cento invitati. Inoltre più di sette su dieci delle nuove coppie festeggia con un viaggio di nozze all’estero, e quattro di loro escono dall’Europa. (more…)

@   La nostalgia che rischia di perderci
Claudio Risé, da “Il Mattino di Napoli” del lunedì, 31 maggio 2010, www.ilmattino.it
Cos’è che ci fa perdere energie, diventare pessimisti, vedere le cose insuperabili come montagne? Se osserviamo le biografie delle persone in difficoltà, o anche i nostri momenti bui, vediamo che la crisi è sempre preceduta da una specie di nostalgia di un abbraccio ormai perduto, da una difficoltà a farcela da soli, da stanchezza e ripiegamento. Verso dove? Verso un «prima» (immaginario, ma non troppo), dove eravamo amati, dove ogni bisogno era soddisfatto, e la protezione assicurata.
In quel giardino dell’Eden, che è poi la pancia della propria madre, è cominciata la vita di ognuno di noi. Solo che poi se ne esce, e (anche se la fusione con la madre dura ancora molti anni), a un certo punto il distacco avviene davvero, almeno formalmente: si entra nella vita da soli (o si finge di farlo), e non è facile. (more…)

@ Anche i gay a volte soffrono
Claudio Risé, da “Il Mattino di Napoli” del lunedì, 24 maggio 2010, www.ilmattino.it
Si va ampliando una strana zona grigia nella libertà sessuale. Oggi si può cambiare sesso, applicare sul proprio corpo attributi sia maschili che femminili, affittare organi per la riproduzione, vendere seme, etc. Chi però abbia tendenze omosessuali che lo disturbino (al contrario dell’eterosessuale con lo stesso problema), rischia di non trovare un terapeuta che lo prenda in carico.
Sta crescendo infatti un rumoroso dibattito sull’illegalità delle terapie a persone omosessuali.
L’omosessualità, infatti (lo hanno dichiarato da qualche anno sia i principali manuali diagnostici che l’Organizzazione Mondiale sella Sanità), non è più una malattia. E allora perché prendere in terapia chi sia omosessuale, se non per pregiudizio ideologico, o affarismo? (more…)

Nuove coppie: amore a distanza
Claudio Risé, da “Il Mattino di Napoli” del lunedì, 17 maggio 2010, www.ilmattino.it
Ci sopportiamo sempre meno, e con sempre maggior fatica. Dopo le coppie free child, libere da figli (di cui questa rubrica s’è occupata tempo fa), ecco ora crescere quelle Living apart together (LAT), che cioè stanno insieme, ma in case diverse, ognuno per conto proprio. Una categoria in sviluppo, che comprende storie molto diverse. Unite da una comune preoccupazione: salvaguardare i propri spazi personali, le proprie abitudini, senza però rinunciare a una relazione affettiva stabile.
I Lat uniscono tipologie, caratteri, età, molto differenti tra loro. Si formano in modo particolarmente frequente nella seconda metà della vita, tra persone che hanno già avuto altri matrimoni o unioni, e che hanno sperimentato la difficoltà di far convivere a lungo l’affetto con abitudini, stili di vita, e gusti diversi.
Magari uno preferisce andare a letto presto e l’altro tardi; uno impazzisce per le partite e l’altra per i film d’amore; uno russa e l’altro non sopporta; uno (di solito lui) si alza spesso per andare in bagno, e l’altra ha il sonno leggero, e si sveglia. Cose che ci sono sempre state, e magari una volta erano oggetto di affettuose prese in giro; ma anche di scenate, sbuffi, malumori. (more…)

 

2009

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Adattarsi e reagire, la forza degli italiani
Claudio Risé, da “Il Mattino di Napoli” del lunedì, 7 dicembre 2009, www.ilmattino.it

Qual è il profilo psicologico dell’italiano d’oggi? Informazioni utili si ricavano dall’ultimo rapporto annuale del Censis (il centro studi presieduto da Giuseppe De Rita), un documento economico che, redatto con intelligenza, riesce a fornire elementi concreti per capire la psicologia degli italiani di oggi, i suoi punti di forza, e le sue debolezze. De Rita parla di un italiano «adattativo-reattivo», che reagisce, adattandosi, alle difficoltà della crisi. Una definizione tutt’altro che grandiosa.
Chi reagisce adattandosi è molto diverso da colui che fa saltare il banco, vincendo la partita con un colpo di genio. Tuttavia questa definizione ci dice che l’italiano che esce dalla crisi è forse vaccinato dallo squilibrio psicologico che quella crisi ha generato, e che continua ad imperversare in gran parte dell’Occidente: il narcisismo.
La cultura del narcisismo, che ha alimentato la grande corsa ai giochi finanziari e all’espansione dei consumi dagli anni ’90 fino a un anno fa, è ispirata alla grandiosità, all’immagine, al sorprendere gli altri e il mondo.
Il narcisista non vuole affatto adattarsi, ma vincere, sbaragliare. Non calcola, preferisce giocare, e rischiare. La grande crisi è nata da questa passione per scommesse finanziarie diventate sistema, per il disprezzo verso ogni attenzione al limite, al dato di realtà, alla misura. Tutte cose che il narcisista non sopporta perché lo costringono a fare i conti anche coi propri limiti, a preferire la mediocrità al disastro, insomma a dare spazio alla realtà, agli altri, invece di guardare solo a sé stesso, ed a quelli che lui crede essere i propri desideri (e invece non sono spesso che manie di grandezza, nel tentativo di bilanciare profonde insicurezze).
L’italiano di cui il rapporto Censis descrive comportamenti e preoccupazioni è molto diverso da questo personaggio, che ha inventato i meccanismi che hanno prodotto la crisi, e vi ha anche affidato risorse e risparmi, propri e degli altri. L’italiano adattativo-reattivo non si abbatte, ma neppure nega la realtà: se perde il lavoro se ne inventa un altro (accettando anche un «lavoretto»), tira i remi in barca, chiede aiuto alla famiglia, fa debiti modesti, per finanziare spese altrettanto modeste.
Anche le tensioni sociali si adattano alla circostanze: per esempio calano gli scioperi, che si scontrerebbero con interlocutori deboli, non in grado di fare concessioni significative. Ed aumentano, invece, le liti condominiali, dove si può scaricare aggressività senza correre troppi rischi.
Il grande idolo del narcisista, l’immagine, interessa all’italiano meno di quanto sembri dai dibattiti su veline e affini. Tanto che quando gli affari vanno male, ed esporsi significherebbe pagare tasse che magari non corrispondono ai guadagni, l’italiano si rende invisibile, e si inabissa nell’italica categoria del «sommerso» (che corrisponde al 20% del Pil, ed ora è probabilmente aumentata). Non è una gran prova di civismo, ma rientra tuttavia in quella «vitale resistenza alla pressione degli eventi» di cui parla De Rita.
Meglio un’attività sommersa in più, che uscire davvero dal ciclo produttivo; si potrà sempre rientrare tra i «visibili» domani, quando le entrate consentiranno con maggiore tranquillità di far fronte alle imposte.
Certo il modello italiano «adattativo-reattivo», consente di resistere, ma non garantisce lo sviluppo. Il guaio dell’Occidente, però, è proprio quello di non adattarsi, e vivere al di sopra dei propri mezzi.
Rispetto ai deliri del narcisismo trionfante, adattarsi è già un sapere. Prezioso.

Sviluppo e giovani nullafacenti
Claudio Risé, da “Il Mattino di Napoli” del lunedì, 30 novembre 2009, www.ilmattino.it

Il dato più preoccupante dell’Italia di oggi, e di quella di domani, non passa né in prima serata televisiva né in prima pagina. Si tratta di questo: il 20% circa dei giovani con meno di 22 anni non studia, e non lavora. L’Italia è il paese europeo con la più alta percentuale di giovani nullafacenti. L’elevata disoccupazione c’entra poco: le medie e piccole industrie, e le attività artigianali, hanno infatti un’altissima richiesta di personale specializzato, che la scuola non fornisce.
Soltanto il Nordest ha 80 mila posti di lavoro disponibili; mancano però persone formate. In parte la richiesta viene soddisfatta da quegli immigrati che dispongono di formazioni adeguate. Spesso però la mancanza di personale preparato rallenta lo sviluppo delle imprese, costrette a ridurre le attività, oppure a trasferire iniziative all’estero, delocalizzare.

Naturalmente questa fascia di giovani, ex studenti svogliati, poi mantenuti dalla famiglia per anni, rientra poi (ma non sempre) nel processo produttivo, e un lavoro in qualche modo lo trova. Ma di solito in settori scarsamente produttivi, impieghi più o meno pubblici, a basso reddito e scarsa spinta innovativa.
Così ogni anno si sposta in alto (verso la trentina) l’età di uscita dalla casa genitoriale, diminuiscono i matrimoni, le unioni stabili, i figli.
La crisi italiana, di oggi e domani, è annunciata soprattutto dall’insufficienza di formazioni e competenze adeguate in giovani che rimangono per anni in una «terra di nessuno», né scuola né lavoro, sopravvivendo «a carico»: della famiglia e della società. Ora finalmente (seppur con enorme ritardo), è stato varato un regolamento del Governo per ridare spazio e dignità all’importantissima galassia dell’istruzione tecnica e professionale. Potrebbe funzionare, anche perché il dossier è stato seguito e monitorato dal settore Education di Confindustria, direttamente interessata a che il problema venga finalmente risolto.
Ma quali sono state le convinzioni degli italiani che hanno ostinatamente promosso, attraverso la velleitaria gestione della scuola, un prolungato rallentamento dello sviluppo, con conseguente depressione di una fetta così importante dei giovani? La più pericolosa probabilmente è stata la sopravvalutazione delle formazioni intellettuali (sancite dalla «laurea»), in un popolo dotato di una lunga storia di abilità manuali, che fecero dell’artigianato italiano la culla dell’arte e della bellezza dal Rinascimento in poi. Ancora oggi, uno dei pochi settori (quello della moda e del design) che ha continuato il suo sviluppo negli ultimi anni, lo ha fatto perché ha mantenuto forti legami con l’artigianato, che continua a rifornirlo di idee fresche, competenze e abilità, ricevendone in cambio riconoscimenti, denaro, e posti di lavoro.
L’enfasi posta dalla scuola e dalla società all’accesso all’università e alla laurea ha invece indebolito le scuole professionali prima, e gli istituti tecnici poi, non rifornendo di mano d’opera settori vitali per la nostra economia come l’artigianato, il turismo, e la piccola e media impresa. Proprio a questo ultimo settore appartengono, d’altra parte, molte fra le aziende più tecnologicamente avanzate e redditizie del paese. La loro richiesta di giovani ben formati viene oggi finalmente ascoltata, ormai spentesi le grida dei cortei contro il ministro Moratti, che chiedeva cinque anni fa queste stesse cose.
Finita in disoccupazione e depressione di massa la passione per il «pezzo di carta», si torna forse ad una più equilibrata valutazione di tutti i saperi, compresi quelli tecnici e manuali.

 

 

 
Claudio Risé, da “Il Mattino di Napoli” del lunedì, 23 novembre 2009, www.ilmattino.it

«Stai al tuo posto»: ecco un’esortazione ormai sparita dal vocabolario di genitori e educatori. Forse perché troppo dura: non pretendere di essere altro da ciò che sei (un bambino, uno studente, un figlio). Forse perché sospettata di infliggere una ferita troppo acuta al narcisismo del giovane. Eppure, imparare a stare in quello che in quel momento della vita è «il proprio posto», è condizione indispensabile per ricevere un’educazione. Rifiutarlo genererà caos.
Nella vita proprio la difficoltà di accettare un preciso posto nella società produce disordine ed anche criminalità. Ad esempio, la vicenda che da tempo occupa con tinte sempre più fosche le pagine delle cronache italiane, ed ha al proprio centro l’ex governatore del Lazio e le sue frequentazioni, illustra come ognuno dei suoi personaggi non sia riuscito a «stare al proprio posto», ad aderire ad un ruolo preciso con le relative responsabilità.

Il caso, infatti, fu provocato da carabinieri che da custodi dell’ordine si erano trasformati in ricattatori grazie ai fatti di cui erano venuti a conoscenza. Ecco una prima doppia identità: da una parte forze dell’ordine, dall’altra attori di crimini, e provocatori di disordine.
I carabinieri potevano d’altra parte assumere questa identità fluttuante anche perché lo stesso faceva la loro vittima: Piero Marrazzo, Governatore del Lazio. Il quale da una parte guidava con delicate responsabilità una delle Regioni più importanti d’Italia, dall’altra remunerava senza risparmio delle prostitute clandestine, acquistando inoltre da loro dosi di cocaina.
Appare anche qui, nella vicenda (peraltro molto umana) di Piero Marrazzo, la fatica, oggi sempre più difficile da sopportare, di «stare al proprio posto»: il tuo. Quello che la tua stessa vita, le tue capacità, le tue abilità, ti hanno assegnato. E che prende la forma di un «posto», una collocazione sociale, che tuttavia per garantirti un’identità (quindi anche un equilibrio psicologico) stabile, ti chiede di assumerti le responsabilità corrispondenti. Ad esempio, per un amministratore pubblico, di non violare le leggi dello Stato, e di non farti complice (magari come vittima) di chi le vìola.
Piero Marrazzo, come migliaia di altri protagonisti della contemporanea «società liquida» (come l’ha chiamata il sociologo Zygmunt Bauman), non ce l’ha fatta. Proprio in questa difficoltà nel mantenere un’identità «solida», ben definita, cui si rimane fedeli pagando i relativi prezzi, consiste del resto la liquidità della società postmoderna. Nella quale ogni forma tende a dissolversi per assumerne un’altra; a volte contraria, come quella del carabiniere che diventa malfattore, o quella del governante che si lascia governare da irregolari e fuorilegge. Tutto ciò tuttavia tende anche a «liquefare» la personalità da una parte e le istituzioni sociali dall’altra.
A completare queste drammatiche trasformazioni appare infine, in questa vicenda, la metamorfosi sessuale dei partner del governatore i quali, uomini alla nascita, avevano poi scelto di passare (per quanto possibile) all’altro sesso, assumendone forme, nomi e costumi. Diversamente dall’androginia naturale (ad esempio dell’atleta Semenya), qui l’identità naturale si alternava con l’altra, utilizzata per interesse economico, o per piacere.
Ma l’essere umano può assumere identità multiple e opposte, senza esserne danneggiato? Il pensiero greco (con le sue Tragedie), ancora prima di quello ebraico e cristiano assicurava di no. Forse aveva buoni motivi.

 

Claudio Risé, da “Il Mattino di Napoli” del lunedì, 16 novembre 2009, www.ilmattino.it

È il tempo della «sindrome delle foglie morte». «Non sopporto tutto ciò che in questo periodo finisce: le foglie che cadono, il sole che se ne va presto, il culto dei morti», racconta al terapeuta chi ne soffre. «Ogni fine mi fa paura».
Eppure, lo spegnersi delle cose in autunno, dalle foglie che cadono alla fine di molti amori nati nel pieno dell’estate, è anche un’opportunità. Senza il declino nell’autunno-inverno non sarebbe possibile lo sviluppo della primavera e dell’estate.
La psiche umana però vorrebbe a volte una crescita ininterrotta, un sole che non tramonta mai, e allora si ribella. Depressione, e crisi di panico, sono forme tipiche di questa ribellione.

Del resto, essa non è neppure un’esclusiva della modernità in cui viviamo: anche i Maya (ad esempio) temevano che il sole si spegnesse, e moltiplicavano riti sacrificali, perché ciò non accadesse. Anche quella dei Maya, come la nostra (dicono molti dei suoi studiosi), era una società iperattiva, che temeva i cambiamenti indotti dai tempi morti e dal successivo rinnovamento. E per evitarlo non esitava a sacrificare la persona simbolo del rinnovamento: il Bambino, di cui noi ricordiamo la nascita appunto al culmine del sonno della natura, nel solstizio invernale, a Natale.
Le civiltà molto attive, come la nostra (e i Maya) faticano ad accettare l’ombra, il ritrarsi delle forze vitali, l’allungarsi della notte e del sonno. Questo atteggiamento però nega i tempi della natura e quindi pone l’uomo in una posizione («maniacale» secondo l’osservazione psichiatrica) di diniego della realtà, quindi pericolosa per l’equilibrio.
La scansione delle stagioni è una proposta che il mondo naturale (cui apparteniamo) ci fa, suggerendoci di imparare ad alternare due diversi stili psicologici a seconda del tempo: quello solare ed estroverso della primavera-estate, e quello umbratile ed introverso che inizia in autunno e tocca il suo apice in inverno. È soltanto accogliendo questo consiglio, implicito nel clima, nella luce, negli stati d’animo delle varie stagioni, che noi possiamo accordare il nostro umore e la nostra creatività con quello della natura circostante, rendendoci quindi tutto più facile e meno faticoso.
Le foglie che si staccano dagli alberi ci chiedono dunque di non resistere a ciò che in questa stagione vuole staccarsi da noi, lasciandolo invece andare, come fa il serpente con la sua vecchia pelle, che lascia sulla pietra.
Vecchie abitudini, passioni ormai spente, entusiasmi tramontati: invece di deprimerci per la loro fine, profittiamo dell’allungarsi delle tenebre per lasciare che tutto ciò che non è più vitale scivoli nella notte, e dormirci sopra, rigenerandoci. Le crisi d’ansia e di panico, così come le depressioni, nascono dal tentativo opposto: quello di non abbandonare mai nulla, nel tentativo onnipotente di assicurarci una vita fatta soltanto di accumulo, evitando qualsiasi perdita. Una situazione del genere sarebbe terribile, e produrrebbe malesseri opposti; del resto ben visibili nelle terapie di quelle persone che per ragioni diverse, non riescono mai a liberarsi di niente, e soffocano in esistenze affollate ed eccessive.
La natura tuttavia, nella sua misteriosa e profonda saggezza, ispirata ad un infallibile istinto di crescita e sopravvivenza, ha provveduto, con i tempi ed i climi delle stagioni, ad evitare questo rischio. Così nelle piante la linfa si ritira, le foglie cadono fertilizzando il terreno, ed a primavera i rami sono pronti a nuove gemme e nuovi sviluppi. Impariamo ad imitarla, invece di ribellarci con ansie, panico e depressioni.

 

Claudio Risé, da “Il Mattino di Napoli” del lunedì, 9 novembre 2009, www.ilmattino.it

Come mai l’Unione europea, attenta a mantenere «puliti» i muri delle aule scolastiche da crocifissi ed altri simboli religiosi, non si preoccupa di mettere a punto una politica comune contro la droga? Difficile non chiederselo, osservando gli ultimi dati dell’Osservatorio europeo sulle droghe, dove Italia, Spagna, Francia e Gran Bretagna appaiono letteralmente invase dagli stupefacenti, il cui consumo riguarda ormai fette importanti della popolazione, soprattutto fra i diciotto e i trentacinque anni.
Che i vari Paesi europei debbano cooperare, se vogliono fermare l’invasione delle mafie degli stupefacenti è stato finalmente riconosciuto in una missione ufficiale, guidata nei giorni scorsi da Etienne Apaire, presidente della francese Missione di lotta alla droga e alla tossicodipendenza (Mildt), in visita al sottosegretario Carlo Giovanardi, che segue la politica italiana contro la droga. Apaire ha chiesto un controllo coordinato delle frontiere da parte degli Stati europei, dato il carattere internazionale della circolazione degli stupefacenti.

È ora che in Europa ci si accorga che serve meno propaganda ideologica, e più attenzione ai pericoli concreti, a cominciare dalla droga.
Anche in Italia, d’altra parte qualcosa si muove, dopo decenni di disattenzione. La campagna appena lanciata - «Dai un calcio alla droga» - indirizzata soprattutto ai giovani, coinvolgendo campioni come Kaka, Del Piero, Balotelli e Totti, è la prima iniziativa di comunicazione di massa in Italia contro l’uso delle droghe; verso cui l’atteggiamento della classe politica è stato finora piuttosto timido. Soprattutto rispetto alle grandi campagne, realizzate anche con grandi manifesti, e un efficace impegno fotografico e sloganistico, che hanno occupato le autostrade di Francia e Spagna negli anni scorsi, arrivando ad arrestare il continuo aumento di consumo di droga nei paesi a noi confinanti. Da noi, invece, questo è ancora in continua ascesa.
Dai 15 ai 64 anni, infatti, l’Italia è al primo posto per il consumo, rilevato nell’ultimo anno e nell’ultimo mese. C’è però un segno di speranza, anche se per ora molto tenue: man mano che si scende nell’età, il primato nello sballo detenuto dagli italiani sta incominciando a diminuire. Ad esempio nel gruppo di età tra i 15 e i 34 anni l’Italia è ancora al primo posto per quanto riguarda le rilevazioni dell’ultimo anno ma scende finalmente al secondo dopo la Spagna, in quelle relative all’ ultimo mese. Per quanto poi riguarda il gruppo d’età fra i 15 e i 24 anni rimaniamo purtroppo tra i primi 4 Paesi europei per consumo nell’ultimo anno e mese, ma non siamo più capofila assoluti.
Inoltre, ha osservato Giovanni Serpelloni, capo del Dipartimento nazionale antidroga, «se scorporiamo i dati e li puntiamo sui quindici-sedicenni vediamo che per la prima volta in questa fascia il consumo della cocaina diminuisce», notando poi, giustamente che «non è cosa da poco, visto che sono gli adolescenti a segnare il trend».
L’ottimismo verrebbe confermato se sapessimo con relativa certezza che gli adolescenti stanno disamorandosi anche della cannabis, il cui consumo appare tuttora in forte aumento (è raddoppiato negli ultimi dieci anni). Rimane infatti quello, lo spinello, oggi sempre più spesso associato all’alcol, la pista di lancio verso le altre droghe. Tanto più pericolosa quanto più spesso presentata come «droga leggera» da media e molti politici (da cui è spesso usata), incuranti dell’appello del Consiglio superiore di sanità: La cannabis non è una droga leggera.
Comunque qualcosa si muove: finalmente.

 

Claudio Risé, da “Il Mattino di Napoli” del lunedì, 2 novembre 2009, www.ilmattino.it

Che effetto produrrà nella psicologia degli italiani, e dei più giovani, il fatto che ormai dalla scorsa primavera i principali media dedichino le notizie di testa alle trasgressioni sessuali di leader politici e vip di vario tipo e qualità? A cosa si deve l’esondare della cronaca politica dai propri argini tradizionali, per dilagare nella vita intima dei suoi protagonisti? C’è qualche relazione tra l’irrequietezza sessuale dei politici e la prepotente trasgressività degli adolescenti?
Se è fondata l’osservazione che il parlare troppo e morbosamente di guerra rischia di immettere il virus bellicista nelle popolazioni e nell’opinione pubblica, ci si può chiedere se dilungarsi sull’abitudine dei potenti di frequentare prostitute/i di vari generi sessuali non finisca col suscitare dapprima sconcerto, e poi emulazione, soprattutto nelle fasce “deboli”, dai giovani alle persone dotate di formazioni culturali o affettive più fragili. Chissà insomma se il messaggio: “guardate un po’ i potenti cosa fanno”, non venga percepito come: “se volete far carriera fate così”.

Nell’esperienza psicoterapeutica, ad esempio, si vede chiaramente il formarsi di una forbice, soprattutto tra i giovani. Da una parte le persone più psicologicamente strutturate si mostrano irritate di fronte allo spettacolo presentato dai media, distaccate dalle istituzioni (anche informative, giornali e televisioni), e intenzionate a dotarsi di propri criteri di giudizio, e di un proprio stile di vita, che li ripari da un costume collettivo percepito come scadente, e pericoloso. Dall’altra, soprattutto gli osservatori specializzati nelle categorie deboli e a rischio, segnalano che sempre più frequentemente il successo viene identificato con la deviazione sessuale. Come nel caso di quella madre che ha giustificato con l’intenzione di “aumentare la popolarità e il successo sociale” della figlia undicenne il proprio impegno nell’organizzarle di continuo incontri sessuali con compagni più grandi (che la donna convinceva regalando loro cariche telefoniche ed altri gadget).
Il martellare dell’informazione sessuocentrica convince le persone più deboli (spesso anche malate, come nel caso appena citato), che l’avere molti rapporti sessuali fuori da ogni morale riconosciuta, sia la vera chiave per il successo oggi.
Tuttavia ciò può accadere solo per il vuoto che caratterizza ormai la sfera privata e la vita affettiva di molte persone. Per il cittadino della postmodernità, sradicato da appartenenze di classe, di territorio o di fede in gran parte abbandonate, e con un’affettività familiare fragile e provvisoria, sempre sottoposta alla possibilità di un abbandono-separazione-divorzio, la sessualità è rimasta il principale terreno di esperienze emotive. Ma la caratteristica della sessualità separata dall’affetto è quella (come avvertiva già Freud) di lasciare inappagati. Di qui la ricerca di trasgressioni.
Lo scenario ossessivamente descritto dai media nelle loro cronache sui vip, prima e al di là delle varie manovre politiche che pur lo influenzano, è soprattutto la riproduzione dell’affettività postmoderna: una vita privata devastata cui si vorrebbe ansiosamente rimediare con una sessualità sempre più trasgressiva, aiutata da sostanze euforizzanti.
I media non fanno altro che raccontare la paura/desiderio di molti, che nella realtà viene interpretata da alcuni potenti, spiati e poi denunciati dagli avversari politici.
Come già accaduto nella storia, i capi cadono preda delle patologie presenti nell’inconscio collettivo, ed interpretano i deliri in esso diffusi.

 

Claudio Risé, da “Il Mattino di Napoli” del lunedì, 26 ottobre 2009, www.ilmattino.it

Un nuovo insegnamento di «educazione emotivo-sentimentale» (questa la proposta di legge dalle deputate Giulia Cosenza e Flavia Perina) nei già affollati programmi dell’ansimante scuola italiana? Ebbene, perché no? Di quest’educazione, infatti, i ragazzi hanno grande bisogno, come tutti gli adolescenti, e come dimostrano le cronache quotidiane. Veri e propri diari della mancanza di sentimenti e della cattiva educazione emotiva (non solo degli studenti, ma da qualcuno bisogna pur cominciare).
L’assenza di «educazione sentimentale» è stata una della grandi lacune della scuola moderna (non solo italiana) rispetto alle accademie educative dell’Occidente, a cominciare dall’Accademia di Platone, ad Atene, nella quale all’amore e al sentimento veniva prestata grande attenzione, considerandoli «saperi» decisivi nello sviluppo della vita e della personalità umana. È solo dalla rivoluzione industriale in poi che l’insegnamento si sposta sui saperi utilitari, trascurando in modo sempre più evidente quelli più sottili, dell’«anima».

Ai nostri giorni poi «studiare il sentimento» viene considerato una perdita di tempo, se non una vera e propria stupidaggine. Eppure, come i lettori di Pensieri & passioni sanno bene, l’ignoranza del mondo dei sentimenti e la cattiva educazione emotiva è all’origine della maggior parte non solo delle violenze, ma anche delle disfunzioni della nostra società; comprese quelle economiche, i problemi sul lavoro, gli scorretti comportamenti politici, e molte patologie psichiche e fisiche. Tutto ciò per una ragione molto semplice: un equilibrato sviluppo del sentimento è la principale condizione per l’equilibrio psicologico. Quindi, come i greci sapevano molto bene, per il pieno sviluppo della personalità individuale, e di una società prospera e felice.
La conoscenza dei sentimenti, e del loro linguaggio e dinamiche è insomma al centro del sapere umano, laddove il contare, il far di calcolo, pur nella sua utilità, è piuttosto alla periferia. Se sai contare, ma non sai nulla del cuore, tuo e degli altri, ciò non sarà molto utile né a te né alla società. Non garantisce neppure che tu non diventi un criminale, come molte cronache illustrano frequentemente.
Bernie Madoff, che con la sua truffa planetaria fu uno dei grandi corresponsabili dell’ultima crisi economica, sapeva fare benissimo i propri conti, ed era una persona educata. Ma non aveva pietà per i sentimenti degli altri; era solo un intelligente criminale.
Se la proposta Cosenza-Perina ha un limite, è piuttosto quello di avere una visione «sentimentale» dei sentimenti, come se riguardassero soprattutto gli affetti e la sessualità, e non gli aspetti più profondi della relazione con sé stessi, e con gli altri.
Il sentimento non ispira solo il giovane nella relazione con l’altro che ama, ma col vecchio, con lo sconosciuto, lo straniero, il bimbo, il malato. Insomma è la misura dell’umanità della persona.
È dunque certamente vero che l’insegnamento dell’educazione sentimentale correggerebbe l’ipersessualizzazione dei rapporti tra adolescenti, e della stessa immagine di sé, specie tra le ragazze. Se però correttamente svolto, i suoi risultati non si fermerebbero qui, finendo con l’impregnare l’intero modello di cultura e di sviluppo della società, come accadde appunto con l’Accademia di Platone (ma anche nella società medioevale della Cavalleria e dei Trovatori).
È quindi piuttosto limitativo fare dell’educazione sentimentale solo un’integrazione (o la sostituzione) dell’educazione sessuale. Tuttavia da qualche parte occorreva cominciare. Non c’è più tempo da perdere.

 

(A cura di Antonello Vanni, collaboratore della Lista per il padre, e-mail: listaperilpadre@alice.it)

I tuoi figli vogliono continuamente l’ultimo videogame in vendita? Passano tutto il loro tempo incollati alla consolle? Hai vietato loro di giocare e l’effetto è stato quello di spingerli a traslocare dall’amico vicino di casa? Hai dubbi sull’effetto diseducativo di questi media? Hai l’impressione che perdano tempo utile allo studio? Forse questi consigli possono esserti utili…

Innanzitutto informati con attenzione sui videogiochi che destano l’attenzione dei tuoi figli: siti internet sul tema, riviste, copertine dei giochi stessi, pareri dei genitori dei loro amici… permettono di farsi una prima idea sui contenuti del gioco che i tuoi figli vorrebbero acquistare. Qual è il tema trattato? Sono presenti scene di eccessiva violenza o di pornografia che non si addicono ai valori morali cui vuoi educare i tuoi ragazzi? Il linguaggio dei personaggi è accettabile o spinge a comportamenti comunicativi che ritieni poco educati? Sono presenti scene che spingono all’uso di alcol o droghe? E questo gioco per quali età sarà più adatto?
Un buon modo per valutare la validità di un videogioco è quello di conoscere alcuni sistemi di analisi e valutazione proposti da enti come l’Entertainment Software Rating Board (http://www.esrb.org/ratings/ratings_guide.jsp) che offre anche una chiara spiegazione dei descrittori di contenuto presenti sulle confezioni dei giochi.

Gioca con i tuoi figli: questo non solo è un modo per passare del tempo con loro, ma ti dà anche la possibilità di capire veramente la qualità dei videogiochi, perché hanno tanto potere di attrazione, che effetto hanno sui ragazzi, se determinano in loro comportamenti negativi o, invece, se possono essere utili alla loro maturazione cognitiva. Ricordati anche che molti di questi videogames sono costruiti “per livelli” da raggiungere obbligatoriamente prima di concludere la sessione e “salvare” la partita: ecco perché bisogna chiamarli centinaia di volte quando la cena è pronta o bisogna insistere lungamente per farli andare a dormire.

Mettiamo ora che il videogame tanto desiderato sia in sé accettabile: vorresti comunque che i tuoi figli passassero meno tempo davanti a uno schermo o a un pc. Che fare? Stabilisci precocemente regole e limiti per l’uso, anche perché è molto più difficile farlo dopo, quando i figli sono cresciuti e hanno passato ore e ore di gioco con un joystick: fin da piccoli devono sapere 1) che prima si fanno i compiti 2) che prima si adempie ai propri impegni quotidiani, che comprendono anche la cura della propria persona, della preparazione della cartella, del mantenimento di un ordine sufficiente del proprio ambiente… 3) che ci sono tempi stabiliti oltre i quali non si deve andare. Solo a queste condizioni si gioca.
A questo proposito tieni conto che l’American Academy of Pediatrics consiglia: di limitare il tempo davanti allo schermo a meno di due ore al giorno e di non collocare consolle nelle camere da letto dei figli (fatto che li ridurrebbe fuori controllo genitoriale e li spingerebbe a giocare fino a tardi perdendo ore preziose per il riposo). Ricordati infine di far rispettare con fermezza queste regole, magari spiegandole e ripetendole con frequenza: il cedere o il manifestare incoerenza è diseducativo e pone la figura paterna come modello inconsistente, poco credibile e non realmente interessato al bene dei ragazzi.

Trova alternative valide: i genitori che conoscono i loro figli, e ne conoscono passioni e interessi, possono proporre hobbies, sport, attività o iniziative capaci di sostituire il “parcheggio” dei videogiochi. Queste alternative sono valide soprattutto se condivise: diventano l’occasione per passare più tempo insieme, dialogare, discutere problemi e conoscersi autenticamente, soprattutto laddove i figli stiano vivendo il tortuoso percorso dell’adolescenza.

Mantieni un atteggiamento positivo e di apertura rispetto alle novità, anche tecnologiche: è impossibile proteggere i figli in ogni situazione e da tutti i pericoli, ma essere padri attenti e informati, coinvolti come figure educative capaci, è sicuramente un modo di guidare i figli che garantisce loro una crescita in maggiore serenità.

Per approfondire questi argomenti si veda il capitolo Le “nuove dipendenze”: tra Internet, cellulari e videogames nel libro: A. Vanni, Adolescenti tra dipendenze e libertà. Manuale di prevenzione per genitori, educatori e insegnanti (San Paolo, 2009, www.antonello-vanni.it ). Segnaliamo poi il sito del Center on Media and Child Health di Harvard (www.cmch.tv), uno studio dell’American Academy of Pediatrics sul tema “associazione tra televisione, film, uso di videogames e rendimento scolastico” (http://pediatrics.aappublications.org/cgi/content/abstract/118/4/e1061), e le linee guide di questa Associazione circa la necessità di limitare il tempo di esposizione dei figli ai videogiochi: http://www.sciencedaily.com/releases/2008/04/080416081631.htm.

Stampa, pubblica e diffondi il volantino «Figli e videogames? Una guida per i padri» in .pdf - clicca qui

Comunicazione a cura della Lista Per Il Padre, già promotrice del “Documento per il padre http://www.claudio-rise.it/documento_per_il_padre.htm

 

Claudio Risé, da “Il Mattino di Napoli” del lunedì, 19 ottobre 2009, www.ilmattino.it

Cos’è che fa crescere l’odio in una comunità, in una nazione? È forse il caso di chiederselo in un paese come il nostro dove in pochi mesi si è passati dall’ossessivo martellamento sulle ragazze frequentate dal Premier Berlusconi, a inviti sul web di sparare allo stesso, e infine a minacce di morte inviate tramite stampa da una «organizzazione combattente». L’odio nell’Italia di oggi non è diretto solo contro Berlusconi, ma appare anche all’interno dell’opposizione e nella vita civile.
Il terreno di crescita dell’odio è infatti diffuso nella società, fuori dalla politica: è riconoscibile dalla frequente assenza di uno sguardo umano verso gli altri, e dalla violenza come stile di azione e di relazione.

Qualche giorno fa due diciottenni in motorino hanno strattonato una donna di novant’anni per scipparle la borsa, provocandone la caduta e la morte. È qui che l’odio si sviluppa: quando l’essere umano non è più riconosciuto come persona, ma solo come strumento per realizzare i propri desideri e le proprie passioni. Qualcuno cui strappare dei soldi, un possibile oggetto sessuale da stuprare, un avversario politico da abbattere.
In ognuna di queste azioni, che i media ci raccontano quotidianamente, non c’è rispetto od empatia per la persona umana. I soldi, il sesso, il potere, lo status: queste sono le uniche passioni dei portatori d’odio, che diventano tali proprio per la loro povertà affettiva. L’altro, l’essere umano che vorrebbero abbattere per ottenere ciò che vogliono, è solo uno strumento; non è «persona», non è oggetto di alcun sentimento.
Questa caratteristica dell’odio collettivo, diffuso nei diversi strati sociali, ci aiuta a capirne un tratto che lo distingue profondamente dalle avversioni personali, presenti ad esempio nelle vicende familiari, a volte con esplosioni anche violente. L’odio personale (famigliare ad esempio), è negativo, ma è pur sempre un sentimento, appartenente ad una dinamica psichica normale.
Le forme di odio impersonale, come queste, diffuse nella collettività, denunciano invece una netta rottura ed allontanamento da ogni sentire, e un avvicinamento alla zona ben più pericolosa della follia, della psicosi, caratterizzata appunto da un estraniamento dall’affetto, dal comune sentire umano.
È proprio il loro carattere psicotico ad assicurare a queste forme la loro forza, i loro aspetti irrazionali, e la loro pericolosità; ad esempio l’assenza del senso del limite, che nasce sempre da una forma di compassione, per sé e per gli altri. In questi disturbi psichici invece non c’è compassione, né pietà, perché non c’è la capacità di sentimento. È sempre la forza irrazionale della psicosi a far sì che queste forme possano trasmettersi attraverso una sorta di contagio diffuso nell’inconscio collettivo, al di fuori da motivazioni e stili di comunicazione razionali.
Nel secolo scorso le grandi avventure totalitarie, comunismo e nazismo, si svilupparono proprio attraverso la riduzione dell’altro a «cosa» (che quindi poteva essere abbattuta o rimossa non appena diventava di ostacolo), e l’adozione della violenza come stile d’azione. L’ideologia servì ad amalgamare pulsioni diverse, unite nell’odio per l’avversario e la brama di potere.
Oggi Berlusconi è diventato oggetto prediletto di questo odio, specie da quando si rese noto che oltre al potere, allo status, e al denaro (consolidati oggetti dei più ricorrenti deliri psicotici), egli disponeva anche del sesso, ben collaudata miccia di molteplici follie collettive, tra cui il nazismo.
Forse i sondaggi appoggiano il premier. Ma la psicosi non li legge.

 

Claudio Risé, da “Il Mattino di Napoli” del lunedì, 12 ottobre 2009, www.ilmattino.it

Dietro ai tanti malesseri di oggi; dietro alle ragazzette vittime o delinquenti date in forte crescita dai servizi sociali, ai padri che abbandonano o vengono abbandonati, alle madri prese da raptus omicidi; dietro a gruppi sociali scollati tra loro e preda dell’odio reciproco; dietro alle depressioni coperte dalle droghe, sta una sola parola, che descrive una condizione precisa e concreta: solitudine. Quella di chi è in famiglia, ma non sente su di sé uno sguardo che sia attento e amoroso.
Ma anche la solitudine di chi abita un territorio dove i legami sociali si sono allentati, e la gente non ti guarda, non ti vede se non per misurare il tuo successo sociale, la tua capacità di spesa.
Infine la solitudine di chi non sente più la solidarietà e l’affetto dei pari, la compagnia di quelli che fanno il tuo stesso lavoro, sui campi, in azienda, o nelle professioni e nei servizi, perché questa vicinanza è stata sopraffatta dalla competizione, dal lasciarsi dietro il pari grado per avvicinarsi a chi ha uno stato superiore, e dall’ansiosa presa di distanza da chi rimane indietro.

Queste dinamiche, lo sappiamo bene, sono sempre esistite, e sono legate in parte all’istinto di sopravvivenza, in parte a quella che Nietzsche ha chiamato «volontà di potenza». Quella spinta naturale per la quale un ciuffo d’erba tende ad allargarsi occupando lo spazio dei fili vicini.
Tuttavia nella storia e nell’indole umana è presente una forza particolare, che non ha la stessa evidenza nel mondo puramente naturale: quella dell’amore. È solo l’amore, quello cui si riferivano i fondatori della psicoanalisi col nome di Eros, a contrastare il vissuto inappagato e inquieto della solitudine (quella cui si ribella anche il primo uomo, Adamo, chiedendo al Signore una compagnia, uno sguardo, una voce).
Fu l’amore, oltre che la ricerca di alleanza, ad ispirare lungo la storia umana la solidarietà, il rispecchiarsi nell’altro, l’appartenenza. Sentimento complesso, l’appartenere ad altri, ad una patria, una classe, una comunità, una professione, arte o mestiere. Tuttavia è proprio lì che nasce l’identità, che non si costituisce certamente solo con quattro dati anagrafici. Ed è proprio l’identità, che rende meno forte, o più accettabile, il morso della solitudine. Come raccontano tante poesie, o lettere di emigranti, anche italiani: non sei veramente solo quando hai una Patria, una terra di origine, un popolo cui appartieni.
La famiglia, lo sguardo attento e amoroso della donna, dell’uomo, dei figli, è l’ultimo, importantissimo tratto di questo filo affettivo che ci lega al resto dell’umanità, indebolendo la solitudine e le sue patologie. Così, almeno è stato, con alterne vicende, nel corso del tempo.
Nell’epoca in cui viviamo la competizione economica ha però assunto un’importanza particolarmente vistosa, assicurando contemporaneamente un grande sviluppo della ricchezza (non altrettanto, pare, della felicità). La spinta a prevalere, a vincere e distaccarsi dall’altro ha così indebolito quella a legarsi, a cercare la solidarietà, l’essere insieme, l’amore appunto. L’interesse alla contrapposizione delle classi ha prevalso su quello della solidarietà tra tutto il popolo, quello della competizione tra i generi ha prevalso sull’amore tra uomo e donna, quello dei singoli territori su quello del benessere di tutta una Nazione.
Questa competizione universale non poteva restare esterna alla famiglia, oggi teatro di conflitti plurimi: padre-madre, genitori-figli, e quindi di nuove, profonde solitudini. Che diventano rapidamente terreno di crescita di ogni malessere e devianza.

 

Claudio Risé, da “Il Mattino di Napoli” del lunedì, 5 ottobre 2009, www.ilmattino.it

Di fronte alle catastrofi naturali, maggiori o minori, tutte dolorosissime, che hanno colpito la terra negli ultimi giorni, Italia compresa, si è letto e sentito spesso un avvertimento inquietante: la natura è cattiva, la natura è matrigna. Nulla di nuovo. Il grande Giacomo Leopardi era dello stesso avviso, il marchese De Sade, da cui prese nome la perversione nota come sadismo, la pensava così: la natura è cattiva, per vincerla l’uomo deve essere più cattivo di lei. I suoi insegnamenti, però non ci hanno portato fortuna, o felicità.
Per questo sarebbe grave riproporli proprio oggi, quando la noncuranza verso la natura e i suoi misteriosi equilibri ci presenta il suo conto, per noi fallimentare.

Uno degli aspetti più evidenti della crisi contemporanea è, infatti, proprio il fallimento del tentativo paranoico dell’uomo di sottomettere la natura, fantasia maturata nell’Illuminismo (di cui Sade fu bizzarro ma significativo esponente), e nelle successive correnti scientiste, all’alba della modernità e della rivoluzione industriale. Rivoluzionari e nuova borghesia pensarono che decapitare la natura (sfruttandola a man bassa, inquinandola, avvelenandola), non sarebbe stato più difficile che decapitare il Re di Francia, che disponeva pur sempre di un esercito, mentre l’ambiente naturale non aveva armi e difensori visibili.
Iniziarono così una serie di interventi profondamente alteranti gli elementi naturali (la terra, l’acqua, l’aria), i cui effetti furono (per limitarci agli ultimi anni) la crescita esponenziale dei tumori per inquinamento, il riscaldamento atmosferico, e il forte accorciamento della vita media nelle regioni più affrettatamente industrializzate, come la Russia sovietica.
Oggi, gli «attacchi della natura matrigna», come le bombe d’acqua che hanno sconvolto pochi giorni fa l’entroterra di Messina, sono solo il risultato dell’incuria e del disprezzo che l’uomo ha mostrato verso l’ambiente in cui abita, che lo nutre e lo fa respirare.
Alla base di questo disprezzo c’è una scissione psicologica, sviluppatasi nella modernità fino ad arrivare a quelle contemporanee malattie della passione settimanalmente segnalate da questa rubrica, e per certi versi annunciate e celebrate proprio da Sade, con i suoi corpi sottomessi al potere della mente, delle idee.
Il fatto è che la natura non è altro, diverso da noi; noi stessi siamo, anche, natura. La manipolazione e sottomissione dei corpi, desiderata e praticata dalla filosofia sadiana, è una delle forme della manipolazione e sottomissione della natura praticata dalla modernità. Lo comprese perfettamente Pasolini, che denunciò la «scomparsa delle lucciole» nella natura avvelenata, e (nel suo Salò, o le 120 giornate di Sodoma), la manipolazione e sfruttamento dei corpi da parte del potere delle ideologie.
La natura è il corpo della terra vivente, così come il nostro corpo è il luogo in cui si sviluppa la natura umana, coi suoi affetti, i suoi desideri, le sue sensibilità. Che, certo, come quelle della natura, possono essere distorte, manipolate, però a prezzi altissimi, pagati da tutti.
Tutti i grandi disturbi psicologici di oggi, dalle tossicomanie ai disturbi alimentari, a quelli della libido e della sessualità partono da una qualche violenza al corpo ed ai suoi bisogni naturali: la fame, l’amore, la ricerca di protezione. E si curano ricostruendo quell’originario ambiente naturale, che è stato devastato.
Uno sviluppo umano dominato da fantasie di onnipotenza sulla materia ci ha reso incapaci di dialogare col corpo della natura e col nostro. Meglio smettere di voler dominare l’una, e l’altro, e ricominciare invece ad ascoltarli.

 

Claudio Risé, da “Il Mattino di Napoli” del lunedì, 28 settembre 2009, www.ilmattino.it

L’infelicità femminile è in aumento, in tutto il mondo. Storie come quella di Erika, la giovane donna che ha ucciso i suoi figli, e se stessa, sono sempre più frequenti, non solo in Italia. Queste vicende non rivelano solo un interiore «male oscuro», ma una condizione femminile vissuta sempre più frequentemente come pesante, senza veri piaceri e consolazioni.
Da quando e perché ciò accade? Secondo le statistiche su opinioni e umori dei diversi gruppi sociali (come il General Social Survey americano, ed altri), tutto cominciò nei primi anni 70.
In Europa è arrivato un po’ dopo. All’inizio degli anni 70 si era ancora in piena euforia femminista, e le donne, anche se non felicissime, ancora sognavano un mondo migliore. È quando è sembrato che l’avessero conquistato che è cominciata la delusione.

Come ha scritto al mio blog una corrispondente che non conosco, subito dopo aver letto di Erika: «Non posso approvarla, ma la capisco. Anch’io non ne posso più dell’ufficio, i bambini cui badare, tutte le cose cui star dietro……..è troppo pesante. E tutto da sola».
Questo, e non qualcosa di oscuro e misterioso, è all’origine della depressione femminile contemporanea, diffusa in tutto il mondo e tra tutte le donne. Un po’ meno, a quanto pare, tra le afroamericane, come dimostra la loro più nota rappresentante: Michelle Obama. Che però un marito ce l’ha, e di quelli che una mano finisce col dartela (anche se nei loro siparietti mediatici lasciano filtrare qualche accusa, e corrispondenti ammissioni).
Le donne sono «stanche», come scriveva Erika. Lo status di madre-lavoratrice sola sembra rivelarsi psicologicamente più pesante di quello della casalinga che si muoveva all’interno dei limiti, ma anche delle garanzie di una coppia stabile. In queste difficoltà, la responsabilità dei figli, affidati per solito alla madre dopo la separazione, ha un ruolo molto importante. «La cosa che nella vita ti toglierà più felicità è avere figli», ha scritto la docente universitaria Betsey Stevenson, nel suo libro «Il paradosso del declino della felicità femminile».
Anche nell’esperienza terapeutica appare con grande evidenza il senso di fatica, affollamento, impotenza delle donne sole nell’educazione e allevamento dei figli (salvo nei casi di grande abbondanza di mezzi, e neppure sempre). È ancora statisticamente raro, per fortuna, che ciò sfoci nella loro soppressione. Tuttavia accade, e i biglietti con le minacce «piuttosto che lasciare i piccoli a lui, li porto via con me» non rivelano necessariamente follia, quanto piuttosto la frustrazione di non avercela fatta da sole, l’ammissione del bisogno dell’altro, di un altro, vissuta però come debolezza inaccettabile.
Sembra che sia questa durezza con se stesse, questo voler essere sempre «brave», inappuntabili, per giunta anche belle, a rendere infelici le donne emancipate (o comunque superimpegnate). Anche, a quanto pare, sul lavoro, dove la donna, soprattutto se in carriera, richiede moltissimo a sé e agli altri che lavorano con lei. Proprio la difficoltà di adeguare le sue richieste alle possibilità degli altri la rende a volte impopolare; mentre la severità verso se stessa mette a rischio la sua vita affettiva, e le sue emozioni personali.
Difficile dire quanto questa elevata richiesta sia da sempre un tratto della personalità femminile, o quanto derivi dall’aver adottato quello che credeva fosse il modo maschile di stare nel mondo. Gli uomini però sono anche abili (a volte fin troppo) nell’indulgenza verso le proprie inadeguatezze. Meglio che anche le donne se ne concedano almeno un po’.

 

Claudio Risé, da “Il Mattino di Napoli” del lunedì, 21 settembre 2009, www.ilmattino.it

È passato un anno dalla dichiarazione ufficiale di inizio della crisi economica, e ora nuove autorevoli assicurazioni la danno per finita, seppur con ferite che si rimargineranno lentamente. Speriamo che sia così. Rimane però un problema psicologico e culturale (oltre che economico): abbiamo imparato la lezione? Sapremo evitare quei comportamenti che generarono le famose «bolle» (da quella immobiliare a quella dei «derivati»), il cui scoppio paralizzò poi mercati, e produzione?
Non è un problema teorico, riservato alle dispute degli economisti. È una necessità pratica, per non ritrovarsi tra qualche anno con un’altra generazione di giovani dirigenti bruciata in tutte le capitali economiche occidentali, masse di risparmiatori rovinate da speculazioni insensate, e eserciti di disoccupati dovunque.

Ma è contemporaneamente una scelta antropologica: quali sono i comportamenti «virtuosi» in grado di assicurare sviluppo e stabile benessere ai nostri paesi? Dobbiamo sempre puntare alla propensione al consumo, che si cerca di sollecitare ad ogni costo (anche questa volta si è ripartiti così), o è possibile cercare un modello più equilibrato? Come ad esempio uno «sviluppo sostenibile» che non bruci più risorse di quante ce ne siano, e quindi non crei nuove bolle, nuovi debiti che non verranno pagati da chi li ha fatti, ma da altri: lavoratori che perderanno il posto, risparmiatori che rimarranno privi delle risorse accantonate?
La comunicazione politica non sembra molto interessata alla questione. I governanti che sollecitano per uscire dalla crisi la ripresa dei consumi senza spiegare che tipo di sviluppo abbiano in mente, fanno pensare che il crac dello scorso anno non abbia ancora prodotto tutti i suoi insegnamenti per il futuro. Il buon cittadino, quello che aiuta il benessere del proprio paese non può essere ancora visto solo come un accanito e imperturbabile consumatore, come è stato finora. Deve essere anche portatore di una ricerca di equilibrio tra produzione, consumo, e risorse disponibili, tra interesse personale e interesse collettivo.
L’attuale presidenza americana, iniziata nel colmo della crisi, promette anche questo. Ma perché ciò accada, è necessaria un’ampia riflessione collettiva (non solo in America) su cosa possa garantire uno stabile e giusto sviluppo economico. I tentativi di mettere a punto un nuovo «indice del benessere», accanto al vecchio Pil, fanno parte di questa riflessione. Che deve però fare ancora molta strada.
La questione ha, come tutte le sfide antropologiche, risvolti psicologici profondi. I grandi disagi psichici del nostro tempo, vale a dire i disturbi narcisistici nelle loro manifestazioni dirette (euforiche, maniacali), e nelle loro versioni depressive, affondano le radici in questo modello economico-sociale.
L’«uomo consumatore», costantemente sollecitato a «vivere al sopra dei propri mezzi», è anche il nevrotico perfetto, descritto dalla psicoanalisi classica appunto come qualcuno che spende energie che non possiede. Il suo individualismo esasperato, che lo rende disattento e poco interessato ai vissuti affettivi degli altri, lo condanna a una serie di sconfitte sul piano dei sentimenti (in famiglia, nelle relazioni con l’altro sesso, nei rapporti amicali), che distruggono continuamente risorse sociali: ad esempio coi fallimenti matrimoniali, le gravidanze giovanili, l’abbandono degli anziani, le violenze ai più deboli.
Le «bolle» economiche traducono sui vari mercati la bolla psicologica su cui rotola il fragile equilibrio del narcisista, l’uomo ridotto a consumo ed immagine.

 

Claudio Risé, da “Il Mattino di Napoli” del lunedì, 14 settembre 2009, www.ilmattino.it

Il rapporto degli adolescenti con il proprio corpo diventa sempre più fragile. Così, il reparto di Pediatria e dell’Area Adolescenza dell’Ospedale Fatebenefratelli di Milano ha raccolto nel giro di un anno precisi racconti di ragazzine che si erano lasciate fotografare seminude, o avevano offerto prestazioni sessuali nel bagno delle scuole, in cambio di i-pod, scarpe o abiti firmati. Ancora una volta il corpo viene ceduto in cambio di accessori per l’immagine. Come mai questo accade?
Evidentemente perché il corpo stesso, la sua integrità e privatezza vengono da queste ragazze considerati meno importanti di simboli di status tipo l’i-pod, e gli oggetti di abbigliamento firmati. Come se per loro l’importanza del corpo vero e proprio diminuisse, mentre aumenta quella di ciò che lo copre, o attira su di esso lo sguardo degli altri.

Un corpo dunque sempre più «immagine», virtuale, che sceglie anche il mondo virtuale, la rete, come spazio prediletto per esporsi. Infatti l’assessore alla Salute del Comune di Milano, Giampaolo Landi, ha dato notizia di questa inchiesta dell’Ospedale Fatebenefratelli in una lettera a tutte le famiglie della città, in cui ha lanciato contemporaneamente una campagna pubblica contro la microprostituzione giovanile online. Secondo l’amministratore milanese infatti, il fenomeno sta dilagando in maniera esponenziale, specialmente tra le giovanissime studentesse che per pagarsi piccole spese quotidiane si prostituiscono su chat erotiche, spogliandosi ed esibendosi davanti a webcam casalinghe per arrotondare la paghetta.
In rete si trovano ormai molti casi di video hard di ragazzine, non più fatti per scherzo e destinati alla ristretta cerchia di amici, bensì veri e propri filmati, creati volontariamente per ricevere un compenso.
Per informare i genitori di tutto questo, l’assessore alla salute ha scritto loro una lettera aperta. Le ragioni di questa tendenza dei giovani alla mercificazione (e quindi alla svalutazione) del corpo, vissuto appunto come «cosa», oggetto di scambio mercenario, sono molteplici, e questa rubrica cerca spesso di presentarle. Particolarmente importante è però il rapporto (apparentemente distante, ed invece strettissimo) tra la svalutazione del corpo, ed il degrado dell’ambiente naturale.
La terra su cui viviamo è simbolo del nostro corpo; non solo nei nostri sogni (dove una terra abbandonata segnala problemi anche gravi nella relazione col corpo), ma nei vissuti e nei comportamenti individuali e collettivi.
Non stupisce dunque che non molto tempo prima che venissero rese note queste informazioni sui comportamenti adolescenziali, sia stato pubblicizzato il Rapporto annuale della Società Geografica Italiana, con i suoi dati impressionanti su una cementificazione che «aggredisce la bellezza dei paesaggi sfigurandoli e annullandone le caratteristiche identitarie sotto una massa indifferenziata di elementi artificiali anonimi e spesso volgari». Sostituendo a «paesaggi» la parola «corpi», ed a «cementificazione» la parola «consumismo», ci avviciniamo a capire cosa sta succedendo.
Se il corpo vivente della Terra viene ridotto a cosa, a superficie cementificata, anche il corpo umano si percepirà come cosa, il cui valore è certificato dal prezzo e dagli oggetti che lo coprono.
Il corpo umano fa parte della natura vivente, se questa scompare (come in Italia sta per certi versi accadendo, ed i geografi documentano), esso si sposta tra le cose, diventa merce.
L’educazione dei giovani non è separabile dalla cura e difesa del territorio naturale. Essi sono il corpo vivente del Paese.
 

Claudio Risé, da “Il Mattino di Napoli” del lunedì, 7 settembre 2009, www.ilmattino.it

Adolescenze turbate. Prima e dopo la ragazzina di Scampia, ogni giorno della scorsa settimana ha visto, in ogni parte d’Italia, adolescenti appena uscite dall’infanzia aggredite e violentate da coetanei, spesso guidati da un capo branco poco più grande. Il fenomeno, d’altra parte, da tempo si impone all’attenzione delle famiglie, degli educatori, della società.
Oggi chi entra nell’adolescenza è spesso potenziale preda del «gruppo dei pari», da cui si aspetterebbe protezione e amicizia. La tendenza non risparmia neppure i giovani maschi, che spesso diventano bersaglio sessuale di gruppi di coetanei carnefici.

Carnefici occasionali o sistematici. Cosa si agita dietro a questi fenomeni? Occorre fare un passo indietro rispetto alla rappresentazione della sessualità che il sistema delle comunicazioni (a cominciare da media e spettacoli) offre, e cui siamo abituati. La sessualità è oggi essenzialmente rappresentata come piacere, bellezza e divertimento, e come misura del successo personale. Questa presentazione è però parziale, se non accompagnata da altre informazioni, che di solito nessuno dà.
La prima è che la sessualità è la più forte delle pulsioni che scuotono la psiche umana, con conseguenze decisive sull’intera vita, sia nel bene che nel male. Per questo lo sviluppo sessuale andrebbe accompagnato da un’attenta ed empatica informazione, che aiuti la persona a contenere questa pulsione e le sue manifestazioni nel quadro del rispetto della persona: la propria, e quella degli altri.
Così la spinta del giovane maschio alla conquista ed al piacere, va riconosciuta come espressione della sua forza vitale, ma insieme ricondotta all’attenzione per l’altro, la sua sensibilità ed i suoi desideri, senza la quale non è che brutalità e violenza, giustamente condannata dalla società e dalla sua legge. Ed anche la spinta ad essere ammirata e desiderata della ragazza adolescente andrebbe accompagnata con la consapevolezza della forza non sempre controllata (certo colpevolmente) del desiderio maschile, e quindi dei rischi cui va incontro.
Tutto questo attento lavoro educativo però, raramente viene svolto, sia a casa che a scuola o negli altri luoghi di formazione, e quasi sempre in modo insufficiente. È come se, un secolo dopo l’inizio della psicoanalisi e della sua scoperta della forza della pulsione sessuale, parlarne sia diventato tabù.
Certo, si parla di sesso dalla mattina alla sera, e vi si dedica gran parte del sistema delle comunicazioni, ma come se fosse solo piacere ed immagine, non anche spinta da educare e contenere; potenzialmente devastante se non ricondotta a precisi rituali di incontro e di corteggiamento (la cultura popolare del sud Italia li conosce ancora perfettamente, specialmente nei piccoli centri).
Anche le periodiche campagne contro la violenza maschile diventano retoriche se non si confrontano con cosa la origina (appunto la mancanza di una cultura sessuale profonda), e come evitarla e contenerla.
Il rumore mediatico sulla sessualità è accompagnato dal silenzio sulle sue caratteristiche meno superficiali, e quindi anche più delicate e difficili. Intanto, la sessualità spettacolo copre la distruzione della cultura sessuale che, nelle diverse classi e regioni, «amministrava» il delicato passaggio tra infanzia e adolescenza. A questa cultura ed ai suoi rituali non viene sostituito nulla, lasciando al caso (retto dalla legge del più forte) l’incontro tra adolescenti, ex bambini oggi portatori di una sessualità caotica ed esigente.
Punire lo stupro è indispensabile, ma insufficiente se non si cambia la cultura che lo promuove.
 

Comunicazione a cura della Lista per il padre, già promotrice del “Documento per il padre“, e-mail: listaperilpadre@alice.it

Figli e figlie desiderano l’affetto e l’attenzione premurosa della figura paterna: hanno bisogno di padri capaci di essere buoni modelli e di offrire validi suggerimenti per il loro futuro. Ricerche e studi dicono che la presenza del padre è insostituibile nel preparare i giovani ad entrare con serenità nella vita, infatti:

quando i padri sono presenti nella vita scolastica dei figli i buoni risultati aumentano mentre le difficoltà e i problemi diminuiscono.

Lo sai che i figli con padri “assenti” riportano voti più bassi nei test di lettura e matematica, vengono maggiormente bocciati e abbandonano più spesso gli studi? E che rientrano più frequentemente nel numero degli studenti con problemi di comportamento (dalla demotivazione ai vandalismi, dal bullismo all’uso di droghe)?
Sai, invece, che la presenza del padre favorisce nei figli l’assunzione di comportamenti più responsabili e rispettosi, uno sviluppo significativo delle capacità linguistiche e di abilità cognitive come il problem solving o la concentrazione, e quindi il conseguimento di maggiore successo scolastico e più elevati livelli accademici?

Da dove cominciare? Accompagna più spesso i tuoi figli a scuola, dialoga e studia con loro quando puoi, insegnagli a gestire il tempo per evitare che lo perdano tra pc, tv e videogames, fai capire l’importanza dell’attività fisica e del riposo nei giusti orari serali, incontra gli insegnanti e informati su programmi e obiettivi prefissati, partecipa e collabora alle attività proposte dalla scuola, conosci gli altri genitori per dare voce alle vostre preoccupazioni e aspettative educative.
Padre: sii più presente per il bene dei tuoi figli.

Lista per il padre

Stampa, pubblica e diffondi il volantino «Anno Scolastico 2009/2010: “Padri: da settembre siate più presenti nella vita scolastica dei vostri figli”» in .pdf - clicca qui

Leggi e comunica la tua adesione al “Documento per il padre” - clicca qui

Per maggiori informazioni scrivi a listaperilpadre@alice.it
 

Claudio Risé, da “Il Mattino di Napoli” del lunedì, 31 agosto 2009, www.ilmattino.it

Stavolta si torna davvero. Nel giro di 15 giorni saremo tutti ai nostri posti, giovani e adulti. Non sarà proprio una passeggiata. Lunghe o corte, riuscite o problematiche, le vacanze ci hanno comunque abituato a produrre di meno, a dedicarci a quello che vogliamo noi, più che a quello che ci viene richiesto dagli altri, a lasciare la mente più libera, più disponibile a raccogliere l’intuizione o il desiderio del momento. Adesso tutto questo è finito. Come affrontare questo cambiamento?
Far finta di nulla non serve. La fatica, il disappunto, l’insicurezza, rifiutati dalla coscienza, scivolerebbero nell’inconscio, e da lì riapparirebbero sotto forma di brutti sogni (nel caso migliore), o, più spesso, di cattivo umore, depressioni, gastriti, ed altro. Meglio dunque guardare in faccia la realtà, compresa la nostra nostalgia del far niente, e cercare il modo di stare il meglio possibile. Come?

La risposta suggerita dall’osservazione degli stati di malattia e disagio, o di ritrovato benessere è: ritrovare la passione. Il rientro dalle vacanze non si risolve col riprendere silenziosamente il proprio posto, cercando di farci notare il meno possibile per diminuire le richieste degli altri, capi, insegnanti o genitori. Il modo giusto è, al contrario, quello di alzare noi stessi l’ostacolo, proponendoci obiettivi più interessanti, appassionanti, per solito i più difficili. Gli obiettivi cui di solito ci sottraiamo “per non aver grane”, per non impegnarci.
Non è solo il ragazzino che, come dice ancora qualche maestra ai genitori: potrebbe dare di più, ma non si applica. Anche in ogni adulto sonnecchia un ragazzino pigro, raccontandosi di non voler far fatica, ma che in realtà teme di incontrare energie sconosciute, di cui in fondo ha paura, anche perché le tiene sempre a distanza, trattandole come una zona oscura e misteriosa. E’ quella, invece, la zona delle sue qualità profonde e delle sue possibili passioni, su cui potrebbe fondare una vera autostima, e progetti motivati.
Il rientro dalle vacanze, con la sua naturale fatica a ricominciare tutto come prima, ed anche con le preziose forze accumulate durante il riposo estivo, è allora il momento migliore per cambiare tutto. E dunque per finirla con l’abituale (e depressiva) politica del risparmio energetico, e lasciare invece spazio alla nostra capacità e voglia di scoprire e di fare, insomma per accettare una buona volta di appassionarci a ciò che facciamo.
Aprire la strada alla passione è anche l’occasione opportuna per smontare le collaudate difese di cui ci siamo convinti, nel tempo, proprio per mettere invisibili reti protettive tra noi e la realtà: la supposta antipatia dei superiori e/o dei colleghi, la scomodità dei luoghi, la noia della giornata. Sono tutte perfezionatissime costruzioni mentali che possono però sciogliersi come neve al sole, se soltanto diventiamo abbastanza coraggiosi da lanciare, o raccogliere, un sorriso, un’idea, un progetto. Potremmo allora accorgerci con sorpresa che in fondo nessuno ce l’ha con noi, che il solito ufficio o aula può essere anche un veliero lanciato nel mondo, che possiamo divertirci in ciò che facciamo, anziché contare i minuti primi della pausa, o del ritorno a casa.
Questa trasformazione però richiede un atto di generosità da parte nostra, ci chiede di esserci davvero, là dove siamo, al lavoro, a scuola in famiglia. Non temiamo di spenderci: è il modo migliore per arricchirci. E il momento giusto per farlo è proprio questo: quando vorremmo essere da tutt’altra parte, ma non abbiamo scelta. Siamo con le spalle al muro: profittiamone.
 

Claudio Risé, da “Il Mattino di Napoli” del lunedì, 24 agosto 2009, www.ilmattino.it

Dove abbiamo sbagliato? E’ questa (anche quando non pronunciata) la domanda più presente alla mente dei genitori dei tantissimi ragazzi che in tutto il mondo occidentale hanno passato l’estate ubriacandosi e drogandosi, evitando per di più ogni sport e disciplina fisica. Molti di loro (sono i casi più semplici anche se poi rimediare non è facile) riconosceranno di aver mancato per disinteresse e disattenzione.
Più in difficoltà sono però gli altri (la maggioranza): i bravi genitori. Quelli attenti al profitto scolastico, alla buona salute, che suggeriscono ai figli consigli e direttive positive. Ma che hanno ugualmente vissuto vacanze inquiete, sapendoli tra un festival hip hop ed uno reggae, tra fiumi di droga birra e superalcolici, con altri accanto a loro che stavano male.

Sarebbero tornati, ce l’avrebbero fatta? Quali conseguenze, poi, avrebbero avuto, queste vacanze scombinate, sulla scuola, il lavoro per chi già ce l’ha o lo deve trovare, gli affetti? Domande che nascono da una crisi educativa presente in tutta la nostra civiltà. Nella quale però si fa strada un’intuizione che forse chiuderà un’epoca di pedagogia ansiosa e bimbocentrica, inaugurata negli anni dopo il ‘50 dai vendutissimi manuali del dottor Spock sul bambino, e da allora mai davvero abbandonata. La pedagogia che ha trasformato il figlio, prima bambino poi adolescente, in centro della vita dei genitori, fino a farne la loro principale, costante, preoccupazione. In questo modo ha scambiato quel ragazzino/a curioso e allegro in un ospite inquietante e imprevedibile.
Cosa combinerà, in quali pericoli si metterà, che malattie prenderà: ecco le domande che, se assillanti, trasformano quel simpatico rompiscatole del figlio in una preoccupazione ossessiva che distrugge il tuo buonumore (e quindi finisce col viziare anche il suo).
I genitori disperati raccontano ai terapeuti che quei figli chiassosi e distruttivi, incuranti di ogni regola e attenzione verso gli altri, si credono di essere al centro del mondo. Ma chi ha fatto loro credere di essere al centro del mondo, se non proprio i loro genitori (ma anche gli insegnanti, psicologi, assistenti sociali)? Questo incrementare l’egocentrismo prima infantile, poi adolescenziale, ha finito col privare i figli di un termine di paragone indispensabile per il loro sviluppo: gli adulti come “altro da sé”, con una loro vita e loro interessi, in relazione e magari in opposizione ai quali sviluppare i propri.
I ragazzi hanno così modellato una sorta di Ego personale apparentemente autosufficiente da quello degli adulti, in realtà profondamente povero e vuoto. A volte poi essi si ribellano a questo vuoto compiendo gesti estremi, apparentemente di ricerca del piacere, in realtà di autentica autodistruzione, come nei rave di ferragosto.
Anche il loro mondo di giovani appare come autoreferenziale e chiuso, se non per quanto riguarda i consumi (di droga, di musica, di gadget e mode di vario tipo) attentamente forniti da adulti, che lo trattano come un mercato. In realtà è piuttosto un mondo abbandonato a se stesso, da cui gli adulti sono usciti, assecondando le pulsioni e richieste più elementari dei ragazzi, spesso per non affrontare la fatica della contrapposizione, del fare ai ragazzi una proposta diversa. Che tuttavia, anche per prendere forma, presuppone che al centro della vita degli adulti non ci siano i pur importantissimi ed amati figli; ma loro, i grandi, con le loro sicurezze e le loro ricerche, le loro delusioni e le loro passioni.
Solo genitori protagonisti della propria vita consentiranno ai figli di riprendersi la loro.
 

Claudio Risé, da “Il Mattino di Napoli” del lunedì, 17 agosto 2009, www.ilmattino.it

Per la maggior parte delle persone un po’ di vacanza è già trascorsa; ancora una manciata di giorni, e si torna a casa. Come impiegare al meglio il tempo che resta, evitando la «sindrome da vacanza insoddisfacente» che perseguita al ritorno una parte consistente di vacanzieri?
La proposta dello psicoterapeuta è banale, ma precisa: non cercate di migliorare la situazione, di lanciarvi in nuove iniziative, tra le mille proposte del mercato. Fermatevi, riposate, fate finalmente vacanza. Una parola che fin dall’origine latina rimanda a un tempo di vuoto, di assenza, di impegni mancanti, tolti dalla routine della vita quotidiana. Mentre poi nel nostro modello di cultura, sovrabbondante di oggetti, di impegni, di consumi, di presenze, di attività, anche questo periodo si è riempito di moltissime cose: viaggi, sport, avventure sentimentali, incontri di mille tipi.

Anche le vacanze dei cosiddetti Vip, perlomeno come vengono raccontate, assomigliano a delle corvée: incontri e rotture sentimentali, viaggi, presenze “dove non si può mancare”. Ansia e iperattività proposte come modello contagioso anche al comune mortale, che non ha nulla da guadagnarci e tutto da perdere.
Questo ideale di vacanza come “sequenza di eventi”, più o meno smaglianti e grandiosi, trasforma la vacanza da vuoto (vacatio), se non in un vero e proprio lavoro (come è per molti personaggi dello spettacolo), perlomeno in un’attivismo mai interrotto.
Così la vacanza si dilegua, e quando è finita abbiamo l’impressione che non ci sia neppure stata.
Ci si presenta allora alla ripresa del lavoro, se non più stanchi, certamente neppure riposati.
Il passaggio dall’impegno al riposo, dalla programmazione alla vita giorno per giorno non è avvenuto. In realtà non siamo mai usciti dal tempo pieno e non abbiamo goduto l’effetto rigenerante (anche se leggermente straniante) del tempo vuoto, che è appunto quello della vacanza.
Meglio profittare dei giorni che restano per non lasciarci mancare l’indispensabile: l’esperienza ormai inedita, e quindi preziosa, del vuoto. La “vacuità” dei buddisti, con la loro ripetuta pronuncia dell’”Om”, l’”Amen” solenne e liberatorio dei cristiani, l’uscita dall’ansia del fare per affidarci (almeno per un po’) a quel ciclo vitale che non siamo noi a controllare e dirigere, ma in cui ci troviamo comunque.
E’ l’occasione per diminuire gli interventi e le iniziative, e “lasciar fare” appunto alla vita: la natura, il ritmo sonno-veglia, quello della fame e del suo soddisfacimento.
Una vacanza dalle complicazioni, e un ritorno all’esistenza semplice, elementare. Rigenerante.
 

(Intervista a Claudio Risé, di Enrico Lenzi, da “Avvenire”, 12 agosto 2009, www.avvenire.it)

«Se non si prende atto della diffusione delle sostanze stupefacenti in quasi la metà dei nostri giovani, non si affronta realisticamente quella che chiamiamo emergenza educativa». Non usa giri di parole Claudio Risé, psicoterapeuta e psicologo. «Non si possono ignorare in questo dibattito i molti problemi comportamentali e psichici che riscontriamo in una fetta della popolazione giovanile» aggiunge.
Nel mirino del psicoterapeuta vi è in particolare la diffusione della cannabis, «considerata una droga leggera, quasi facesse meno male delle altre, mentre al contrario la letteratura medica internazionale dice con chiarezza le devastazioni psicologiche e cerebrali che genera». E cita indagini e studi dell’Organizzazione mondiale della sanità, che parlano «di un consumo di cannabis già intorno ai tredici anni e comunque prima dei quindici. Le ricerche psichiatriche hanno dimostrato come l’assunzione a quell’età aumenti fortemente il rischio, a partire dai cinque anni successi, dello sviluppo di gravi patologie psichiatriche: psicosi e schizofrenia».

Con ripercussioni anche sulla formazione di questi giovani?
«Certamente. Persone alterate psichicamente non sono in grado di recepire in modo efficace input valoriali e comportamentali. Ecco perché è sempre più urgente lanciare campagne informative sui reali pericoli di queste sostanze. Come hanno fatto altri Paesi, ma l’Italia non affronta la questione».

Secondo le ricerche, nel nostro Paese un terzo degli adolescenti farebbe uso di cannabis. Numeri impressionanti che, però, farebbero immaginare una situazione sociale decisamente più devastata rispetto a quella che vediamo. Non c’è forse dell’esagerazione?
«Anzi. In cronaca finiscono i casi estremi. La quotidianità delle famiglie italiane è fatta dai moltissimi casi nascosti, migliaia di giovani che vivono il malessere quotidiano, mollando gli studi, con pessime relazioni familiari, comportamenti reattivi alternati a depressione. Migliaia di genitori e docenti possono raccontare le loro storie».

Quale compito assegna alla scuola?
«Quello di informare correttamente. Sfatando il mito della droga leggera, diffondendo il documento dell’Istituto superiore di sanità intitolato: La cannabis non è una droga leggera. Facendo conoscere le ricerche delle grandi organizzazioni internazionali della salute sulle conseguenze della cannabis. Ci sono docenti che già si impegnano, come ho riscontrato presentando il mio libro Cannabis. Come perdere la testa e a volte la vita. Un testo con centinaia di precisi riferimenti alle ricerche disponibili».

A quale età ritiene che la scuola debba iniziare ad affrontare la questione?
«Viste le statistiche, si potrebbe iniziare già nell’ultimo biennio delle elementari. Del resto per questi ragazzini, il cosiddetto “sballo” è dietro l’angolo. E con lui anche il pericolo».

Eppure lo “sballo” viene considerato quasi un elemento del divertimento giovanile.
«Sbagliando. Forse un tempo lo “sballo” era il rimediare una sbronza durante una serata. Oggi è l’abitudine ad evitare sistematicamente il confronto con la realtà, abusando di sostanze intossicanti, che alterano e creano dipendenza. I ragazzi di Nettuno che hanno dato fuoco a una persona hanno detto di ricercare “sensazioni sempre più forti”. Questo è indotto dalle alterazioni cerebrali per la dipendenza da cannabis».

Dunque giovani incapaci di frenare le proprie azioni, a causa della droga. Ma così non si rischia di mitigare la loro responsabilità negli atti compiuti?
«Come terapeuta non posso considerare loro, malati, i primi responsabili. La principale responsabilità è degli adulti, che non forniscono una corretta informazione sui rischi. Gli adulti devono spiegare e trasmettere informazioni, norme e regole ai giovani, i quali hanno una fisiologica spinta trasgressiva, anche come confronto tra il loro io in formazione, e il mondo circostante».

Ritiene che gli adulti di oggi siano in grado di affrontare questo compito?
«Se lo si vuole fare non è così complicato. Negli Stati Uniti, per esempio, dal 2000 è stata fatta una forte campagna informativa sull’uso della cannabis e in quasi un decennio il suo consumo si è ridotto del 25%, abbassando anche quello dell’alcol e di altre droghe. Come vede quando il mondo degli adulti vuole, i risultati arrivano. Ma in Italia non lo si fa: con Malta è ultima in Europa sulla lotta alla droga».

Per quale motivo?
«Manca la capacità (e la passione) di mettersi in discussione. Molti dei genitori di oggi vengono dalle generazioni dagli anni Sessanta in poi, e non hanno saputo rivedere con occhio critico la loro giovinezza, compreso gli spinelli e la cannabis. Sotto questo profilo se di emergenza educativa dobbiamo parlare, si potrebbe dire che riguarda in primo luogo proprio il mondo degli adulti».

Allora a chi, secondo lei, spetta compiere il primo passo per invertire la rotta?
«Di certo nelle famiglie e nella scuola oggi cresce la consapevolezza dell’esistenza di questo malessere e della necessità di affrontarlo. Tra le parti in causa non dimenticherei i mass-media, indispensabili per una campagna informativa seria e corretta, finora mai fatta, e i politici, gli unici fra quelli dei grandi Paesi a sottrarsi all’impegno di informare i cittadini su questi rischi».

Enrico Lenzi
 

Claudio Risé, da “Il Mattino di Napoli” del lunedì, 10 agosto 2009, www.ilmattino.it

Pensatori autorevoli, statistici e matematici hanno anche recentemente spiegato perché giocare alle lotterie, come il Superenalotto, sia del tutto irrazionale e privo di senso, visto che le probabilità di vincita sono grottescamente vicine allo zero. Dunque persone e popoli dediti a questi giochi, come gli italiani, sensibili da sempre a queste passioni, rivelerebbero in questo modo un lato infantile, un poco lodevole legame col pensiero magico. Ma siamo sicuri che sia davvero così?
La frequentazione attenta di qualsiasi botteghino dove si vendano biglietti delle magalotterie ci fornisce informazioni diverse. L’atmosfera è positiva, piuttosto elettrica, ma cordiale. Già lì, mentre paga, la gente ha l’aria di divertirsi, cosa non frequentissima nell’attuale società di massa, e comunque indice di salute mentale. I posti malsani sono quelli dove la gente è spinta a soffrire, non quelli dove si diverte. Piacere, e tormento, segnano la linea divisoria tra salute psichica, e malattia.

Qui invece, mentre esco e il gestore sta abbassando la saracinesca, arriva trafelata una giovane donna in bicicletta e chiede autoironica: «Come, già chiuso? Anche stavolta non diventerò ricca…»? Il fatto è che anche lei, come tutti gli altri, ha già cominciato a sognare. Per questo investe qualche spicciolo nella giocata, per questo sorride, sperando che il tabaccaio le prenda il foglietto che ha preparato.
Il grande popolo dell’Enalotto compie insomma, quando può e si ricorda, la fondamentale operazione terapeutica di dare spazio all’immaginazione, che è poi la bombola d’ossigeno della psiche, la lampada magica che, se strofinata, lascia uscire il suo genio benefico. Fumoso, ma pronto ad ascoltare i nostri desideri.
Il costo della giocata, con la sua minima speranza di vincita, rappresenta il rito di ingresso per autorizzarsi a sognare: quali desideri realizzare, quali regali fare, quali oggetti belli concedersi. Se lo scopo è quello di immaginare, e non veramente quello di vincere, perché però pagare una tassa agli organizzatori delle lotterie, e allo Stato; perché non sognare per conto proprio, senza pagare balzelli di sorta? Innanzitutto, per fortuna, se una persona sta bene non si limita a sognare con le lotterie, ma coltiva anche sogni più personali, intimi e profondi, meno monetari. Ciò che però le grandi lotterie forniscono è la possibilità di inserire i propri sogni personali in un grande movimento di immaginazioni e speranze collettive, col risultato di rafforzarli con le emozioni di tutti gli altri che partecipano al rito.
L’operazione psicologica non si svolge più all’interno del conscio e inconscio personale, ma tra questo ed il grande ed impetuoso fiume dell’inconscio collettivo: quello delle speranze (e dei timori) condivisi con molti altri. È una variante moderna dei grandi «misteri» dell’antichità, nei quali i gruppi si esaltavano collettivamente nell’incontro con gli Dei, spesso rappresentativi della Fortuna, o del Destino.
In questo modo l’Enalotto, o la Sisal, svolgono la funzione sociale di organizzare con profitto un bisogno psicologico e affettivo specifico dell’essere umano. Certo, come ogni passione, anche questa può alimentare dipendenza patologica, in questo caso dal gioco. Non è però la lotteria a generare dipendenza; essa viene piuttosto utilizzata da nuclei di fissazioni psichiche ossessive che in assenza di questi giochi, si rivolgerebbero ad altri riti.
Nell’attesa dell’estrazione, a volte poi dimenticata, si viva il gioco per quello che è: la frequentazione di quell’«isola del tesoro» che è l’immaginazione umana.
 

Claudio Risé, da “Il Mattino di Napoli” del lunedì, 3 agosto 2009, www.ilmattino.it

Si torna a parlare di schiaffi nell’educazione. L’occasione è l’iniziativa di un nuovo referendum, in Nuova Zelanda, per abrogare quello di due anni fa che aveva appunto proibito le botte. Ci si chiede se sia sensato mettere in forse il divieto di punizioni corporali verso i minori. È questo un terreno sul quale l’esperienza psicoterapeutica ha però qualcosa da dire. Le storie che raccontano i pazienti sono infatti più sfaccettate della naturale ripugnanza verso la violenza ai bambini.
Sono molte, infatti, le persone che raccontano di rapporti coi genitori dove l’ultima parola era sempre lo schiaffo (o peggio). Quando in queste punizioni c’era compiacimento da parte dei grandi, le ferite sono rimaste sull’anima di chi le ha ricevute.

La conseguenza più grave e frequente è probabilmente questa: chi subisce da piccolo atti di sadismo, presentati come giusta conseguenza di qualche trasgressione, finisce spesso col capovolgere il proprio rapporto col piacere. Capita allora che da grande sia spinto a ricercare attraverso la punizione quel godimento che provava il genitore che lo castigava «per il suo bene», e che il bambino inconsciamente intuiva (e a cui partecipava). Come si vede, si tratta di un danno psicologico e affettivo piuttosto grave, e non semplice da trasformare.
Dalle storie di chi soffre emerge però anche un’altra realtà. Spesso il bambino ha vissuto come crudele e violento non lo schiaffo, ma la freddezza, non l’aggressività fisica, ma la distanza. Una delle prime intuizioni della psicoanalisi, del resto, fu proprio la constatazione che nell’aggressività c’è anche uno slancio affettivo, un «andare verso l’altro» che è parte integrante dell’esperienza dell’amore. Da allora, l’esperienza clinica, in tutto il mondo, ha confermato che un’educazione distante e compassata è vissuta come molto più crudele dell’altra, magari troppo gridata e incontinente. I film di Ingmar Bergman (come la gran parte della produzione artistica del Nord Europa), descrivono perfettamente siffatte situazioni.
Questi risultati dell’osservazione psicologica non sono, in fondo, sorprendenti. La prima esigenza del bambino è infatti quella di ricevere amore, attenzione, calore. Non ha poi tanta importanza che questo venga offerto in modo educato, corretto, oppure emotivamente sovrabbondante. Il fatto decisivo è che l’amore ci sia.
La distanza fisica, la freddezza emotiva, la voce che non si alza, la mano che non tocca, non stringe, e si tiene invece alla larga, come tutto il corpo dell’adulto, è vissuta dal bambino come un rifiuto, un abbandono. Le conseguenze in questo caso possono essere ancora più gravi, ed arrivare fino alla scissione della personalità.
Tutto ciò spiega perché spesso l’ex bambino affettuosamente e frequentemente percosso non abbia un ricordo spiacevole di quell’esperienza, ma la consideri anzi una manifestazione di affetto e di attenzione preziosa, che è pronto a ripetere con i suoi propri figli.
Allora, che fare con i nostri figli? Scapaccioni o parole? Come al solito, non si può contrapporre ideologicamente l’uno all’altro. L’educazione è il luogo dello sviluppo affettivo, istintuale e cognitivo; la «non violenza» non c’entra, conta la crescita equilibrata della personalità del bambino. Che ha bisogno di affetto, manifestato anche col contatto fisico: carezza, ma anche scapaccione, se viene naturale, di slancio, accompagnato da un «ti voglio bene!».
Attenzione, poi a non voler spiegare tutto: un gesto affettivo, come la carezza (e lo scapaccione), è più eloquente di infiniti, e snervanti, discorsi. Gesto e parola vanno assieme.
 

Claudio Risé, da “Avvenire”, 31 luglio 2009, www.avvenire.it

L’Italia non è in declino, ha rassicurato il ministro dell’Economia. Una valutazione che fa piacere. Per dare piena fiducia, tuttavia, essa va incrociata anche con dati non specificamente economici, considerati ovunque significativi del livello di sviluppo e di dinamismo di un Paese.
Tra questi, molto importanti quelli relativi al consumo di droghe. Un Paese drogato si sviluppa meno, e in modo meno solido. Non solo per i costi sanitari altissimi indotti a medio e lungo termine dalla fetta di popolazione intossicata; ma per la minor vitalità che l’uso di droghe produce sia sul piano dell’iniziativa (anche economica) che su quello cognitivo (ricerca e innovazione) e affettivo (stabilità delle relazioni, estraneità alle devianze). Molti dei guai del capitalismo più recente, da aziende pessimamente dirette negli anni ’70 all’ultima crisi economica, hanno tra le loro caratteristiche l’uso di droga da parte di alcuni fra i loro protagonisti.

Inquieta, dunque, che anche l’ultimo World Drug Report dell’Onu segnali il continuo aumento dell’uso di droghe in Italia, arrivando a dedicare un apposito paragrafo al fenomeno (specificatamente italiano) del raddoppio nell’uso di cannabis e suoi derivati. La droga più usata nel mondo, il cui costo non diminuisce ma cresce, il trampolino di lancio verso tutte le altre droghe. Alcol compreso, recente piaga giovanile, di cui ci si è finalmente accorti negli ultimi mesi.
«Non è simpatica la posizione italiana rispetto agli altri Paesi europei per quanto riguarda l’uso di cannabis – ha affermato Antonio Costa, direttore dell’Ufficio delle Nazioni Unite per il contrasto alla droga –. L’Italia è l’unico Stato che mostra dati in crescita».
Il rapporto dell’Onu infatti, dopo aver segnalato la netta diminuzione in atto nell’assunzione di cannabis nei grandi Paesi sviluppati (in testa i giovani inglesi fra i 16 e i 24 anni con un meno 37% nell’ultimo decennio), e l’inizio di diminuzione nei Paesi dell’Est (Repubblica Ceca, Slovacchia e Polonia) che avevano preoccupato negli ultimi anni, presenta il caso italiano: «La situazione è diversa in Italia, dove il tasso di consumo di cannabis tra la popolazione dai 16 ai 59 anni è più che raddoppiato negli ultimi anni, passando dal 7,1% nel 2003 al 14% nel 2007. L’Italia è dunque diventata il maggiore mercato europeo della cannabis, con circa 5,7 milioni di utilizzatori nel 2007, su un totale di circa 30 milioni di utenti di cannabis nell’intera Europa. Questo riflette, tra l’altro, l’ampia disponibilità di erba di cannabis proveniente dall’Albania e dall’Olanda, e la crescente produzione domestica dal Sud Italia».
Sono dati che, sommati alla continua crescita del consumo di cannabis nei Paesi poveri e in via di decollo, e al progressivo disinteresse per questa e per le altre droghe negli Stati a più forte sviluppo industriale e scientifico, gettano un’ombra pesante sulla qualità e solidità dello sviluppo nel nostro Paese. E accompagnano anche gli aspetti più poveri e scomposti della sua scena politica.

Claudio Risé, da “Il Mattino di Napoli” del lunedì, 27 luglio 2009, www.ilmattino.it

Come fare quando (come in Italia) oltre il 40 per cento dei giovani tra i tredici e i vent’anni assume sostanze psicoattive, dall’alcol a ogni tipo di droga, senza dimenticare il crocevia obbligato dell’onnipresente spinello? Emanare ordinanze e perseguire chi gliele vende (come fa il Comune di Milano), vietare l’alcol ai neopatentati, sottoporli ai narcotest (come prevedono le nuove norme sulle patenti), moltiplicare i controlli? Oppure dialogare coi ragazzi, ascoltarli? E se loro non parlano?
Se ne discute in questi giorni, mentre le cronache e i dati statistici presentano una gioventù sempre più spesso alterata e fuori controllo, scolasticamente e socialmente in difficoltà. Il dibattito è però falsato dai condizionamenti ideologici. Chi approva i controlli, viene etichettato come «falco», e accusato di non voler dialogare. È anche vero, d’altra parte, che la retorica opposta della «tolleranza zero» considera il dialogo come sinonimo di debolezza, e di perdita di tempo. La verità è come sempre meno unilaterale.

Le principali potenze industriali, dagli Stati Uniti alla Francia all’Inghilterra, hanno affrontato ormai da tempo la tendenza dei ragazzi a rifugiarsi nelle droghe, tipico problema della postmodernità. Lo hanno già fatto non perché fossero in condizioni peggiori delle nostre, ma perché sono più attenti, concreti, e meno ideologici. Si sono così accorti che è indispensabile tutto: informazione, dialogo, controlli e divieti.
Da noi invece l’Istituto superiore di sanità ha prodotto fin dall’inizio del millennio un documento intitolato «La Cannabis non è una droga leggera», e ancora oggi media, politici ed anche ministri continuano a parlare di hashish e marijuana (i derivati della cannabis) come se invece lo fossero. Preferiscono usare la droga come strumento di propaganda politica, piuttosto che come un’emergenza nazionale, che deve essere affrontata unitariamente, da tutti.
L’informazione è la prima necessità. In internet, sul sito della Casa Bianca, è perfettamente descritto come le varie droghe danneggino le diverse aree cerebrali. Da noi invece si giudicano ipotesi acquisizioni scientifiche ormai stabilite da anni: la pericolosità altissima (anche se su zone cerebrali diverse) di ogni droga; la relazione tra depressioni non riconosciute e l’uso di sostanze; la loro induzione di patologie psichiche gravi (forme paranoidi, psicosi, schizofrenie); i danni sempre prodotti sul piano cognitivo: memoria, sfera degli interessi, volontà. E gli altri danni fisici: polmoni, genitali, fegato, cuore.
Assurdo quindi parlare di droghe, senza fornire prima ai nostri figli le informazioni sui rischi che corrono, con la relativa documentazione scientifica. Per farlo, però, gli adulti devono informarsi a loro volta. La maggior parte dei genitori, e degli educatori (come anche dei politici), infatti, non li conosce.
Raccolte le informazioni, occorrono norme e sanzioni. Perché? Adulti che, di fronte ad un fenomeno come l’intossicazione di un’intera generazione, non legiferano con ordinanze e misure idonee, non sono credibili. Evidentemente non vogliono assumersi responsabilità: o perché non ritengono il fenomeno davvero grave, o perché sono deboli. In entrambi i casi, il dialogo non parte: se non sei convinto di quel che dici, o se non sai cosa dirgli, perché il ragazzo dovrebbe ascoltarti?
Norme e divieti, con le relative informazioni, sono dunque tra le premesse del dialogo, che è un confronto tra le esperienze del giovane e le conoscenze dell’adulto. Se non hai informazioni precise, tradotte in norme, nessun ragazzo ti ascolterà. Lo si può anche capire.

(Di Lucetta Scaraffia, da “L’Osservatore Romano”, 24 luglio 2009, www.vatican.va)

Due notizie di questi giorni - la promessa di Obama di impegnarsi per ridurre il numero di aborti negli Stati Uniti e l’approvazione a larga maggioranza nella Camera dei deputati italiana di una mozione da presentare all’Assemblea generale delle Nazioni Unite contro l’aborto come strumento di controllo demografico - sembrano indicare che si sta chiudendo una fase storica iniziata negli anni Settanta, quando si diffuse l’opinione che l’aborto andava garantito come diritto di libertà delle donne, e doveva quindi essere considerato una possibilità positiva nell’esercizio di un diritto individuale.
Sull’eco di questa convinzione - affermatasi grazie alla propaganda ideologica radicale e femminista - l’aborto è stato diffuso come mezzo di controllo delle nascite nei Paesi del Terzo mondo anche da agenzie internazionali, e propagandato come strumento per assicurare la libertà delle donne persino quando viene imposto dallo Stato. Oggi, la crisi demografica e le voci di protesta che si sono levate soprattutto da parte della Chiesa cattolica - che sempre si è battuta perché nelle conferenze mondiali l’aborto non venisse considerato ufficialmente un metodo di contraccezione e un segno di liberazione delle donne - stanno provocando un ripensamento sulla questione, che coinvolge anche il femminismo.

Del resto, è ormai evidente che non si è realizzato neppure quello che veniva sbandierato come un buon motivo a sostegno della legalizzazione dell’aborto, e cioè la sicurezza che in questo modo il ricorso all’interruzione di gravidanza sarebbe diminuito fino a sparire, anche grazie alla libera diffusione degli anticoncezionali. Non solo gli aborti continuano a essere praticati, anche nei Paesi dove è larga l’informazione sugli anticoncezionali, ma il fenomeno coinvolge fasce di età sempre più basse.
Perché le nostre società non riescono a debellare questo male? Sarebbe il momento di porsi davvero questa domanda, e di cercare delle risposte convincenti e non ideologiche. A questo proposito, un aiuto a capire viene dall’ultimo libro dello psicanalista Claudio Risé (La crisi del dono. La nascita e il no alla vita, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009, pagine 160, euro 12), secondo il quale “l’aborto non nasce solo dalla malvagità o distrazione individuale, o dall’opportunismo di gruppi politici inconsapevoli o irresponsabili. Esso - sottolinea lo studioso - affonda le sue radici in un terreno psicologico, cognitivo e affettivo molto più vasto, ed è alimentato dalla maggiore tentazione regressiva da sempre presente nella psiche umana: quella di uccidere il nuovo, lo sviluppo, il cambiamento, appena comincia a prendere forma. Prima che nasca, e ti costringa a cambiare con lui”.
Con un percorso di lunga durata, che parte dai miti dell’età greco-romana per arrivare alla tradizione giudaico-cristiana, l’autore riscopre il significato della nascita nelle tradizioni religiose, e cioè un significato di rinnovamento e di rinascita, a cui si oppone spesso la paura: “Uccidere il nascente, fermare il tempo, è naturalmente anche un modo di pensare inconsciamente di vincere la nostra morte, fermando il tempo nel quale essa è iscritta”.
Così uccidono i bambini appena nati Crono-Saturno (che paga questa pulsione negativa con la malinconia e il pessimismo) ed Erode, entrambi per mantenere il potere che ritengono minacciato, ma anche Medea, che si sente onnipotente: perché, sempre, “la nascita di un nuovo essere umano produce nel mondo una scissione fra adesione e opposizione alla trasformazione”. E infatti Gesù, che crede e vuole la trasformazione, accoglie con gioia e affetto i bambini, gli annunciatori del nuovo mondo.
Il modello culturale della moderna società occidentale, dove l’aborto è diventato un diritto, è fondato sul controllo delle situazioni e sul possesso di persone e cose, e guarda con diffidenza l’affidarsi e l’accogliere, cioè il dono. Molto spesso si rinuncia al bambino che nasce per avere, “divorare, incorporare, altro: denaro, comodità, carriera, status, divertimenti”. Del resto, non è la prima volta - scrive Risé - che “l’uomo costruisce idoli materiali, per sottrarsi al dono di sé, che ha la sua immagine vivente nel figlio, nel bimbo che nasce”; ma poi, sempre, spinto dall’infelicità e dalla solitudine, ha riaperto il cuore all’accoglienza.
Speriamo che le notizie ricordate all’inizio abbiano seguito positivo e siano davvero i primi segnali di una inversione di tendenza: verso una apertura al dono, al bimbo che nasce. E quindi alla speranza del futuro.
Lucetta Scaraffia

 

(Di Stefano Andrini, da “Bologna Sette”, 19 luglio 2009, www.bo7.it)

Risé: «Così si cancella il principio di autorità»

«Così si mina alla base il principio d’autorità», lo afferma Claudio Risé, psicoterapeuta e docente di Psicologia dell’educazione alla Facoltà di Medicina e Chirurgia dell’Università di Milano Bicocca, commentando la vicenda delle «Longhena» di Bologna dove 24 maestre, per protestare contro la reintroduzione del voto decimale, hanno dato il 10 in pagella a tutti gli alunni.
«Il punto pregiudiziale», sottolinea Risé, «è l’immagine che le maestre danno di sé, e dell’autorità in generale, nel momento in cui, di fronte ai bambini, prendono una posizione contraria all’autorità cui sono sottoposte per legge. Un intervento di questo tipo mina alla base il loro rapporto coi bambini. È come se dicessero loro: “L’autorità non vale nulla. Vi dimostriamo che si può fare il contrario”.

Questo messaggio, inviato a chi hanno il compito e il dovere di educare, passa una consegna molto precisa: “Ciò che vi diciamo è in ogni momento opinabile e potete fare esattamente il contrario, così come facciamo noi nei confronti del ministro”. In questo modo si incrina alla base qualsiasi processo educativo, che richiede fiducia totale da parte dei bambini ed un riconoscimento del principio d’autorità.
Casi come questo», aggiunge Risé, «dimostrano che il principio d’autorità è il grande disperso della scuola italiana. E trascina nella sua caduta una serie di altri principi come quelli ad esempio di legittimità e responsabilità. Se si può fare il contrario di ciò che l’autorità chiede, come fanno i bambini a sapere a chi devono ubbidire?
La maestra è titolata a chiedere cose ai bambini in quanto dipende da un’istituzione, il ministero della Pubblica istruzione, a cui ne è affidata l’educazione. Ma se fa il contrario di ciò che dice il ministero, perché il bambino deve riconoscerla come soggetto educatore? Da dove deriva la sua legittimità nel chiedere ai bimbi quello che chiede? E ancora, guardando al principio di responsabilità: le maestre sono responsabili nei confronti di qualcuno o fanno quello che passa loro per la testa? E se lo sono, nei confronti di chi lo sono, se non dell’autorità da cui dipendono?
Partendo da un episodio di questo genere possiamo avviare un’ampia riflessione, in cui rintracciamo una serie di manifestazioni e di episodi anche di cronaca: il tipico smarrimento dell’adolescente, che non sa più a chi dar retta, se al dj, al barista, alla maestra o al preside, deriva anche da questo.
Per quanto riguarda le famiglie», conclude Risé, «devono essere consapevoli che gli insegnanti sono al loro servizio, al servizio dell’educazione dei loro bambini. E che hanno una possibilità diretta di intervento nella scuola attraverso la politica. Se sosterranno, unite, la posizione del ministero, le maestre, che al ministero sono sottoposte, saranno costrette a cambiare atteggiamento.
Le famiglie quindi hanno potere contrattuale attraverso l’azione politica: possono mobilitarsi, ricorrere al ministero, organizzare manifestazioni e lo devono fare nell’interesse dei loro bimbi».
Stefano Andrini

Claudio Risé, da “Avvenire”, 21 luglio 2009, www.avvenire.it

L’ordinanza del sindaco di Milano che vieta la vendita di alcolici ai minori di 16 anni è una misura giusta. Malgrado il dilagare dell’alcolismo tra i più giovani, in Italia non era ancora stata adottata (al di fuori della provincia autonoma di Bolzano, e, più recentemente, di Monza); è dunque anche coraggiosa e contagiosa, come confermano, per un verso, certe trasversali irritazioni politiche e, per l’altro, l’avvio di analoghe e altrettanto trasversali iniziative.
A uno sguardo più ampio appare però un’assunzione di responsabilità perfino ovvia: nessuna istituzione pubblica può accettare che i giovani si autodistruggano, senza far nulla. Misure simili sono infatti già state varate direttamente dallo Stato perfino in Francia, Paese dove la lobby dei produttori di alcolici è tradizionalmente fortissima. In Usa sono attive fin dall’inizio del millennio, con risultati eccellenti sia sulla diminuzione dei consumi, che delle patologie correlate; ottenuti anche per le grandi campagne di informazione sui danni della sostanza-base dello ’sballo’, anche alcolico: la cannabis e i suoi derivati, hashish e marijuana.

La salute psicologica e fisica dei giovani occidentali è oggi infatti messa a rischio da diversi mix di sostanze (cannabis sempre presente, alcol, anfetamine, cocaina), assunte per fuggire dalla realtà e dalle loro responsabilità nel mondo: la poliassunzione di diverse droghe è la regola.
Di fronte alla crescente popolarità tra i ragazzi di uno ’sballo’ che distrugge le loro capacità cognitive e affettive, la presa di posizione da parte del mondo degli adulti è dunque un atto dovuto, e indispensabile perché i giovani possano impegnarsi per la loro salute, e non per la propria distruzione. Letizia Moratti lo sa bene, anche per il suo pluridecennale impegno personale nella fondazione e sviluppo di San Patrignano, fra le maggiori comunità di recupero del mondo. I sindaci, i governanti, i capi delle strutture educative, devono perciò assumersi la responsabilità di dire: noi non vogliamo che vi distruggiate e faremo quanto possiamo perché ciò non avvenga.
Chi detiene poteri decisionali pubblici, per essere credibile, non può però limitarsi a dichiarazioni di intenzioni, ma deve accompagnarle con delibere, ordinanze, leggi. È stato detto (don Gino Rigoldi) che si tratta di un «gesto simbolico», dove simbolico sembra sinonimo di «inutile». Ma ogni norma ha innanzitutto un valore simbolico: essa indica la posizione presa sulla questione dalla comunità, attraverso le delibere dei suoi rappresentanti. Senza questa prima assunzione di responsabilità, e orientamento, non si dà nessun sviluppo educativo (è qui che nasce l’«emergenza educativa »).
Poi le norme vanno applicate, fatte rispettare, e non è mai una passeggiata. Ogni genitore, ogni educatore conosce il delicatissimo processo di ascolto, attenzione, contrattazione che la norma mette in moto, prima di arrivare alla sanzione. Per poter ottenere qualcosa però, almeno deve esserci la norma, accompagnata da una sanzione.
Questa, come dimostra il documentatissimo fallimento di ogni educazione permissiva, non è un atto di sadismo, o di arroganza: è invece un atto d’amore. C’è più amore in un ‘no’, anche dolente, sempre faticoso, ma franco e aperto alla speranza, che un ‘ni’ ambiguo, che non chiarisce affatto da che parte tu, adulto, realmente stia. A quel ‘no’, certo a forte vocazione simbolica, come sempre il ‘no’ del padre (che non è un carceriere ma, per necessità, un legislatore), il ragazzo potrà aggrapparsi quando potrà e vorrà, come ad una mano pronta a tirarlo fuori dalla palude dello sballo (apparentemente euforica ma profondamente depressiva), per restituirlo al rispetto di sé e all’avventura della propria vita.
Claudio Risé

Claudio Risé, da “Il Mattino di Napoli” del lunedì, 20 luglio 2009, www.ilmattino.it

Basta con i piagnistei. Le «colpe della società» siamo noi stessi a fabbricarcele, uno per uno. Il «non cercate scuse» che Barack Obama ha rivolto ai giovani neri, invitandoli a smetterla di sognare di essere rapper o campioni di basket, per diventare invece «scienziati, ingegneri, dottori, insegnanti, giudici della Corte suprema e presidenti degli Stati Uniti» era diretto - ha poi spiegato - a tutti: bianchi e neri, giovani e adulti. E vale non solo per gli Usa, ma per tutto l’Occidente.
Il grande problema in questa parte del mondo è infatti il calo delle aspettative, delle ambizioni, della voglia di impegnarsi. Anche il far soldi (e distruggere ricchezza sociale) con le truffe finanziarie che hanno provocato l’ultima crisi economica, o il peso assunto dal narcotraffico e dal consumo di droghe su cui esso prospera, sono altri volti dello stesso problema: il disincanto dell’Occidente e la caduta delle speranze e delle ambizioni dei suoi giovani.

Quest’anno i media spagnoli li hanno soprannominati la «generazione né-né», né studio né lavoro. In Italia sono circa un milione i giovani in età lavorativa che non cercano un lavoro, né sono disposti a studiare per qualificarsi meglio. Due anni fa il ministro Padoa Schioppa aveva liquidato l’intero problema parlando di «bamboccioni» che non volevano crescere, uscire di casa ed assumersi le proprie responsabilità. Le cose sono molto più complesse. Tra l’altro, come ha ricordato Obama, l’atteggiamento rinunciatario dei figli dipende anche da quello dei loro genitori: «I genitori devono assumersi le loro responsabilità, mettendo da parte i videogiochi e mandando i figli a letto presto».
La parola chiave in tutta questa faccenda è infatti: responsabilità. I figli non si prendono le loro, né come studenti né come lavoratori, perché i padri non gli hanno insegnato come si fa, rinunciando per primi a prendersi le responsabilità poco gratificanti del genitore-educatore. Così come gli insegnanti non si sono assunte le loro, e molti continuano a non volerlo fare, come le maestre di Bologna che hanno promosso gli allievi col «dieci politico» generalizzato, pur di non assumersi la responsabilità, richiesta dal ministero, di valutarli coi voti numerici.
Dietro a questa mancata assunzione di responsabilità sta (come l’osservazione clinica dimostra) il fondo depressivo della cultura del narcisismo. «I ragazzi né-né sono anche figli delle famiglie che non li spronano», ricorda il ministro per la gioventù Giorgia Meloni. Genitori e maestri sono troppo depressi per reggere il confronto ed il conflitto provocato dal «no». La bassa autostima dell’adulto narcisista non regge siffatta prova.
Questo opportunismo impedisce però di trasmettere ai giovani, assieme ai no, anche l’energia e la forza che ogni giusto sacrificio sprigiona. La vita e lo sviluppo psicologico non sono infatti il risultato di continue acquisizioni, ma anche di rinunce, di limiti imposti alle proprie pulsioni, al proprio egoismo, alla propria prepotenza, in nome di uno sviluppo, di un «diventare altro» (e meglio), che rafforza ed orienta il senso della nostra vita. È questo, in fondo, il processo educativo, ed è proprio dallo smarrimento di questa consapevolezza che nasce quella «emergenza educativa» che genera gran parte dei problemi attuali anche nel nostro paese; da quelli che chiamiamo impropriamente «morali» a quelli economici, a quelli funzionali, dei servizi.
Occorre assumerci le nostre responsabilità di adulti per aiutare i giovani a sperare, e a volere. Obama esprime un’esigenza e un pensiero ormai sempre più diffuso in Occidente.

(Intervista a Claudio Risé, a cura di Antonello Vanni, da “Il Sussidiario”, 13 luglio 2009, www.ilsussidiario.net)

Oggi il mondo ha perso il gusto ad un reale rinnovamento, perché questo implica un dono di sé all’altro, ed una messa in discussione dell’Ego, e di ciò che si “possiede”. Quali sono le conseguenze nella nostra società di un tale atteggiamento caratterizzato da chiusura, difficoltà di relazione e scarsa lungimiranza?
Ne discutiamo con Claudio Risé, psicanalista e scrittore, che ha appena pubblicato il libro La crisi del dono. La nascita e il no alla vita (San Paolo Ed., 2009), un’opera che tratta i temi della nascita e della necessaria rinascita e trasformazione nel corso della vita dell’uomo, condizioni che portano ad un autentico rinnovamento e sviluppo nel mondo stesso.

Prof. Risé, la prima domanda sorge spontanea: esiste una relazione tra l’importante crisi economica che stiamo vivendo e il carattere di una società, come la nostra, che nel suo nuovo libro lei ha definito “società del possesso”? Quali sono le vie di uscita da questa stagnazione?
La società del possesso produce fatalmente crisi, proprio perché in essa importanti risorse, prodotte dalla genialità umana, dallo sviluppo economico, dalla ricerca scientifica e tecnologica, vengono continuamente sequestrate dalle categorie più avide, che finiscono col distruggerle in un folle gioco alla moltiplicazione dei guadagni e dei patrimoni individuali.
L’attuale crisi è nata dalla distruzione di enormi ricchezze, ad opera dall’alleanza tra l’avidità di risparmiatori convinti di poter aumentare a dismisura i propri patrimoni sia immobiliari che mobiliari, e fasce di finanza spregiudicata che lo lasciava credere possibile, per amministrarne le risorse.
Questa distruzione di energie nuove ha riprodotto, in campo finanziario ed economico, quella distruzione di vita nuova in nome della difesa e incremento degli interessi e possessi individuali, che io pongo nel mio libro alla base dell’attuale “crisi del dono”, e delle pratiche e legislazioni abortiste.
Da tutto ciò si esce tutelando lo sviluppo della nuova vita (nuove idee, visioni, saperi e tecniche), rispetto alla sua riduzione materialistica in possessi e guadagni immediati.

Nelle sue pagine è tracciato un itinerario che esamina le immagini riguardanti la nascita, accolta o rifiutata, presenti nell’inconscio, nel mito, e nella tradizione ebraico cristiana. Si tratta di un’impostazione piuttosto inusuale, soprattutto per quei lettori interessati a comprendere con immediatezza e concretezza i fenomeni della società in cui viviamo. Questo studio cosa ci spiega dell’oggi? E cosa ci insegna?
L’inconscio collettivo, espresso (come ha mostrato Carl Gustav Jung e la sua scuola) nei miti e nei cicli leggendari delle varie culture, come anche nella storia delle religioni, mostra gli aspetti invarianti, archetipici, della psiche umana. Per questo, come osservava la frase di Pasolini che riporto in esergo, non c’è niente di più concreto e attuale del mito: parlando di mille anni fa, svela con sorprendente precisione l’animo dell’uomo di oggi.
D’altra parte, l’inconscio collettivo registra anche (e anche questo Jung l’ha visto) i mutamenti manifestatisi nello psichismo umano dopo l’avvenimento cristiano, e la modifica da esso consentita e richiesta nei rapporti personali, nel sentimento di amore per l’altro, e di offerta di sé.
Il rinnovamento antropologico portato dal cristianesimo ha al proprio centro una nascita ed un dono, quello di Dio fatto uomo, destinato a provocare il rinnovamento del mondo, e di ogni singolo uomo, nella sua vita personale. Da allora in poi ogni uomo, ed ogni società, può scegliere tra il rinnovamento e la trasformazione di sé (la rinascita che Gesù indica a Nicodemo), o la difesa dell’esistente. Questa seconda soluzione, l’osservazione clinica lo mostra bene, innesca in realtà un processo regressivo, e di distruzione di vita.

Parlare di rinnovamento e rinascita significa parlare anche di bambini. Lei cita in esergo un passaggio di Elie Wiesel: “Hai paura di diventare grande? Sì, paura di diventare grande in un mondo che a dispetto delle sue magniloquenti dichiarazioni, non ama i bambini; ne fa piuttosto i bersagli del suo dispetto, della sua mancanza di fiducia in se stesso, della sua vendetta”.
Effettivamente lo stesso Wiesel, accompagnando Barak Obama nella visita di Buchenwald (5 giugno 2009), ha affermato che nonostante gli orrori della guerra il mondo non ha ancora imparato a garantire la dignità della vita umana. Condivide queste parole di Wiesel?

Assolutamente. La riduzione dell’essere umano ad oggetto, e l’annichilimento della sua dignità, continua ad essere la grande tentazione cui l’uomo è sottoposto, e spesso soggiace.
Le categorie linguistiche e retoriche del “politicamente corretto” sono funzionali alla copertura e al mascheramento di questa realtà drammatica. L’uomo è pronto ad uccidere l’altro uomo, il bambino che nasce, le idee, la personalità, o il carattere di un’altra persona (come quotidianamente accade nella lotta politica), pur di non cambiare, per affermare quello che ritiene il proprio interesse.

Trattando il tema della relazione tra uomini e donne Lei afferma che il bambino che nasce è una figura decisiva per lo sviluppo pieno dell’amore nella coppia. In che senso?
L’amore tra i due richiede sempre l’apertura ad un “terzo” per dispiegarsi completamente. Dal punto di vista trascendente si tratta, naturalmente, di Dio, che istituisce l’amore stesso, con il suo amore creativo, a cui occorre restare aperti, e rivolti. Nella dinamica della coppia il terzo è però anche il bambino (i bambini), e può estendersi ai figli simbolici della coppia: le idee, le iniziative, le opere.

Da quanto Lei dice nella sua opera il processo di secolarizzazione ha avuto un ruolo negativo nella relazione d’amore tra l’uomo e la donna, e in particolare sul matrimonio. Una domanda provocatoria: in un mondo senza Dio non è davvero possibile l’amore tra gli individui?
Il fatto è che, per fortuna, non basta negarlo, per fare sparire Dio. Molti atei fanno in realtà riferimento ad un principio superiore, di bene, che interiormente è vissuto come la personalità religiosa vive Dio.
Certo quando la negazione diventa sistemica, come è accaduto nei totalitarismi comunista e nazista, l’amore tra le persone tende a diventare problematico, e ad essere sostituito dall’obbedienza al Partito. Ciò continua ancora oggi, per certi versi, nelle sottoculture politiche che fanno riferimento a quelle realtà.

Secondo quanto Lei riporta nel libro La crisi del dono, molte donne, che diedero vita al movimento femminista negli anni ’70, si stanno oggi accorgendo della necessità di una rinnovata relazione tra uomo e donna. Non solo: anche il movimento degli uomini, presente in diverse forme anche in Italia, si sarebbe messo alla ricerca di una nuova visione. Quali sono i motivi di queste tendenze? E quali i possibili esiti?
Sia il disincanto femminista, che documento attraverso una serie di testi e posizioni note e autorevoli, sia il movimento degli uomini, cui ho sempre dedicato molta attenzione, sono realtà ormai affermatesi fin dagli anni ‘90. Per cui più che di tendenze parlerei di trasformazioni in corso da tempo, anche se meno visibili anche per via del prevalente silenzio loro riservato dalle comunicazioni di massa. Che preferiscono il mostro (o la star) in prima pagina, piuttosto che l’informazione sulla sottile e profonda trasformazione delle coscienze, inquietante anche per gli stessi operatori della comunicazione di massa, in gran parte devoti proprio a quella società secolarizzata del possesso, di cui appunto stiamo parlando.

In un suo precedente libro Felicità è donarsi. Contro la cultura del narcisismo e per la scoperta dell’altro (Sperling & Kupfer, 2004) ha osservato che le principali vittime della società del possesso sono i giovani “costantemente impauriti dalla rappresentazione del mondo come penuria” sottolineata spesso dal sistema mediatico. Quali consigli darebbe a questi giovani, che non di rado esprimono le loro paure anche nei temi svolti nelle aule scolastiche?
“Non abbiate paura”, come non a caso hanno più volte ripetuto gli ultimi due Papi. La sete di possesso si nutre della cultura (assai diffusa anche in ambienti cattolici, perché d’“effetto”) che sottolinea il bisogno rispetto al dono, la penuria rispetto alle risorse, la paura rispetto alla fiducia, il malessere rispetto al piacere.
Gesù è grato e felice che il vaso con l’olio prezioso venga versato ai suoi piedi, è il dono che aumenta le nostre risorse, è spargere il vaso che ne assicura il continuo riempimento. Siate generosi: ogni piacere profondo comincia, e continua, nel dono.

Non mancano comunque i giovani che si impegnano con convinzione per difendere una visione della vita portatrice di rinnovamento, dignità e felicità. Basta pensare a tutti coloro che si danno da fare nell’ambito dei movimenti pro-life. A tutti questi giovani quale strada suggerisce per una migliore riuscita nei loro traguardi?
Mi sembrano già sulla strada, magari più di me! La difesa della vita è una strada, che sprigiona potenti forze di rinnovamento. Da nutrire sempre, con la devozione all’amore, ed alla bellezza.
Antonello Vanni

Claudio Risé, da “Il Mattino di Napoli” del lunedì, 13 luglio 2009, www.ilmattino.it

Come mai i delinquenti seriali, fino a quando vengono scoperti, sono ritenuti bravissimi ragazzi? C’è qualcosa di sbagliato nel nostro modo di giudicare gli altri? Ce lo si chiede anche in questi giorni, dopo che la polizia ha arrestato, con prove pesanti come il Dna, il presunto stupratore di molte giovani donne, braccate nei loro garage condominiali, nei quartieri della cintura attorno a Roma.
Anch’egli - a sentire conoscenti e vicini - un «bravo ragazzo», disponibile gentile, ammodo. Perfino impegnato socialmente, dirigente di sezione in un partito parlamentare dell’opposizione.
È vero che da molto giovane, tredici anni fa, aveva già tentato di stuprare una vicina, minacciandola con un coltello; e il giudice l’aveva assolto, perché in quel momento «incapace di intendere e di volere». Da allora però non era accaduto più nulla di strano.

Impiegato amministrativo, un vero uomo d’ordine, tanto che la fidanzata l’aveva lasciato perché non aveva mai voglia di far nulla di speciale, e finiva che si vedevano poco. Un appartamentino Ikea, impersonale, come quello del protagonista di Fight Club (film cult di qualche anno fa) che però lì butta in aria il suo profilo di «uomo d’ordine» per fondare un movimento di club maschili di boxe, e finisce col trovare se stesso. Mentre l’impiegato romano non ha fatto nulla di strano, e si è davvero perso.
Naturalmente, questi personaggi irreprensibili celano poi nei loro sportelli le loro passioni proibite: in questo caso filmini su stupri e violenze. Quello è il ritratto di Dorian Gray nascosto nella soffitta, che la polizia trova nella sue perquisizioni.
Il profilo pubblico è un altro: irreprensibile, ordinato, e quindi socialmente apprezzato. È però corretta questa valutazione positiva? O qualcosa non torna, visto che con ordine e irreprensibilità si presentano anche criminali tra i più pericolosi, come quelli seriali?
L’apparenza ordinata e nelle regole è una specie di parola d’ordine («sono bravo, da me non devi temere nulla»), che fa sì che chi la pronuncia venga accettato, mentre chi offre di sé un’immagine aggressiva o caotica sia guardato con sospetto. Ha senso. Però proprio la storia dei delinquenti seriali ricorda anche altro.
La perfetta irreprensibilità, l’ ordine senza sbavature, non è nella natura umana. La psicologia parla di «Ombra», o di pulsioni aggressive e distruttive, la Chiesa di peccato originale, le religioni e filosofie orientali di karma: ogni visione profonda della personalità umana constata che in ognuno di noi c’è l’ordine e il disordine, l’irreprensibilità e la devianza, e l’equilibrio consiste appunto nel riconoscere entrambi, e dosarli in modo costruttivo, personalmente e socialmente proficuo.
L’aggressività e l’eros (che Freud collegava strettamente), una volta riconosciuti e legittimati daranno allora slancio alle nostre passioni, che verranno poi organizzate e trasformate in opere e stile di vita dalla razionalità e moralità (il «logos» secondo Jung).
Quando invece l’aggressività e la pulsione sessuale vengono negate, o perché troppo forti, o per strutture psicologiche moralistico-ossessive, o per entrambe le cose, l’individuo si trasforma nel «bravo ragazzo» senza ombre. La società e i vicini sono contenti, ma dovrebbero preoccuparsi perché, se rimossa, l’ombra si popola di fantasmi pericolosi.
Il vicino che fa bisboccia non lascia dormire, ma appunto, almeno non gira per i garage a stuprare ragazze.
Meglio accettare la visibile «Ombra» dell’altro (e la nostra), che aiutarlo a renderla invisibile, e quindi incontrollabile. Moralismi e perbenismi generano mostri.

Claudio Risé, da “Il Mattino di Napoli” del lunedì, 6 luglio 2009, www.ilmattino.it

Federcalcio in campo contro Dio? Forse non è proprio così, ma gli assomiglia molto. La Fifa, la Federcalcio mondiale, nella persona del suo padre-padrone Joseph «Sepp» Blatter, ha infatti inviato un ammonimento alla nazionale brasiliana, cinque volte campione del mondo, chiedendole di smetterla di ringraziare Dio sul campo di calcio per le proprie vittorie. Come aveva appunto fatto dopo aver battuto gli Stati Uniti nella finale della Confederations Cup, ripresa dalle televisioni mondiali.
Secondo la Fifa l’intensa preghiera degli atleti brasiliani, disposti a cerchio al centro del campo, abbracciati gli uni agli altri, il capo chinato verso la terra, era esagerata. Molti però dissentono. «Se pregare Dio è esagerato - ha detto il difensore della Juventus Nicola Legrottaglie - mi domando allora quali siano i gesti condivisibili». Tanto più, osservano altri, che nei campi di calcio avvengono aggressioni e insulti di ogni genere, sulle quali la Fifa di rado interviene. Del resto a ragione: è pur sempre un gioco, con le sue inevitabili durezze.

Allora, però, perché vietare un momento di ringraziamento a Dio per la vittoria ottenuta, un gesto iscritto nella storia delle gare sportive in ogni tempo e in ogni cultura? Se non si censurano le bestemmie, come si può vietare la lode a Dio da parte dei vincitori? Che senso ha oscurare la fede degli atleti, visto che moltissimi di loro affermano pubblicamente di trarre proprio da lì la loro forza, come Kakà che se lo fa scrivere sulle magliette?
Non sono questioni banali, né per gli appassionati di calcio, né per l’intera società, visto le grandi passioni che il pallone suscita e moltiplica con la sua capacità di aggregare masse, atleti, speranze.
Forse, per dare più efficacia ai loro interventi contro le pratiche illegali che spesso crescono all’ombra di questo sport di massa, le autorità calcistiche potrebbero invece chiedersi anche quali sono i gesti virtuosi, positivi, che compaiono sui campi di calcio. Allora però, perché deplorare un gesto di devozione, a fine partita?
L’ha spiegato, a suo modo, il dirigente della Federcalcio danese, che ha sollecitato il divieto dalla Fifa. «Nel calcio - ha detto - non c’è posto per la religione. Mescolare le cose in quel modo è stato come dar vita a un evento religioso». Il calcio, però, è (anche) appunto un evento religioso. Non solo perché i campi dove lo si giocava erano considerati «spazi sacri» (su essi verranno poi iniziati i giochi Olimpici, dal nome della montagna ritenuta sede degli dei), né perché oggi Berlusconi dichiara il calcio «la sua religione laica». Ma perché (come descriveva il filosofo John Dewey, fondatore della psicopedagogia anglosassone), lo sport di squadra come la religione sono fondati sulla comunione, sul mettersi insieme, sull’unire profondamente capacità, intuizioni, sentimenti individuali. Religione, del resto, significa appunto lego insieme, unisco.
La spinta alla comunione e all’eccellenza per ottenere la vittoria è nel Dna del calcio, e la popolarità di cui oggi questo sport gode la rafforza ulteriormente.
Giustamente la Fifa non fece nulla contro gli egiziani che invocarono Allah, nella Confederations Cup, dopo la vittoria contro l’Italia. Ognuno ringrazia il suo Dio. Lo stesso rispetto, però, meritano i giocatori brasiliani ed i moltissimi calciatori e tifosi che vedono nella passione sportiva un momento di comunione, e la possibilità di dare il meglio di sé a lode del Signore, magari ricevendo in premio la vittoria.
Inutile deplorare: il calcio, come ogni grande passione, è anche comunione. A suo modo religiosa.

Claudio Risé, da “Il Mattino di Napoli” del lunedì, 6 luglio 2009, www.ilmattino.it

Federcalcio in campo contro Dio? Forse non è proprio così, ma gli assomiglia molto. La Fifa, la Federcalcio mondiale, nella persona del suo padre-padrone Joseph «Sepp» Blatter, ha infatti inviato un ammonimento alla nazionale brasiliana, cinque volte campione del mondo, chiedendole di smetterla di ringraziare Dio sul campo di calcio per le proprie vittorie. Come aveva appunto fatto dopo aver battuto gli Stati Uniti nella finale della Confederations Cup, ripresa dalle televisioni mondiali.
Secondo la Fifa l’intensa preghiera degli atleti brasiliani, disposti a cerchio al centro del campo, abbracciati gli uni agli altri, il capo chinato verso la terra, era esagerata. Molti però dissentono. «Se pregare Dio è esagerato - ha detto il difensore della Juventus Nicola Legrottaglie - mi domando allora quali siano i gesti condivisibili». Tanto più, osservano altri, che nei campi di calcio avvengono aggressioni e insulti di ogni genere, sulle quali la Fifa di rado interviene. Del resto a ragione: è pur sempre un gioco, con le sue inevitabili durezze.

Allora, però, perché vietare un momento di ringraziamento a Dio per la vittoria ottenuta, un gesto iscritto nella storia delle gare sportive in ogni tempo e in ogni cultura? Se non si censurano le bestemmie, come si può vietare la lode a Dio da parte dei vincitori? Che senso ha oscurare la fede degli atleti, visto che moltissimi di loro affermano pubblicamente di trarre proprio da lì la loro forza, come Kakà che se lo fa scrivere sulle magliette?
Non sono questioni banali, né per gli appassionati di calcio, né per l’intera società, visto le grandi passioni che il pallone suscita e moltiplica con la sua capacità di aggregare masse, atleti, speranze.
Forse, per dare più efficacia ai loro interventi contro le pratiche illegali che spesso crescono all’ombra di questo sport di massa, le autorità calcistiche potrebbero invece chiedersi anche quali sono i gesti virtuosi, positivi, che compaiono sui campi di calcio. Allora però, perché deplorare un gesto di devozione, a fine partita?
L’ha spiegato, a suo modo, il dirigente della Federcalcio danese, che ha sollecitato il divieto dalla Fifa. «Nel calcio - ha detto - non c’è posto per la religione. Mescolare le cose in quel modo è stato come dar vita a un evento religioso». Il calcio, però, è (anche) appunto un evento religioso. Non solo perché i campi dove lo si giocava erano considerati «spazi sacri» (su essi verranno poi iniziati i giochi Olimpici, dal nome della montagna ritenuta sede degli dei), né perché oggi Berlusconi dichiara il calcio «la sua religione laica». Ma perché (come descriveva il filosofo John Dewey, fondatore della psicopedagogia anglosassone), lo sport di squadra come la religione sono fondati sulla comunione, sul mettersi insieme, sull’unire profondamente capacità, intuizioni, sentimenti individuali. Religione, del resto, significa appunto lego insieme, unisco.
La spinta alla comunione e all’eccellenza per ottenere la vittoria è nel Dna del calcio, e la popolarità di cui oggi questo sport gode la rafforza ulteriormente.
Giustamente la Fifa non fece nulla contro gli egiziani che invocarono Allah, nella Confederations Cup, dopo la vittoria contro l’Italia. Ognuno ringrazia il suo Dio. Lo stesso rispetto, però, meritano i giocatori brasiliani ed i moltissimi calciatori e tifosi che vedono nella passione sportiva un momento di comunione, e la possibilità di dare il meglio di sé a lode del Signore, magari ricevendo in premio la vittoria.
Inutile deplorare: il calcio, come ogni grande passione, è anche comunione. A suo modo religiosa.

Claudio Risé, da “Il Mattino di Napoli” del lunedì, 29 giugno 2009, www.ilmattino.it

Tempo di voti, di promozioni e bocciature. Per gli studenti, giudicati dai professori, ed anche per gli insegnanti, promossi o bocciati dai ragazzi. Con il giudizio poi esposto in bacheca, prof e studenti accanto, nell’atrio della scuola. È accaduto in qualche liceo italiano, tra i quali il famoso Berchet di Milano, dove studiò Luchino Visconti e insegnò don Luigi Giussani. Un’idea certo innovativa. Ma serve davvero alla scuola italiana e a chi la frequenta? Conviene rifletterci. Le posizioni più popolari diventano infatti, rapidamente, norma.
Vediamo allora con calma. Innanzitutto la bontà delle idee si giudica dalla loro aderenza alla realtà. A scuola, in particolare, la personalità adolescente dovrebbe essere addestrata a riconoscere le cose come davvero sono e stanno. La scuola può davvero aiutare i ragazzi a distinguere tra realismo (descrizione di ciò che c’è) e velleitarismo (scambiare per reale ciò che ci piacerebbe fosse).

Da questo punto di vista la promozione e bocciatura dei professori, con relativa pubblicità, sembra invece un’operazione del tutto velleitaria. I regolamenti vigenti nella scuola italiana prevedono forse che gli studenti votino, ed eventualmente boccino, i professori? Nient’affatto. Sono i professori che, dopo aver insegnato, votano, promuovono ed eventualmente bocciano gli studenti. Allora, però, per quale ragione far credere ai ragazzi che il gioco di promuovere o bocciare i professori sia seppur lontanamente paragonabile alle votazioni (reali) che loro ricevono dagli insegnanti, tanto da pubblicarlo addirittura nelle bacheche pubbliche, che sono un po’ la Gazzetta ufficiale della scuola? Perché non aiutarli a capire anche la natura compensatoria della loro improvvisata boria professorale, con la quale distribuiscono voti e debiti a chi nella realtà li vota e li rimanda a settembre, addestrandoli invece a riconoscere e governare in se stessi l’antico vizio umano, quello di ritorcere contro gli altri le angherie che si ritiene di aver ricevuto?
Si tratta, per giunta, di un vizio altamente diseducativo, perché a somma zero: finché trasferisci sugli altri ciò che non vorresti ricevere non cresci. Quindi, sostanzialmente, non impari. O almeno non impari a vivere, ciò che invece dovrebbe accadere, appunto, a scuola.
La votazione dei professori, virtuale ma pubblicizzata perché politicamente corretta, è quindi altamente diseducativa, perché traveste la realtà, e confonde idee e identità dei giovani, che invece vanno a scuola proprio per imparare a chiarirsele.
Il problema della valutazione degli insegnanti esiste, ed è giusto che gli studenti vi concorrano, come già accade (molto opportunamente) all’università ed in altri Paesi, riempiendo moduli che chiedono il loro parere sulla chiarezza espositiva, contatto umano, metodo d’insegnamento, ed altro. Questi moduli sono però destinati ai dirigenti scolastici, non alla pubblica, e piuttosto intimidatoria, affissione.
Certo, questo conferma una differenza: la valutazione dei professori viene proclamata in bacheca, è ufficiale, quella degli studenti no. Infatti, la scuola serve anche ai ragazzi per allenarsi a vivere un’esperienza che ripeteranno poi per tutta la vita: i rapporti non paritari, gerarchici, o comunque caratterizzati dal fatto che l’altro sa cose che tu non sai ed ha poteri che tu non hai. Sarà così con il capo in azienda, con il pubblico ufficiale, con il medico.
Fantasticare un universo di pari, quando siamo tutti diversi, non ci addestra alla realtà, non ci rende flessibili (parola chiave soprattutto nella postmodernità), soltanto presuntuosi.

Claudio Risé, da “Il Mattino di Napoli” del lunedì, 22 giugno 2009, www.ilmattino.it

Cambiano i comportamenti sessuali, e con loro le ossessioni che accompagnano Eros (da sempre dio visionario e facile alle allucinazioni). Fino a ieri la più frequente era l’ossessione dell’impotenza. Oggi, dopo la scoperta del Viagra, l’idea fissa è diventata quella della prestazione. Il fenomeno, dicono le statistiche, non conosce distinzioni d’età: i ragazzi consumano i farmaci contro la disfunzione erettile con lo stesso entusiasmo degli anziani. Qui, però, cominciano i problemi.
Tutta la questione della sessualità è anche oggi, nel terzo millennio, più spinosa di quanto sembri, malgrado le semplificazioni pubblicitarie da una parte e l’aria sessualmente scanzonata della comunicazione di massa dall’altra. Contrariamente all’apparente leggerezza erotica, infatti, sono ancora moltissimi coloro che guardano alle pillole blu e gialle con diffidenza, e che preferiscono aspettarsi l’arrivo della soddisfazione sessuale da un improvviso sblocco psicologico, piuttosto che servirsi anche, in assenza di patologie cardiache o renali, di questi preparati di provata efficacia.

Questa diffidenza non deve stupire. Chi soffre di non far bene l’amore porta spesso dentro di sé un compagno segreto che (per ragioni per ognuno diverse) non vuole accettare di godere sessualmente.
L’amante problematico è dunque, per solito, ambiguo: non è contento, ma insieme teme di abbattere quella potente difesa contro l’altro rappresentata dalla sua difficile sessualità. D’altra parte anche molti terapeuti sono restii a condividere con un preparato chimico il merito di una guarigione (in questo campo, e anche in altri, come i disturbi del sonno o le depressioni).
Alle loro diffidenze si può rispondere che anche se è vero che la disfunzione erettile è, nella grande maggioranza dei casi, di origine soprattutto psicologica, non c’è dubbio che la sicurezza fornita da un rapporto riuscito aiuti grandemente a superarla. A questo scopo, appunto, le pillole del sesso sono assai utili, anche se il quadro di ansia e di scarsa fiducia nel proprio corpo che accompagna una sessualità problematica merita, per solito, anche uno sguardo e un trattamento psicologico.
Tra ambivalenze, insufficiente informazione, e il persistere di quel timore sacro che da sempre, in ogni tempo ed in ogni cultura, accompagna le manifestazioni della sessualità umana, le persone comunque si arrangiano, e consumano le pillole del sesso in modo perfino selvaggio (per esempio rifornendosi anche via internet, da venditori del tutto incontrollati).
Nella sola Milano, nel 2008, si sono spesi per questi farmaci 10 milioni di euro. In cima alla classifica sono gli anziani, sopra i sessanta, mentre aumenta velocemente anche l’utilizzo tra i giovani, e giovanissimi.
Per spiegare il consumo tra gli anziani (anche quelli che si trovano nelle case e ricoveri che li accolgono), qualcuno parla di «fantasie di immortalità». Mi sembra sia piuttosto il contrario: l’anziano sente vicina la morte e tiene a godere prima di incontrarla. Inoltre spesso i rapporti, gli interessi e le soddisfazioni si sono rarefatti, ed egli conta su quel piacere elementare assicurato da una sessualità ben funzionante.
Nel giovane, invece, il supporto chimico rischia di togliere di mezzo quel mondo di tremori, insicurezze e scoperte che è tuttavia indispensabile a un’autentica formazione sentimentale e umana. Il giovane a prestazione garantita perde in profondità e sentimento. Rischia di annoiarsi o diventare ossessivo.
Agli adolescenti la pillola contro le loro ansie potrebbe così rubare un patrimonio scomodo, ma prezioso.

Claudio Risé, da “Il Mattino di Napoli” del lunedì, 15 giugno 2009, www.ilmattino.it

È ora di pensare alle vacanze. Non per farle subito, ma almeno per rallegrarsi immaginandole, e soprattutto per cercare di renderle piacevoli, e adatte a noi. Infatti, come viene poi raccontato allo psicologo, le vacanze si rivelano spesso più difficili e faticose del lavoro. Attenzione, dunque, a farle riuscire bene, per ricavarne energia e benessere, ed evitare di ritornare confusi, e stanchi. Il primo «compito delle vacanze» diventa allora quello di capire di cosa abbiamo bisogno. La cosa non è poi semplicissima.
La vacanza, infatti, è anche un momento molto personale. Ognuno ha propri bisogni, fantasie, esigenze da soddisfare del tutto individuali. Per alcuni, ad esempio, la vacanza è un fatto soprattutto sociale, per molti altri, di natura più introversa, è il momento in cui lasciare finalmente libero il solitario «esploratore del mondo» che portano dentro di sé. Comunque, nella società dei consumi, la vacanza è anche un prodotto, un «pacchetto vacanze», dove i bisogni o gusti individuali sono scavalcati dall’immaginario di massa, con cui devi identificarti, e dentro cui devi stare, se non vuoi rischiare la solitudine e l’isolamento.

A questa prima contraddizione, tra il bisogno personale e la vacanza preconfezionata, se ne sovrappone un’altra, più affettiva: le aspettative familiari, o del gruppo. Tranne il sempre più numeroso «popolo dei single», che gode qui di maggiore libertà (ma ha altri problemi), la maggior parte delle persone deve confrontarsi, sulle vacanze, con la propria famiglia.
I coniugi, i figli, i genitori, gli amici: ognuno ha aspettative e richieste sulle «tue» vacanze con loro. D’altra parte anche tu hai una tua immagine ideale, un tuo archetipo di vacanza, che non è il caso di tradire troppo, per non trovarsi poi preda della «sindrome della vacanza sbagliata».
Proprio il terreno, in sé piacevole, della vacanza rischia così di generare uno spiacevole conflitto con gli altri, intesi come «sistema» di comunicazione e consumo, o come i propri cari. Tuttavia non bisogna disperarsi (ma neppure far finta di niente, come se il problema non ci fosse). Infatti proprio il conflitto tra la «tua» personale vacanza, e quella proposta dagli altri, dalla pubblicità alle persone che ami, offre infatti l’opportunità di un confronto delicato, ma fondamentale per l’equilibrio e benessere psicologico: ciò che si deve agli altri, e ciò che si deve a se stessi; e fino dove ci si può spingere nella (sempre necessaria) mediazione tra le due esigenze.
Dalla corretta conduzione di questo confronto (che banalmente sembra quello tra egoismo e altruismo), dipende la maggiore o minore felicità nostra, e di chi ci sta intorno.
La questione delle vacanze è forse quella dove questo conflitto si presenta in modo più evidente. Da una parte, infatti, proprio il bisogno che tutti hanno di svago e riposo mostra bene come questo periodo sia un nutrimento essenziale per la famiglia, per la coppia, per la comunità amicale. Però è anche vero che la persona che ha dedicato per tutto l’anno le sue energie all’attenzione agli altri, abbia a volte un bisogno incomprimibile (e spesso ancora inconscio), di incontro con se stesso e col mondo, a cui sarebbe meglio dare ascolto. I pellegrini che ancora oggi (anzi oggi più di prima) affollano le strade del «cammino di San Giacomo» di Compostella, rispondono in gran parte proprio a questa esigenza. Quella di darsi il tempo, e un luogo, per cercare se stessi.
Noi, e gli altri. Vacanza è nutrire entrambi. Assieme, o in tempi diversi. Dalla riuscita di quest’equazione dipende il successo della vacanza.

Claudio Risé, da “Il Mattino di Napoli” del lunedì, 8 giugno 2009, www.ilmattino.it

Questa sarà una settimana di passione per molte famiglie italiane. Per le elezioni? No, quelle appassioneranno alcuni, ma non tutti (e forse è un errore). Tutti, o quasi, saranno però coinvolti dall’ormai prossima fine delle scuole. Un evento che richiede a famiglie e ragazzi un bilancio, e un programma. Il bilancio di ciò che a scuola è avvenuto, di cosa i ragazzi hanno imparato. Il programma dei prossimi, lunghi mesi di vacanza, da rendere meno dannosi e più fecondi possibile.
Nessuna delle due operazioni è semplice. Entrambe, infatti, devono vedersela con la condizione giovanile: oggi, come sempre, un intrico di contraddizioni. Il giovane ha un bisogno vitale di essere formato, ed un altrettanto vitale bisogno di ribellarsi al tentativo di formarlo (e formarsi). L’adolescenza è contemporaneamente il luogo della massima passività, plasticità, e della massima anarchia. Guai se non fosse così. Se vince la passività, e il giovane diventa succube degli educatori, la sua intelligenza, originalità, e vitalità stessa tendono a spegnersi. Si hanno così quei ragazzi magari anche diligenti, ma sempre meno originali, e tendenzialmente depressi, che rischiano poi di sviluppare negli anni successivi, intorno al difficile passaggio dei vent’anni, problemi psicologici, e a volte cognitivi assai delicati.

Se però vince la ribellione e la tendenza a rifiutare ogni regola, il rischio è altrettanto grave. Il giovane non impara nulla, neppure su di sé, non sviluppa nessuna competenza e concentrazione. Si abitua così a bilanciare la scarsa stima di sé con un ribellismo generico, attraverso il quale rovescia sugli altri e sul mondo problemi e mancate assunzioni di responsabilità che, invece, sono innanzitutto le sue.
La difficile esperienza della scuola dovrebbe abituarlo a respirare coi suoi polmoni, ad interrogarsi sulle proprie idee e capacità, fornendogli dei metodi di auto conoscenza e sviluppo, e nutrendolo con le grandi immagini del cammino umano: l’arte, il pensiero, la scienza.
Questo lavoro, difficile da sempre, oggi deve confrontarsi con nuove criticità. Da una parte i ragazzi, bombardati da immagini di vita “facile” e di scarso impegno, sviluppano forti difficoltà di concentrazione e progettazione di un realistico avvenire. Dall’altra gli insegnanti, formati all’interno di una cultura “debole”, edonistica ed ideologica insieme, faticano a ritrovare quelli strumenti emotivi e cognitivi (passioni, narrazioni “esemplari”) che motivano i ragazzi ad una vera esperienza educativa.
Il risultato è, come si scoprirà fra pochi giorni, che molti ragazzi hanno imparato poco, e dovranno ristudiare le materie, a volte ripetere l’anno. La maggiore chiarezza adottata dal Ministro Gelmini toglie di mezzo inutili illusioni (che non fanno che rinviare il problema), ma pone con evidenza la sfida della verità: non hai studiato; perché? Dalla verità almeno si può ripartire per un progetto diverso, mentre nell’ambiguità non si fa che sprofondare; ma non è semplice.
E le vacanze? Come evitare che diventino solo tempo perso, o addirittura regressione, abitudini distruttive, confusione mentale? Innanzitutto tenendo lontano quello che è già stato il maggior ostacolo durante la scuola: la pseudo cultura dello “sballo”, dell’aggirare la realtà e le sue prove (ma anche le informazioni e insegnamenti che ci fornisce), alterando la mente con sostanze, spinelli ed alcol in primis, e le altre droghe subito dopo. Esperienze di viaggio, di lavoro, di sport, anche il riposo, tutto sarà utile, se riusciamo a convincerli ad amare davvero se stessi. Anche perché noi li amiamo.

Claudio Risé, da “Il Mattino di Napoli” del lunedì, 1 giugno 2009, www.ilmattino.it

Sta per essere varata la nuova legge sul cognome dei figli. Il cognome del padre, a quanto pare, verrà affiancato, o preceduto, da quello della madre. Le dispute su quale debba venir prima sono ridicole, ma il problema c’è. L’identità sociale dei figli, definita dal cognome, non può rimandare soltanto al padre in una società, la nostra, nella quale la madre ha un ruolo sociale spesso autonomo e si occupa dei figli generalmente più del padre durante l’infanzia, ma spesso anche dopo.
Lo sbiadimento della figura paterna sta generando enormi problemi nelle società occidentali. La principale è la maggiore fragilità dei figli nell’affrontare le sconfitte e dolori della vita, a cui la crescente «maternalizzazione» dell’educazione non prepara in modo adeguato.

Negli Stati Uniti, dove gli uffici del censimento curano anche questi aspetti statistici «politicamente scorretti», il drappello di testa dei comportamenti più gravemente devianti (suicidi, tossicomanie, comportamenti antisociali, psicopatologie gravi), è sempre guidato da persone cresciute in famiglie in cui il padre era assente; o perché se n’era andato, o perché ne era stato espulso. L’assenza paterna non determina di per sé una devianza o grave patologia, ma di sicuro ne aumenta il rischio.
È anche in questo sfondo problematico che si colloca la questione del doppio cognome dei figli, non riconducibile dunque solo all’aspetto positivo dell’affermazione della donna nella società occidentale contemporanea. Questa legge non può allora limitarsi ad affermare la rivincita della donna-madre dalla precedente ingiusta esclusione (le vendette realizzate per legge hanno il fiato corto), quanto fare davvero l’interesse dei figli che quel cognome porteranno. Non serve un regolamento di conti e di potere tra le donne e gli uomini di oggi, magari in nome di quelle di ieri, bensì tutelare l’equilibrio e lo sviluppo della società di domani.
Certo, la Comunità europea chiede l’equiparazione tra uomini e donne e l’abolizione delle pratiche discriminatorie, ma quella del cognome non è solo una questione giuridica. Nell’aspetto apparentemente formale (ma fortemente simbolico, e dunque profondo) del cognome, è in gioco l’equilibrio e la spinta vitale delle future generazioni, che poggiano sulla positività del loro rapporto sia con la linea materna, femminile, che con quella paterna, maschile. Allo sguardo giuridico va affiancata una visione che affronti il significato del cognome nella storia personale.
Dal punto di vista psicologico ogni individuo sviluppa, nei confronti del cognome, riferimenti diversi. Alla nascita, in una situazione di presenza di entrambi i genitori, può essere giusto che «per legge» al figlio si dia i cognomi di entrambi i genitori. Spesso però, durante lo sviluppo del figlio e della storia familiare, emergono fattori che modificano la posizione di partenza. È nota la vicenda di Leonardo Mondadori (ma non fu il solo) che scelse di chiamarsi col cognome della madre, coincidente con i suoi interessi culturali e professionali, piuttosto che con quello del padre, peraltro degnissima persona.
In altri casi il nucleo dell’identità personale è invece modellato sul nome del padre, e della famiglia paterna. In altri ancora (ma sicuramente non in tutti), entrambi i cognomi hanno invece uguale rilevanza nel definire ed aiutare lo sviluppo dell’identità personale.
In una società davvero democratica e libera, il meglio sarebbe che ogni persona, alla sua maggiore età, o successivamente, potesse scegliere qual è il suo nome: della madre, del padre, o di entrambi.

Claudio Risé, da “Il Mattino di Napoli” del lunedì, 25 maggio 2009, www.ilmattino.it

Non usciremo dai guai in cui ci ha cacciato la passione per la competizione sfrenata se non ritrovando il gusto dell’amicizia, del fare insieme, dei punti che uniscono rispetto a quelli che dividono. Lo ha ricordato il presidente americano Obama ai giovani cattolici dell’Università di Notre Dame, impegnandosi quindi ad aiutare le donne a non abortire. Allo stesso modo, però, la pensano milioni di giovani che si incontrano nelle «communities» della rete per fare amicizia, scambiarsi pareri, e magari anche cambiare idea.
Il vecchio stile intollerante si sta sfaldando: anche chiunque abbia un blog di dibattito se ne accorge. Certo, ci sono sempre i reduci degli anni 70 che mandano messaggi tipo «morirete tutti» accompagnati da insulti irripetibili (magari in nome del pacifismo, o della «non violenza» che giurano viene loro ispirata dall’amato spinello quotidiano), ma sono in netta diminuzione, e palesemente vecchi. La maggior parte chiede, comunica e cerca, speranze. Preferisce verificare se puoi essergli amico, piuttosto che sparare al nemico. Riconosce in se stesso il bisogno di affetto, e maneggia il conflitto per sbarazzarsene, con evidente fastidio.

È da quasi mezzo secolo, dal tempo dei «figli dei fiori», degli hippy che dicevano che «tutto è amore», che non si vedeva niente del genere.
Nello studio dello psicoanalista, appare un fenomeno parallelo. Il delirio di onnipotenza che aveva ispirato fenomeni solo apparentemente opposti, come il terrorismo politico e la pirateria finanziaria, entrambi fondati sulla legge del più forte e sul disprezzo dell’altro, è entrato finalmente in una crisi profonda. L’individuo «imperiale», protagonista degli anni dell’intolleranza politica e insieme della più plateale ostentazione della ricchezza, o dell’immagine di potenza, ha perso vigore, credibilità, e forza. I suoi figli hanno progetti più a misura d’uomo, e delle risorse oggi effettivamente a disposizione. Hanno imparato che non si può fare quasi nulla da soli, e ancor meno alle spalle degli altri. Sentono il bisogno di ricostruire una rete affettiva, e si servono di quella di Internet per ampliarla e tenerla in vita.
Dal punto di vista clinico, è come se una coscienza collettiva tendenzialmente paranoica stesse lasciando finalmente spazio all’ascolto dell’altro, a una visione relazionale. D’altra parte, quest’anno i bambini nati nell’anno in cui veniva abbattuto il muro di Berlino compiono vent’anni. È finita l’epoca della chiusura e della contrapposizione, ma anche quella della conquista senza regole e principi che si cercò di affermare subito dopo. Occorre ascolto e rispetto.
I ventenni nati con le rovine del muro di Berlino cercano innanzitutto amici, mentre i loro padri in questi vent’anni avevano cercato soprattutto clienti. Le due cose, naturalmente, non sono in opposizione. I clienti serviranno anche alle nuove generazioni, consapevoli però che, per trovarli, bisogna intanto avere buoni amici.
Le coppie di amici fondatori di Google (Page e Brin), di Facebook (Zuckerberg e Moskovitz), e le compagnie amicali di tante altre avventure economiche di oggi sono lì a provarlo. È dal calore e dall’allegria dell’amicizia che nascono le idee, le iniziative, i clienti, e alla fine anche il denaro. Un circuito che ha rovesciato quello prediletto dalla generazione precedente (a cui dobbiamo la più smodata crisi finanziaria dopo il ‘29), che metteva al primo posto l’Io individuale, la sua competizione con il resto del mondo, la vittoria, e il guadagno, sempre strettamente personale, come risultante finale.
Ora invece prima di tutto l’amicizia. Il resto verrà.

Claudio Risé, da “Il Mattino di Napoli” del lunedì, 18 maggio 2009, www.ilmattino.it

Si accusa il nostro tempo di essere pericolosamente inclinato verso lo spettacolo: politica, sport, perfino la cultura e la scienza tenderebbero alla spettacolarità, agli effetti speciali piuttosto che ai contenuti. Questo fenomeno, si dice, avrebbe effetti pericolosi sulle qualità personali di individui e comunità, spingendoli a banalizzarsi, a diventare leggeri e inconsistenti. La «società liquida» sarebbe anche una società piuttosto stupida. Quanto c’è di vero in queste critiche? Sarebbe ridicolo contestare la spettacolarità del nostro tempo.
Ma è davvero una novità? Durante tutta la storia dell’impero romano, o anche del Medioevo, periodi storici per nulla banali, che segnarono interi secoli, l’elemento spettacolare non mancò mai. I grandi leader erano quelli che sapevano organizzare gli spettacoli più appassionanti, magari in silenzio, come le Crociate immaginate nei chiostri da Bernardo di Chiaravalle. Le vicende private appassionarono sempre, da quelle belliche di Cesare, a quelle sentimentali di Antonio e Cleopatra, a quelle sante di Francesco d’Assisi.

La storia è sempre stata fatta dai creatori di storie, personaggi che avevano forti passioni, e che su quelle costruivano la propria vita. Attorno a quelle vicende, esemplari o anche disgraziate, come quella di Riccardo «cuor di leone» (il cui riscatto costò un sacco di soldi all’Inghilterra), si raccoglieva il consenso degli individui e dei popoli, mossi proprio dalle passioni dei loro capi più fantasiosi. Senza narrazioni, personali o collettive, non si muove niente, non nascono società, scoperte, ricchezze, arti.
È vero che nel ’800 e ’900 le storie e le passioni degli uomini sembrarono lasciare il passo a battaglie ideologiche, dove i programmi delle idee ebbero più importanza della vicenda umana di chi li proponeva. Lenin e Hitler, all’inizio, erano noti (e solo in parte) soltanto a piccoli gruppi, eppure comunismo e nazismo incendiarono il mondo. Questo però non fa altro che confermare il carattere molto più sano delle storie e delle passioni umane, rispetto a quelle di carattere ideologico, che finirono coi grandi totalitarismi del secolo scorso, e milioni di morti.
Le grandi storie personali, però, non sono mai convenzionali, politicamente corrette. Il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, ha sofferto della mancata relazione con un padre tutt’altro che esemplare. San Carlo fu fatto arcivescovo di Milano che era ancora un ragazzo, e, essendo un principe Borromeo, entrò in città con gran pompa di carrozze e servitori. Poi si rivelò come grandissimo santo e ispirò l’austero Congresso di Trento, dove il cattolicesimo rinacque, tra la sorpresa generale.
L’idea del leader irreprensibile e senza peccato è relativamente recente: prende forma infatti nel ’800, un secolo noioso ed ipocrita, alla fine del quale la psicoanalisi nasce, a Vienna e poi a Zurigo, proprio per curare le nevrosi procurate dal perbenismo dell’epoca, che annega subito dopo nelle follie sanguinarie dei totalitarismi, anch’essi intrisi del moralismo ottocentesco.
La bizzarria e il disordine privato così frequenti nei leader storici non ha d’altronde niente di strano. Sofferenze, eccessi e imprudenze (quelle di Obama come quelle di Mc Cain) sono ingredienti costanti della passione, la materia prima delle storie, delle narrazioni personali che interessano e muovono i popoli, da sempre, da molto prima delle televisioni, i reality e il sistema mediatico.
I leader dunque mostrino pure le loro passioni. Sta poi a genitori e insegnanti far capire la differenza tra storie, e storielle.

Claudio Risé, da “Il Mattino di Napoli” del lunedì, 11 maggio 2009, www.ilmattino.it

Nei discorsi pubblici su «cosa ci vorrebbe» si vola alto, si parla di bisogno di civiltà, umanità, accoglienza. Tutto vero naturalmente, ma a molti sembra spesso vago. Le civiltà sono molte e diverse; le idee sull’«umano» anche; l’accoglienza forse dovrebbe essere reciproca, l’autoctono deve accogliere lo straniero, ma anche questo ultimo deve accogliere chi è già lì, le sue idee, norme e costumi.
C’è però un bisogno più semplice, elementare, condiviso da tutti: quello di gentilezza.
Basta ascoltare le vecchie canzoni, e confrontarle con gran parte dei rap di oggi, per capire che è in atto un indurimento dell’esistenza. La vita appare intrisa di un’aggressività esagerata, a volte caricaturale. Che i giovani per primi denunciano, anche se spesso proprio loro vi indulgono (come il gruppo tedesco di Kannibal Instinct). Anche i media, amplificando ogni cosa, danno però molto più spazio ai gesti di aggressività che a quelli di gentilezza.
Fin da prima della crisi, ormai da molti anni nessuno dice più a una donna: «Ti amo», oppure: «Buon compleanno!», comprandosi una pagina di quotidiano. Mentre giornali e televisioni divulgano e amplificano accuse coniugali, privatissimi retroscena sentimentali, notizie e commenti rancorosi, dove ogni gentilezza è assente.
La mancanza di gentilezza continua poi nei gesti quotidiani di tutti, nel fare la spesa, nel modo di rivolgersi al cliente, al venditore, al fornitore. Migliaia di durezze, di sguardi taglienti, di commenti secchi, hanno nel corso degli anni preso il posto dei sorrisi, delle battute cordiali, delle occhiate sorridenti. Gli italiani, grandi e apprezzati protagonisti del sorriso e della battuta, non sorridono quasi più, e negli incontri di ogni giorno si tengono molto sulle loro. I soldi non c’entrano: tutto ciò è cominciato in anni di benessere senza precedenti, e da allora non si è più arrestato.
Tanta durezza non è affatto naturale. Anche se la vita non è un’infinita festa da ballo, e anzi proprio per questo, ogni società si è sempre impegnata ad accompagnare i suoi riti e momenti sociali con forme e modi di scambio più piacevoli, e meno distruttivi possibile. L’essere umano non regge una vita quotidiana incessantemente competitiva, sgradevole, dove l’altro che incontri non solo non ti ama (non è suo compito), ma ti attacca. Non ce la fa.
Dietro la moltiplicazione di disagi come gli attacchi d’ansia, quelli di panico, le diverse forme di fobia sociale (i ragazzi che non escono dalla propria camera, gli adulti asserragliati nel proprio tinello, o nel locale-cantina degli attrezzi), c’è anche questo: la fatica di vivere una socialità ostile, non amichevole, diffidente e chiusa.
La modernità ricca e sviluppata deve porsi il problema di come recuperare la gentilezza quotidiana delle società più povere e tecnicamente arretrate che l’hanno preceduta. Si tratta di un’operazione ormai indispensabile. Non per superiori ragioni morali, o dettami politici, ma perché la socialità senza gentilezza non funziona, si inceppa, crea problemi (e costi, anche sociali) infiniti. Il tranviere perennemente arrabbiato (come quelli di molte grandi città), che riparte senza badare alla vecchietta che sta ancora scendendo, diffonde aggressività e malessere, anche se è sindacalmente tutelato. Altrettanto, naturalmente, vale per l’industriale o il politico arrogante che non si fa carico dei bisogni dei dipendenti, e dei cittadini. Basta poco.
Un po’ di gentilezza: un sorriso, uno sguardo di simpatia, una mano tesa. Coloro che faranno spontaneamente questi gesti, saranno i protagonisti di domani.

 

La nascita ci chiede di cambiare

Susanna Dolci intervista Claudio Risé su “La crisi del dono. La nascita e il no alla vita“, per “il Fondo Magazine” di Miro Renzaglia, www.mirorenzaglia.org

È, Claudio Risé, uno degli psicanalisti italiani di ampia fama nazionale ed internazionale. Docente di Scienze Sociali alle Università di Trieste-Gorizia, Insubria (Varese) e Bicocca (Milano), da oltre trent’anni studia l’uomo e la donna ovvero il maschile ed il femminile, nelle loro molteplici sfaccettature. La vita, la famiglia e la genitorialità con particolare attenzione alla figura paterna intesa come assenza o come “mestiere” difficile.
I suoi numerosi libri sono stati tradotti in molti paesi europei ed in Brasile. Un spazio internet a disposizione del suo pubblico: www.claudio-rise.it.
Esce in questi giorni per le Edizioni San Paolo La crisi del dono. La nascita e il no alla vita. È questo suo nuovo andare in riflessione, una discesa verso le «radici del pensiero che rifiuta la nascita». Un’attenzione di saggia misura sull’aborto inteso come quotidianità di azione da cronaca e da statistica, di battaglia politica, di leggi, di polemica, di giudizi positivi e negativi, di “crimine” addirittura, di orrori legalizzati od illegali e di tanto altro da aggiungere. O da sottrarre… Dipende, sempre, dai punti di vista. Ma il libro non è solo questo… ed è già molto.

La crisi del dono” è una sorta di Summa che non tralascia nulla perché niente vuole lasciare nel silenzio. Tutti gli attori legati alla venuta al mondo vengono chiamati in causa. Siano essi uomini, donne, bambini stessi e dunque padri, madri e figli, miti e mitologie, cambiamento e rinnovamenti, sacro e profano. Spetta, alfine ed in piena libertà, ad ogni singolo lettore decidere a quale cammino interpretativo accingersi. Che oscilla, in presenza, dagli albori temporali come il classico pendolo foucaultiano o la inimitabile quanto terribile spada di Damocle. Tutto sempre e come eterna scelta tra la vita e la morte. Un sentito ringraziamento a Claudio Risé per la sua piena e gentile disponibilità alla realizzazione dell’intervista che segue, nonostante i suoi molteplici impegni.

È stato appena editato dalle Edizioni San Paolo. È il suo “La crisi del dono. La nascita ed il no alla vita”. Lei ci parla di: Mito, Nascita, Figlicidio, Figli, Uomo, Donna, Aborto… E tanto ancora… Se dovesse definire il centro di questo libro, cosa direbbe?
È un libro sulla nascita, come evento fisico, psichico e simbolico, sul suo significato e sulle resistenze che suscita. Molto spesso non la vogliamo (non solo quella fisica), perché ci chiede sempre di cambiare, trasformarci, ri/nascere.

Cos’è veramente l’aborto?
La scelta di evitare una nuova nascita sopprimendo il nascituro. Al di là delle considerazioni morali (non spetta a me giudicare), è una scelta fortemente conservatrice, contro il cambiamento. Dal punto di vista psicologico esprime un’avversione al futuro, alla trasformazione che regge il mondo, cui oppone il potere dell’Io individuale, quello che decide, appunto, l’aborto.

Tra abortire e dare in adozione c’è da sempre in mezzo una montagna invalicabile? Perché?
È invece valicabile; molti la attraversano. Occorre rinunciare al possesso del figlio. Che del resto nessuno ha, perché il figlio appartiene a se stesso. E, per la persona religiosa, a Dio.

Com’è il mondo in cui viviamo? Cito alcuni termini ricorrenti nei suoi studi e libri: neopaganesimo, narcisismo, droghe, guerra, terrorismo, scontro di etnie ma anche felicità come dono di sé, l’altro. Incubi quotidiani, difetti e pregi di questa nostra esile esistenza. Come affrontare al meglio o meno peggio tutto ciò?
Io racconto solo la psiche delle persone che vedo, la quale a sua volta parla del mondo in cui vivono. Un buon metodo per star bene, conosciuto da sempre, potrebbe essere quello di cercare di essere se stessi, senza continuamente conformarsi, o dipendere dall’approvazione degli altri. Ha dei prezzi, ma ci si guadagna il vivere la propria vita, e non quella altrui, o del sistema di comunicazione dominante.

Uomo? Uomo selvatico? O Maschio? Identità maschile tra essere io e/od altro da proprio sé medesimo? Tra Don Giovanni e Padre?
Consiglio di evitare ogni etichetta, comprese quelle sopra elencate (anche se prese dai miei libri) ed ascoltare chi si è. Che è sempre dentro, non fuori di noi.

La Donna? Mi verrebbe di aggiungere “è mobile….” ma forse è meglio “selvatica”? E d’ingegno? A metà tra forza e mistero dell’eterno archetipo dell’essere femminile? La Grande Madre, terribile eppur generosa?
Idem. Ognuna scopra se stessa, e la interpreti. Il resto riguarda le altre, non te.

Lei parla della figura del Padre come dono, assenza e mestiere? Chi è un padre?
Un uomo che genera con una donna un figlio, lo protegge e aiuta a crescere quando è piccolo, e poi a diventare se stesso quando è più grande. Una figura elementare, che la natura conosce da sempre.

La natura intesa come mondo selvatico? Ancora respira nel suo esistere?
Sì. Tra le prime leggi firmate dal nuovo Presidente degli Stati Uniti ce n’è una che estende enormemente le aree vincolate a Wilderness, cioè destinate a rimanere incontaminate, già molto estese in quel Paese. E’ una questione di grande attualità, e futuro. Ma naturalmente la Wilderness è ovunque, a cominciare da dentro di noi. Anche qui, si tratta di ascoltarla, e onorarla. E goderla.

Dove vanno i giovani?
Bisognerebbe chiederlo a loro. Io sono vecchissimo.

La comunità vivente ha ancora un suo specifico perché ben definito? È ancora dono e sacrificio?
Senza l’uno, e l’altro, non esiste comunità. Al massimo società, associazioni, club etc.

Famiglia vs. divorzio. Anche qui quali i pregi, le colpe e loro effetti collaterali.
La famiglia può fallire, così come un bimbo può essere soppresso. Basta si sappia che è un disastro, e non si spacci divorzio ed aborto per cose da niente.

A conclusione. Siamo ancora in grado di trasformarci e rinnovarci? O restiamo in una immobile opposizione che nega l’anelito alla vita?
Non siamo noi a scegliere. È la natura a determinare che tutto, nell’essere umano, cambia continuamente nel corso della vita, le sue cellule, i suoi neuroni, i suoi sentimenti, il mondo intorno a lui. Certo possiamo optare per la sclerosi, mummificarci a vent’anni; molti lo fanno. Sono di solito pazzi, e piuttosto infelici, ma si può fare anche così. Però è meglio seguire, con spirito di avventura e divertimento, il misterioso e sorprendente itinerario che la vita ci propone.

Susanna Dolci, per il “Fondo Magazine di Miro Renzaglia

 

I colpiti dal virus dell’influenza messicana sono pochi, ma quelli che si ammalano del timore di prenderla sono molti di più. Questa particolare forma di paura ossessiva si nutre, come quasi tutti i disagi psichici, di fatti reali, presenti nella vita quotidiana di ogni persona. Il primo è la ri-scoperta, con l’epidemia, che il controllo che possiamo esercitare sulla nostra vita è limitato, tanto che un elemento invisibile come un virus può metterla a rischio: non tutti lo accettano.
Le personalità ossessive non sopportano di non essere i «padroni» della propria vita. Che viene così spesa nello sforzo titanico di diventarlo, evitando ogni «variabile autonoma» dell’esistenza. Cioè quasi tutto, e molte cose piacevoli: passioni, sorprese, avventure.
Dietro il timore delle epidemie globali però ci sono anche altri fatti, magari non conosciuti lucidamente, che l’inconscio collettivo però percepisce, generando paure. Uno dei più importanti, in questo campo, è che la scienza medica ha perso da tempo la guerra contro batteri, virus e parassiti. La sconfitta fu riconosciuta ufficialmente in un articolo di Laurie Garrett, massima esperta delle «epidemie prossime venture», sulla rivista Foreign Affairs, vicina al Dipartimento di Stato americano. La guerra s’era proposta di distruggere le malattie infettive entro la fine del secolo scorso. Armati di vaccini, antibiotici, e antimalarici si credeva di far scomparire le malattie infettive entro la fine del millennio. Non si riuscì, perché si supponeva che il nemico (batteri, virus e parassiti), rimanesse fermo, e che lo si potesse «sequestrare» geograficamente. Invece i microbi sono in costante evoluzione biologica.
Il massiccio uso di antibiotici ha «selezionato» germi capaci di resistervi. Molti agenti patogeni sono «intelligenti», dotati di un corredo che in condizioni di pericolo li fa mutare, e consente loro di perlustrare il territorio in cui si trovano alla ricerca del materiale genetico necessario per resistere ai farmaci e ai disinfettanti. Questi microbi sapienti ormai «crescono sul sapone, nuotano nella candeggina, e se ne infischiano di cannonate di penicillina». Non solo i microbi cambiano, ma nel mondo globale non si può chiuderli dentro un confine.
La globalizzazione produce, oltre a continui movimenti di merci e denaro, anche spostamenti quotidiani di milioni di persone che vanno da un paese all’altro, dalla campagna alla città, dal sud al nord, dai paesi poveri a quelli ricchi. Assieme agli uomini viaggia un esercito impressionante, ancora in gran parte sconosciuto, di microbi, batteri e virus.
Negli Stati Uniti ogni anno decine di migliaia di persone muoiono per infezioni sconosciute. I nuovi microbi, ha spiegato la dottoressa Ruth Berkelmann del C.d.c. di Atlanta, c’entrano con molti decessi in banali operazioni, e con diverse infezioni contratte negli ospedali. Un problema che, a giudicare dalle statistiche, è importante anche in Italia.
Questo è il terreno sommerso che alimenta, oggi, le psicosi delle epidemie. L’ossessivo, come il paranoico, intuisce nei suoi deliri anche i «nemici reali», e li confonde con quelli immaginari, prodotti dalla propria psiche a seconda della storia. Come sempre la terapia migliore è quella della verità.
Parlare dei limiti della scienza rispetto alla natura vivente (cui batteri e virus appartengono), può aiutare molto di più che esaltarne l’immaginaria onnipotenza. Dopo tutto anche l’uomo è natura, come i virus. Siamo fratelli, cerchiamo di andare d’accordo. Evitando la psicosi, ad esempio, le difese immunitarie salgono.

 

La globalizzazione e le domande di senso

Claudio Risé, da “Il Mattino di Napoli” del lunedì, 27 aprile 2009, www.ilmattino.it

Molti (la maggioranza dei commentatori) pensavano che la globalizzazione avrebbe provocato la fine delle varie religioni. L’interesse per i guadagni fatti sui liberi mercati, e la moltiplicazione dei beni di consumo, si diceva, avrebbe rapidamente rimpiazzato quello per le antiche divinità e fedi diffuse nelle varie parti del globo. Economia, tecnologia e scienza sarebbero state le nuove religioni. È successo il contrario. «Dio è tornato», è il titolo del libro più venduto negli Usa.
Gli autori (Miklethwait e Wooldridge), capi redattori di un giornale con i piedi ben piantati per terra come l’Economist ripercorrono le tappe e le ragioni di questo «ritorno di Dio», avvenuto praticamente in tutte le regioni del mondo, comprese quelle precedentemente governate da regimi rigidamente atei, come la Russia. Dove un sondaggio del 2006 ha accertato che l’84% delle popolazione russa crede in Dio, e soltanto il 16% si considera atea.
D’altra parte, lo stesso Putin non si toglie mai dal petto la croce del suo battesimo, ha una piccola cappella accanto al proprio ufficio al Cremlino, e va regolarmente in Chiesa. E Gorbaciov, l’uomo che pose fine all’Unione sovietica, dopo aver pregato per più di mezz’ora sulla tomba di San Francesco, dichiarò che la vita di San Francesco aveva avuto un ruolo fondamentale nella sua vita. Per non parlare degli Sati Uniti, dove George Bush apriva ogni Consiglio dei ministri con una preghiera, e lo stesso Barack Obama presentò sé stesso al Partito democratico come «leader cristiano», e nella sua autobiografia ricorda il predicatore che lo «condusse a Dio».
Come mai gli avvenimenti hanno preso questa piega inaspettata per gli esperti, a cominciare da Henry Kissinger che nelle quasi mille pagine sul mondo contemporaneo (in: Diplomacy del 1996), non prestò alcuna attenzione alla religione? Il fatto è che politologi e economisti per solito tendono a considerare gli uomini soprattutto dal punto di vista del potere e del guadagno: gli argomenti che non hanno a che fare con queste due passioni non vengono quindi presi in considerazione.
Le persone però, in tutto il mondo, non hanno solo questi interessi. Si pongono anche domande apparentemente più stravaganti, meno concrete, che compaiono spesso, infatti, negli studi degli analisti, nei confessionali dei preti, e in genere si sentono rivolgere le persone che si dedicano alle varie «professioni di aiuto». Domande, ad esempio, come: «Chi sono io? Da cosa si riconosce una vita davvero riuscita? Come non aver paura della morte? Che valore ha il mio modo di vivere rispetto a quello di qualcuno cresciuto dall’altra parte del mondo»? Ma questi sono gli interrogativi cui, da sempre, in tutto il mondo, rispondono le diverse religioni.
La globalizzazione ha reso queste domande molto più frequenti, contrariamente alle previsioni dei politologi e come invece la psicoanalisi aveva previsto. L’identità personale e di gruppo, infatti, durante il processo di mondializzazione è diventata più fluida e incerta, aumentando le insicurezze e le paure e dando concretezza al: chi sono io?, e a tutta la sfera etica, su cui si fondano valori più stabili e un’autostima personale più salda.
Le risposte suggerite dalla politica, vale a dire una generica «tolleranza» da una parte, o dall’altra la rivendicazione della propria superiorità, sono sembrate troppo ideologiche, non veramente convincenti rispetto alla sensibilità semplice ma profonda, dell’uomo della strada. Che si sente più forte ed insieme tranquillo e dunque più in grado di vivere con altri, anche diversi, se con lui c’è Dio.

 

E’ uscito il nuovo libro di Claudio Risé: La crisi del dono. La nascita e il no alla vita (San Paolo Edizioni, 2009)

(Dalla quarta di copertina)
Sconfiggere l’aborto e i suoi orrori, legalizzati o illegali, significa prendersi la responsabilità di rifiutare la tentazione regressiva ed onnipotente, della conservazione dell’esistente, aprendosi al nuovo che ogni giorno nasce e ci chiede accoglienza ed amore.
Significa accettare di donarci a lui, al bimbo che viene nel mondo, anziché sacrificarlo al nostro piacere, ma soprattutto al nostro, soltanto immaginato, potere sulla realtà, che invece nella sua incessante trasformazione, ci oltrepassa e ci trascende, in ogni momento.
Queste pagine sono state scritte per favorire un’apertura al cambiamento, che aiuti ognuno di noi a rifiutare la nostra (spesso inconscia) consuetudine abortiva nei confronti della vita e della sua continua trasformazione.

(Dalla Premessa)
L’aborto non è solo materia di cronaca quotidiana, e di battaglia politica. Esso non inizia, come è noto, con le leggi che lo legalizzano, così come non era un delitto “come un altro” quando era considerato un crimine. La polemica politica sull’aborto è quindi giusta, ma quasi sempre inadeguata. Perché lo considera soprattutto come un fare male, un malaffare, senza indagare la sua natura in quanto malessere, essere nel male, in una situazione di forte disordine e disagio. Per la precisione in quella patologia che porta a rifiutare uno dei tratti più caratteristici della vita umana: il continuo cambiamento, e la sua continua trasformazione, in incessante sviluppo, dalla nascita fino alla morte.
Questo tratto dinamico della vita dell’uomo è particolarmente difficile da accettare nel disagio psichico forse più diffuso oggi: le nevrosi e psicosi ossessive, accompagnate dalle fantasie di controllo totale della realtà, e nutrite dalla celebrazione acritica dell’onnipotenza tecnoscientifica svolta dalla comunicazione di massa.

Il momento dell’esistenza più rappresentativo dell’irruzione del cambiamento, dell’avvento del nuovo, è quello della nascita. Ed è appunto contro la nascita, per impedirne la realizzazione, che si compie e legittima l’aborto, così come le troppo trascurate forme di infanticidio, banalizzate in classificazioni e diagnosi riduttive.
Nel dibattito sull’aborto come evento individuale, rappresentativo o no della libertà e dei diritti di chi lo compie, viene inoltre oscurato il significato che l’autorizzazione alla soppressione del bambino ha per la società: tema invece che i materiali dell’inconscio collettivo (scritture religiose, leggende, miti), hanno ripetutamente affrontato, proprio perché centrale per la comunità, oltre che nell’esistenza individuale.
L’esperienza religiosa, e la norma che essa ispira, si avvicina più del dibattito politico e di costume all’“essenza” delle diverse forme di soppressione della nuova vita. Riferendosi direttamente alla legge naturale di accoglimento e difesa della vita, la religione infatti si svincola dalle contingenze delle polemiche storico-sociali, e coglie con stabile profondità le radici antivitali dell’azione contro il bimbo, così come le conseguenze mortifere generate anche in chi lo compie, e nella comunità in cui esso avviene. La piena comprensione del dramma dell’aborto, e della vicenda di uccisione del figlio, del nuovo essere umano che in esso si compie, ci chiede tuttavia un ulteriore profondo sforzo per svincolarci dagli aspetti strumentali della polemica politica, e dall’effetto fatalmente banalizzante della comunicazione mediatica. È necessario allora ricollocare questa tragedia, con la sua forza lacerante e il suo preciso profilo psicologico, lungo tutta la storia della psiche umana, e nelle più profonde narrazioni che la rappresentano. […]
Quello che segue è dunque soprattutto il tentativo di delineare una prospettiva finora solo a tratti visibile nella lotta antiabortista, pur appassionata e sacrosanta. Che tuttavia, non approfondendo lo sfondo più ampio delle sue ragioni, rischia di indebolire i propri forti argomenti.
L’aborto non nasce solo dalla malvagità o distrazione individuale, o dall’opportunismo di gruppi politici inconsapevoli o irresponsabili. Esso affonda le sue radici in un terreno psicologico, cognitivo ed affettivo molto più vasto, ed è alimentato dalla maggiore tentazione regressiva da sempre presente nella psiche umana: quella di uccidere il nuovo, lo sviluppo, il cambiamento, appena comincia a prendere forma. Prima che nasca, e ti costringa a cambiare con lui. [continua]

 

Distrarsi insegna a concentrarsi. Il bambino che ha girovagato per prati, spiagge e boschi, sarà poi capace di prestare attenzione all’argomento che la maestra gli propone, molto più di quello che ha passato la sua infanzia tra giochi e attività didattiche intellettualmente stimolanti, e aule scolastiche. Lo stanno scoprendo gli studiosi impegnati a indagare la diffusione fra i bimbi occidentali dell’Adhd (la sindrome di deficit dell’attenzione e di iperattività). Ma perché ciò accade?
Sembra che avesse ragione il filosofo e pedagogo William James, nelle sue riflessioni sull’attenzione diretta, e quella che egli chiamò la «fascinazione», l’attenzione involontaria, sollecitata in particolare dai grandi spazi e ambienti naturali. Studi recenti hanno dimostrato che l’attenzione diretta, come quella per uno specifico oggetto di studio, risulta più facile ed efficace nelle persone che hanno sperimentato, specialmente nell’infanzia, situazioni di fascinazione, di attenzione indiretta. Come quelle appunto da cui si lascia catturare un bambino a spasso nella natura, quando si appassiona a un dato tipo di albero, a una foglia, a un insetto che si muove sulla spiaggia o a un masso che devia un torrentello.
Il bimbo che spontaneamente impara a leggere con attenzione nel grande libro della natura aperto dinanzi a lui sarà poi molto più in grado di concentrarsi sull’argomento proposto a scuola dal maestro. Come se le organizzazioni neuronali coinvolte nell’attenzione del «nature boy», del bimbetto selvatico, fossero più fresche, più elastiche, meno logore e più libere di quelle già sollecitate da concentrazioni e attenzioni forzate e già predisposte. Comprese, in particolare, quelle sollecitate da un’esposizione troppo precoce alla tv.
Queste scoperte sono molto interessanti perché dimostrerebbero che il famoso «deficit dell’attenzione» che affligge i nostri bimbi e nipoti è in realtà figlio di un altro deficit: quello di ambienti naturali, indispensabili per lo sviluppo dell’attenzione indiretta, di quel lasciarsi affascinare nei luoghi dove maturano gli interessi e la capacità di concentrazione del bambino.
Si tratta, del resto, di una situazione ormai sperimentata: i bambini stanno meglio là dove la natura è più presente. Tanto che negli Stati Uniti il Nature-Deficit Disorder, la sindrome da mancanza di natura (è stato così chiamato, nei suoi libri e rubriche sui media, dallo psicopedagogo Richard Louv), è un malessere comunemente riconosciuto anche se non clinicamente classificato. Dovunque poi, anche in Italia, sappiamo che le forme patologiche più diffuse, come le tossicodipendenze, si curano meglio dove è più forte il contatto con la natura.
Ambientalisti radicali e sportivi appassionati alla Wilderness o natura incontaminata (amata dal fondatore della psicologia analitica Carl Gustav Jung), sostengono da sempre che l’uomo, in quanto essere vivente ha un bisogno vitale di contatto diretto con le forme della natura: i boschi, i corsi d’acqua, i prati, gli animali.
L’analista sa poi che oggi i disagi psichici più diffusi si formano in situazioni dove manca un contatto diretto con il mondo vivente, costantemente sostituito da prodotti «culturali» o dalla tecnologia. I disturbi di personalità e dell’umore, quelli alimentari, tutte le forme di dipendenza (da sostanze, affettive, sessuali) si aggravano in ambienti artificiali. Mentre la natura vivente li cura.
Le ricerche americane, canadesi e svedesi sull’Adhd confermano dunque altre intuizioni, antiche e moderne. Chi sa perdersi nella natura troverà poi sé stesso. Fin da bambino.

 

Claudio Risé, da “Il Mattino di Napoli” del lunedì, 6 aprile 2009, www.ilmattino.it

L’ultima strage in cronaca, l’immigrato asiatico che a Binghamton, New York, ha ucciso 13 persone, ferite quattro, e poi si è tolto la vita, affonda le sue radici nel sentimento più diffuso nel mondo globale: la solitudine. È infatti questo il dato comune, sempre presente in queste stragi impersonali, spesso contro sconosciuti: l’attacco violento agli altri, con i quali non riesci a comunicare. Li uccidi, perché non sei mai riuscito ad incontrarli. E questo ti impedisce di vivere. Senza l’altro, infatti, la vita dell’uomo perde di senso.
Il lavoro perso, come in altri casi lo scacco scolastico, o la delusione sentimentale, sono solo l’ultima goccia che scatena la disperazione finale. Sotto, c’è il fallimento dell’incontro con gli altri, la solitudine vissuta come condanna ad una vita impossibile, perché priva di quel calore affettivo che è indispensabile nutrimento di ogni esistenza umana.
Quando la psicoanalisi dice che l’Eros, la spinta verso l’altro, è la più potente delle passioni non sta parlando solo della sessualità. Anche Freud lo intuiva quando diceva che lo stesso Eros ispira anche la guerra e la morte, forma rovesciata di incontro con l’altro, quando quello amoroso non è possibile.
Abbiamo bisogno di abbracciare l’altro, di venirne abbracciati. Quando questo incontro affettivo, umano, personale e sociale non si realizza, la personalità si ammala, il rapporto con la vita diventa difficile, e la fantasia della morte, data a sé e/o agli altri, viene vista a volte come unica prospettiva di uscita, oltre che come regolamento di conti con un’esistenza vissuta come troppo crudele.
La durezza e la violenza di queste ribellioni alla solitudine personale ci spiegano, anche, perché giovani e giovanissimi oggi sentano invece così importante il contatto con altri, l’amicizia, e qualsiasi forma di socializzazione, da Facebook, a YouTube, alle mille tribù della rete, a tutte le mode, che sono contemporaneamente fonti di aggregazioni giovanili.
Si dice spesso che questi ragazzi non sanno stare soli, non reggono la solitudine: è vero, e queste stesse stragi, spesso compiute da giovani, precipitati appunto nella solitudine, lo dimostrano. Forse però, liquidando la questione in questo modo, noi ci riferiamo ad un’idea romantica e non attuale della solitudine, che non tiene conto di cosa significhi essere soli nel mondo globalizzato di oggi. Un mondo in cui gran parte delle appartenenze che hanno sempre rappresentato la rete di salvataggio dell’essere umano in difficoltà (la famiglia, l’etnia di origine, la cultura e solidarietà della classe di provenienza, la religione), sono state violentemente attaccate dai modelli dominanti, ed hanno finito per entrare in profonde crisi e trasformazioni. Il solitario novecentesco poteva sempre rifugiarsi in una di queste reti, oggi chi si ritrova solo ha di fronte a sé un mondo che percepisce come impersonale e privo di reale interesse affettivo.
Per questo i giovani sono così attenti a stabilire e rafforzare i loro luoghi e modi d’incontro, reali e virtuali. Per questo chi scivola invece fuori da ogni rete di comunicazione, entra in zone di angoscia intollerabili, come dimostrano le storie di gran parte di questi stragisti suicidi.
L’individuo del mondo globalizzato, anche sotto l’effetto degli idoli collettivi (il successo, la ricchezza facile, l’immagine) tende a vivere «al di sopra» delle proprie capacità e mezzi affettivi. In particolare non considera la forza del proprio bisogno d’amore, dell’altro. Quando si accorge di non poterne fare a meno, a volte pensa che sia troppo tardi, e non accetta più la vita.

 

Claudio Risé, da “Il Mattino di Napoli” del lunedì, 23 marzo 2009, www.ilmattino.it

Negli studi degli analisti le depressioni non stanno più aumentando, per la prima volta da anni. Lo stesso, sembra, per le forme di panico, le crisi gravi d’ansia. Se si eccettua il girone infernale dell’adolescenza, che ha i suoi specifici guai, dalla droga alla scuola esigente ma inefficiente, ai traumi post-separazione, sembrerebbe quasi che la gente stia un po’ meglio. Come mai? Si direbbe che anche questo è uno dei tanti effetti della crisi sulla psiche individuale e collettiva.
Le paure reali, infatti, cacciano quelle immaginarie. Il posto di lavoro incerto, il benessere in discussione, i risparmi decimati, tolgono vigore alla sindrome dell’automobilista terrorizzato, quello che non riesce più a far partire la macchina perché teme lo scontro, e svuotano la noia da week end, quando non si sa cosa fare.
Di fronte al coraggio col quale pazienti fino a poco fa sfiniti reagiscono a situazioni davvero problematiche, il terapeuta è preso da un dubbio. E se l’essere umano avesse proprio bisogno di lottare? Se a logorarlo non fosse la fatica, quello che ci siamo abituati a definire stress (e che vediamo ormai dappertutto), ma proprio l’immaginaria sicurezza nella quale abitualmente ci culliamo, garantiti da una visione della vita tranquilla e ripetitiva, che in fondo ci annoia? Se si seguono queste domande poco usuali, si possono scoprire diverse cose. Per esempio: quello stesso automobilista terrorizzato viene colto dall’ansia, in genere, quando deve avviare la macchina per spostarsi dal solito parcheggio ad una meta altrettanto abituale e prestabilita. Oppure: il depresso cronico non lo era affatto fino a quando la mamma non gli proibì improvvisamente le uscite con gli scout, fonte frequente di raffreddori e sbucciature. Tutte nate da prove e sfide reali, che mettendo sotto sforzo il ragazzo, allontanavano qualsiasi fantasia depressiva.
Seguendo queste osservazioni, si intravedono possibili risposte ad altri interrogativi. Come mai i ragazzi albanesi che attraversavano il canale d’Otranto su impensabili carrette non erano mai depressi, e i nostri figli con motorino garantito a quindici, e spesso l’automobile a venti, invece sì? Incrociando casistiche personalmente raccolte, dati sociologici, osservazioni empiriche, si notano verità seminascoste. Non è la maggiore agiatezza in sé che toglie vigore e vitalità psicologica, quanto l’abitudine a contarci come un dato acquisito, e non qualcosa da riconquistare continuamente.
Fino a pochi decenni fa, nell’educazione borghese, si insisteva molto sul fatto che non era il patrimonio accumulato dai padri a decidere dello status dei figli, quanto la loro personale capacità di guadagno e affermazione. Le ricchezze più recenti hanno meno insistito su questo punto. I padri, orgogliosi dei risultati raggiunti, li hanno spesso presentati ai figli come parti ormai acquisite della loro identità.
Le sentenze della magistratura che obbligavano i genitori al mantenimento dei figli, indipendentemente dall’età e impegno, hanno fatto il resto. In questo modo si sono spalancate le porte alle depressioni, e all’ansia. Perché se è tutto già stabilito e assicurato, non ha più alcun interesse: la depressione è alle porte. Oppure, l’inconscio percepisce comunque la precarietà di questo quadretto tranquillizzante, anche se viene taciuta: e allora si sviluppa il panico.
Le energie di cui la psiche umana dispone per fronteggiare le difficoltà, se non utilizzate, si ritorcono contro di noi, e diventano malattie. Che diminuiscono, a volte scompaiono, nei momenti davvero duri. Scomodi, ma terapeuticamente fecondi.
 

Claudio Risé, da “Il Mattino di Napoli” del lunedì, 16 marzo 2009, www.ilmattino.it

L’Italia regge la bufera meglio degli altri Paesi: l’ha confermato anche il Censis, con il suo segretario generale, Giuseppe De Rita, insospettabile di simpatie governative. Il che significa che, a far meglio, sono soprattutto gli italiani, e alcune loro caratteristiche innate, e spesso criticate.
Quali sono le qualità-difetti, che hanno protetto l’italiano, in questa come in altre precedenti crisi? La prima, che emerge da tutti i dati a disposizione, è che non è semplice dargliela a bere.
L’italiano si convince, ma fino a un certo punto. È questo che spiega, più di ogni altra cosa, il fatto che di «titoli tossici», i famosi «derivati» che hanno inguaiato mezzo mondo, qui ne siano stati venduti pochini. E solo a enti burocratici: comuni, enti previdenziali; quasi nulla a individui paganti di tasca loro, i quali non hanno abboccato.
Le banche e le finanziarie che cercavano di venderli, i titoli tossici, c’erano anche qui (ma comunque meno numerose e convinte che negli altri paesi). Le promesse mirabolanti dei prospetti pubblicitari, delle campagne a pagamento, sono circolate anche da noi. Il pubblico, però, non c’è caduto. È un’indicazione interessante. Può darsi che ogni tanto qualcuno di noi ci provi a vendere i Faraglioni a un turista sprovveduto, ma mai a un italiano. Siamo ancora troppo vicini a una secolare povertà, ai sacrifici delle precedenti generazioni nel costruire un benessere, alle difficoltà di uno sviluppo non sostenuto da giacimenti di materie prime o da ricchezze accumulate nei secoli, per buttare i soldi in scommesse finanziarie. Infatti non l’ha fatto quasi nessuno.
È la forza di un popolo, e di una psicologia individuale e collettiva, che non è ancora identificata nella ricchezza, e quindi non cade nella sua principale trappola: credere che riprodurre e moltiplicare il denaro sia facile. L’italiano sa che non lo è. Ciò lo rende meno veloce nel cogliere le onde dell’espansione: l’Inghilterra post Thatcher si è sviluppata enormemente di più che l’Italia dell’ultimo quindicennio; ma dopo è caduta molto più rovinosamente. Qui ci si entusiasma di meno, si dubita di più, si procede con cautela. Qualcuno dice che siamo cinici: di certo non siamo boccaloni. Una caratteristica che rallenta le corse, ma evita alcuni precipizi.
Poi c’è il legame con la terra, che è anche simbolo del rapporto con la «base di realtà», con il mondo delle cose esistenti, non di quelle immaginate o sperate. Per gli italiani la terra è molto importante: chi poteva se ne è tenuta almeno un po’; quasi tutti gli altri sperano di comprarsene forse un pezzetto, e lo preferiscono a qualsiasi titolo, o obbligazione. Per certi versi è normale in un popolo che, ancora un secolo fa, era composto nella sua maggioranza di contadini. Ma è anche il segno di uno sviluppo che non ha tagliato le radici. E quindi, per quanto forte, non ha fatto perdere la testa a troppi.
Del rapporto con la terra fa parte anche la proprietà della casa (poggiata appunto sulla terra), che in Italia è straordinariamente diffusa; anche perché moltissimi la casa se la sono costruita con le loro mani.
Un Paese di ex contadini (con forti speranze di ridiventarlo), e un presente di muratori a tempo pieno o per diletto, è difficile da sradicare con droghe di tipo finanziario. Non ci crede, non le prende. Infatti non le ha prese.
Poi (o prima ancora) c’è la famiglia. Un collante di affetti, solidarietà, e progetti condivisi che nei momenti di difficoltà si ricompatta, fa cassa comune, aiuta e consiglia molto più efficacemente di tanti «personal banker». Ecco perché l’Italia tiene.
 

Claudio Risé, da “Il Mattino di Napoli” del lunedì, 2 marzo 2009, www.ilmattino.it

L’etica non sarà nei prossimi anni solo una parola alla moda. Diventerà anche uno dei principali criteri di orientamento nella politica economica, negli investimenti, nei comportamenti individuali e collettivi. Basta contare quante volte i riferimenti all’etica compaiono nei discorsi del nuovo presidente degli Stati Uniti. Non si tratta di idealismo, o non solo. Il fatto è che non ci sono più soldi, e l’immoralità costa molto. Mentre con la virtù si risparmia, e alla lunga si guadagna.
Non a caso l’attuale crisi ha svelato comportamenti poco virtuosi, spesso truffaldini. Dai bonus milionari ai dirigenti, anche quando facevano perdere alle aziende un sacco di soldi, alle vere e proprie truffe, con miliardi che andavano a finire in ville, yachts da sogno e aerei privati, anziché nelle Borse come veniva detto agli investitori.

Come sempre accade, questo fiume di risorse dirottate nei divertimenti di pochi (di scarsa produttività sociale), anziché nell’istruzione e formazione di molti, ad esempio con il miglioramento della ricerca e i servizi, ha finito con l’arrestare lo sviluppo. In parte perché non c’erano più fondi disponibili, spesi invece per divertimenti privati, costi d’«immagine», e vizi dispendiosi. In parte però, anche perché non c’erano idee, ricerche e nuove culture, mai nate perché nessuno si era più preoccupato di promuoverle e finanziarle.
Le idee, infatti, come i brevetti, i nuovi processi tecnologici (ma anche quelli finanziari) costano: per averle bisogna investirci. È banale, ma investendo nell’immagine e nelle dissolutezze private non rimangono più non solo risorse economiche, ma neppure energie morali e intellettuali per lo sviluppo collettivo.
Dalla rovina del primo impero «globale», quello romano, fino a oggi, questo stesso processo si è prodotto più volte: le energie o vanno nei piaceri individuali, o vanno nello sviluppo sociale. Le possibilità di sopravvivenza del sistema capitalista non sono legate alla sua ricchezza, che è stata spesa e in gran parte perduta, e deve venire ricostituita stampando nuova moneta; ma alla sua virtù, al suo grado di corruzione forse minore di quello delle potenti dittature tuttora fiorenti nel mondo.
Se le nostre virtù ancora esistono, e si rafforzano (ossigenando quindi anche le nostre intelligenze), la crisi verrà superata. Altrimenti anche il capitalismo nella sua forma attuale finirà, come i sistemi politico sociali che l’hanno preceduto.
La passione per l’etica, tuttavia, è molto diversa dal moralismo, che fiorisce anche in persone corrotte. Il moralista condanna i vizi privati degli altri, che spesso rispecchiano propri aspetti inaccettabili e inconfessati, anche a se stesso. Caratteristica del moralista, è, ad esempio, l’apparente disprezzo per i ricchi: sintomo frequente della propria inconfessata avidità.
La personalità etica invece non si interessa delle debolezze individuali, sapendo che ben pochi ne sono privi, ma è fortemente interessata all’interesse pubblico, che condiziona la felicità, o il malessere, di tutti quanti. A chi possiede un temperamento etico (che spesso non nasce da una particolare formazione intellettuale, ma è istintivo), è del tutto chiaro che la felicità e il benessere dipendono dal giusto equilibrio tra il piacere individuale e il benessere fisico e affettivo delle persone che gli stanno intorno.
Etica è la persona che cerca di non mettere in pericolo l’unità familiare, sapendo che distruggerebbe risorse, anche economiche, creando molto malessere. Di queste persone, negli anni a venire, ce ne saranno sempre di più. Anche perché sono finiti i soldi.
 

Claudio Risé, da “Il Mattino di Napoli” del lunedì, 2 febbraio 2009, www.ilmattino.it

C’è un aspetto inquietante nella rissa sulla canzone di Povia per Sanremo, dedicata a Luca, che era gay, e ora non lo è più, e gli va bene così. Preoccupa la richiesta di proibire che si parli di gay che vogliono cambiare il proprio orientamento, e lo fanno. Narrare il percorso contrario, da etero a omosessuale, è invece visto come atto liberatorio, come viene detto con i premi al film Brokeback Mountain e a narrazioni simili, in libri, o film. Ma non c’è qui una (nuova) discriminazione?
La persona discriminata, quella di cui non si può parlare (perché la sua esistenza rompe gli schemi), in questo caso non è più il gay, ma l’ex, quello che ha cambiato il proprio orientamento sessuale. Eppure queste persone esistono, e il mettere il silenziatore alle loro storie priva anche le altre di una parte di libertà, se non altro di informazione.

La richiesta di togliere la canzone dal festival, quindi, mette in pericolo proprio ciò che dice di difendere: la libertà sessuale, di cui la libertà di parlare senza pregiudizi della sessualità è parte integrante.
Freud, fondatore della psicoanalisi, ricordava che «le pulsioni non sono né buone, né cattive», e come tali vanno trattate. In una società aperta il problema non è che sessualità hai. Però come la vivi, come ti trovi con un certo orientamento sessuale sì, può essere un problema. Tanto è vero che l’Organizzazione mondiale della sanità riconosce nel suo manuale diagnostico che l’«orientamento sessuale indesiderato» è un disagio psicologico, e chi ne soffre va aiutato a superarlo, se lo chiede.
Si sa che in terapia vengono spesso persone che vivono la loro affettività e/o sessualità con le donne, ma non ne sono soddisfatti. Il terapeuta accoglie questo disagio, spesso copertura di un’omosessualità latente, che viene così riconosciuta. Accade però anche il contrario, che cioè si presentino persone con comportamenti o fantasie omosessuali, ma che ne sono disturbate. Per varie ragioni. A volte questo orientamento è nato con un abuso, da cui la persona vuole ora liberarsi; a volte si è formato in mode e comportamenti collettivi seguiti nell’adolescenza; a volte, semplicemente ci si è innamorati di una persona dell’altro sesso.
Il solito Freud, ad esempio, riteneva che la bisessualità fosse comune; e che ognuno poi si orientasse sulla base delle proprie esperienze affettive precoci, e dei propri obiettivi. In tutte le culture e società, del resto, gli orientamenti sessuali non vengono considerati come unici, e stabili per tutta la vita.
La parola omosessuale nasce solo nel 1860, sotto la passione classificatoria del positivismo, e solo più tardi ancora si scopre l’«eterosessuale». È il Novecento (l’epoca dei regimi totalitari), che mette i cittadini in una casella sessuale specifica, e chiede che ci rimangano. Sono Hitler e Stalin che mandano gli omosessuali nei campi di sterminio, e nei gulag.
L’eurodeputato Vittorio Agnoletto ha presentato un’interrogazione alla Commissione europea, chiedendo all’esecutivo Ue se la canzone «Luca era gay» non violi il Trattato istitutivo della Comunita’, la Carta dei diritti fondamentali, la Convenzione per i diritti dell’uomo e che la Commissione eviti tale violazione, e impedisca appunto l’esecuzione della canzone.
Chi ha a cuore il benessere delle persone deve certamente opporsi a ogni discriminazione. Quelle che colpiscono gli omosessuali, come quelle dirette contro gli ex gay, che con la loro presenza disturbano una sessualità «normalizzata», in stabili gabbie, organizzate come partiti.
La sessualità è il luogo dell’inquieta ricerca dell’altro. Da tutelare.
 

   

Risè Claudio

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