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2013: Diario di Bordo
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Lasciate liberi i vecchi di scordare la parte
(Di Claudio Risé, da “L’Ordine”, allegato cultura a “La
Provincia di Como”, 22 settembre 2013,
www.laprovinciadicomo.it)
L’Alzheimer che ha colpito Sean Connery e Jack Nicholson,
relegandoli nell’oblio, è la spia di un mondo che non presta più
attenzione alle vere necessità dell’anziano, prima di tutte
quella di essere finalmente libero di essere se stesso
Gli ultimi famosi vittime dell’Alzheimer (per ora) sono due
grandi attori dei nostri anni: il re degli OO7, Sean Connery, e
Jack Nicholson, che ha fatto del suo volto la maschera del
terrore e della follia. Due protagonisti grandi e spesso
“cattivi” che oggi si ritirano dalle scene, inghiottiti (si
dice) dall’oblio. Il fatto è che il pubblico si ricorda
benissimo di loro, ma loro non ricordano più le parti.
È già accaduto a grandi scrittori, come Agatha Christie o Iris
Murdoch; statisti come Ronald Reagan e Margareth Thatcher,
protagonisti dello star system. I “grandi vecchi” concludono la
loro vita nella dimenticanza e nel silenzio, vengono nascosti
dai familiari, non dirigono e non orientano più nessuno. Anzi
diventano sempre più spesso essi stessi bisognosi non solo di
cure, ma di guida, attenzioni. Loro che emozionavano il mondo,
diventano inespressivi, sembrano non provare più nulla.
Come mai questi personaggi vincenti nelle professioni, nella
popolarità, nel cuore delle folle, sembrano smarrire la loro
presenza nel mondo, e lo stesso gusto per la vita?
[Leggi
tutto l'articolo - clicca qui]
Vogliono uccidere il Padre
(Intervista a Claudio Risé, di Davide Brullo, da “La
Voce di Romagna”, 18 agosto 2013)
Un libro dello psicoterapeuta più scomodo d’Italia
fa tremare i perbenisti. E si scaglia contro una società che
tenta di distruggere la figura paterna fondamentale
I giornali si sa, come si dice, “sguazzano nella polemica”.
Maneggiato da una certa stampa, perciò, l’ultimo libro di
Claudio Risé, “Il
Padre. Libertà, dono“, edito da Ares (Milano,
2013), è stato usato come una clava contro la devastazione
morale del mondo odierno.
Giusto: se le mamme sono voraci “sciupamaschi” e i babbi
indossano il grembiulino da cucina dopo essersi accuratamente
adornati con il contorno occhi, non lamentiamoci se i figli
crescono cretini, per lo meno disorientati.
C’è una magnificenza, una magniloquenza nell’ordine naturale
delle cose che una patetica idea di uguaglianza (le donne
possono farsi maschi e i maschi, magari, partorire i figli, come
fantomatici, orribili, dèi) e uno scaffale di leggi non possono
abolire.
Al di là delle opinioni e degli schieramenti (i paladini del
progresso, pur nel covo dell’abisso e quelli della restaurazione
a colpi di Croce), c’è una “ragione” nel testo di Risé, una
profondità, che per una volta tanto non meritano lo strillo, la
fuciliera da esaltati.[Continua
a leggere l'Articolo/Intervista - clicca qui]
Il padre e il grande esodo verso la
libertà dell’uomo
(Intervista a Claudio Risé, a cura di Gioia
Palmieri, da “Il Giornale del Popolo”, 17 agosto 2013,
www.gdp.ch)
In ciascuno di noi è forte l’idea che l’essere liberi
consista nella possibilità di fare ciò che vogliamo quando
vogliamo. Ma pochi di noi sono fino in fondo consapevoli che
ogni scelta implica la sequela di qualcuno che ci invita a
perseguire o rifiutare un bene. Chi allora oggi, tra tutte le
scelta che la società propone e impone, è veramente in grado di
risvegliare la libertà dell’uomo orientandola verso il suo vero
bene?
L’ultimo libro di Claudio Risé, “Il
padre. Libertà dono” (Ed. Ares, 2013) risponde a
questa domanda. «Il padre è colui che ci porta e ci guida nella
realizzazione del nostro personale destino risvegliandoci alla
consapevolezza di averlo, di avere una chiamata personale e
concreta a cui rispondere», ci spiega lo psicanalista di fama
internazionale.
«Il padre, come il Dio degli ebrei, ci indica la strada della
liberazione dalla schiavitù», che oggi consiste nella condanna a
ripetere gesti senza capire, a chiudersi in ossessioni, paure e
dipendenze sempre più logoranti e diffuse». [Continua
a leggere l'Intervista a Claudio Risé - clicca qui]
La libertà: un dono di ogni padre
(Intervista a Claudio Risé, di Luca Marcolivio, da
“Zenit”, 19 agosto 2013,
www.zenit.org)
Tra i libri in corso di presentazione alla XXXIV
edizione del Meeting di Rimini, c’è
Il padre. Libertà. Dono (Ares, 2013) di Claudio Risé.
Il noto psicoterapeuta ha già all’attivo numerose pubblicazioni
sul tema della paternità.
In questo nuovo saggio, Risé ha voluto analizzare un aspetto
relativamente poco studiato delle dinamiche psicologiche
familiari, ovvero il modo in cui l’autorità paterna, lungi dal
reprimere la personalità del figlio, lo aiuta nella conquista
del bene prezioso della libertà.
Per conoscere i contenuti de
Il padre. Libertà. Dono, ZENIT ha intervistato
l’autore.
Prof. Risé, lei ha già all’attivo numerose pubblicazioni
sulla figura del padre. In questo nuovo volume quale aspetto
particolare viene affrontato?
Claudio Risé: Ho sentito la necessità di accentuare l’aspetto
della relazione tra padre e libertà, di presentare il padre come
colui che porta l’esperienza della libertà nella vita dei figli.
L’ho fatto per rispondere allo stereotipo diffuso secondo il
quale il padre rappresenterebbe l’autorità, sarebbe una figura
autoritaria. C’è poi l’ostilità di tutto il sistema mediatico,
da decenni impegnato in una marginalizzazione della figura del
padre, sia come padre terreno che nell’archetipo del Padre
celeste. Tuttavia, la auctoritas (da augeo,
“accrescere”) ha proprio la funzione di far crescere i figli, di
dare spazio alla loro libertà. L’autorità, quindi, non è per il
piacere fine a se stesso di esercitarla. Il punto è proprio
testimoniare la libertà nella vita dei figli. Don Giussani
diceva: “Libertà è la possibilità di decidere, di vedere, di
riconoscere, di decidere, del proprio destino, del destino
dell’irripetibile persona umana”. Dopo un indispensabile periodo
di dipendenza, di fusione, che è quello della formazione del
bambino, prima nel ventre materno, poi dopo la nascita, dove la
fusione è necessaria per la formazione della personalità, è
necessario l’intervento di una figura terza che è proprio quella
del padre, che amorosamente si avvicina al bambino per
distaccarlo da questa fusione con la madre e portarlo al
riconoscimento della propria libertà di avere un proprio destino
personale, di doversene prendere la responsabilità, di doverlo
difendere dai condizionamenti: questo è il padre e questa è la
ragione principale per la quale ho scritto questo libro.
Qual è invece il legame tra padre e dono (il secondo
concetto espresso nel titolo)?
Claudio Risé: Il dono del padre è proprio quello di presentare
la libertà al figlio. Parlo di dono proprio perché soprattutto
oggi, anche concretamente, è l’unico modo che il padre ha per
entrare in relazione con il figlio, anche affrontando
l’eventuale ostilità della madre a conferire questa libertà al
figlio. L’unico modo che il padre ha di raggiungere il figlio è
il dono e un dono va fatto in modo discreto, senza aspettarsi un
riscontro immediato di gratitudine. Un dono, in quanto tale, non
attende conferme. Il processo di formazione dei figli dura molti
anni, attraversa molte fasi, incontra molti ostacoli. Quando
però il padre presenta i suoi doni, con affetto, discrezione,
profondità, quei doni rimarranno, incideranno in qualche modo
nella vita dei figli. Tuttavia non bisogna avere fretta, né
essere avidi di conferme: anche in questo dobbiamo accettare il
mistero della vita umana. [continua
a leggere l'intervista su Zenit.org - clicca qui]
Adulti poco attenti, le “droghe leggere”
sono pericolose
(Intervista a Claudio Risé, di Annamaria Bacchin, da “Il
Gazzettino”, 13 agosto 2013,
www.gazzettino.it)
Mentre il Nordest sembra prendere sempre più le
distanze dalla percezione della diffusione delle droghe leggere,
l’ultimo rapporto del Dipartimento Politiche Antidroga (Dpa),
parla invece di un incremento del consumo di cannabis
soprattutto tra i giovani. A segnalarlo è Claudio Risé,
psicanalista, uno dei primi in Italia a scrivere un libro sugli
effetti nocivi che l’hashish produce all’organismo, “Cannabis.
Come perdere la testa e a volte la vita” (Ed.
San Paolo, 2007).
«Mentre in tutta Europa diminuisce il consumo delle “droghe
leggere”, l’Italia va in controtendenza e indossa la maglia nera
– dice Risé -, un record negativo che è, purtroppo, strettamente
connesso alle lacune sul fronte dell’informazione». [Leggi
tutta l'intervista - clicca qui]
L’amore imperfetto
Dove nasce l’attuale disorientamento della famiglia e dei
suoi membri
(Di Claudio Risé, da “L’Osservatore Romano”, 14
luglio 2013,
www.osservatoreromano.va)
Si moltiplicano le riflessioni orali e scritte su
l’amore imperfetto. Il recentissimo seminario della Pontificia
Commissione per la Famiglia su L’amore imperfetto. La madre
e il padre nell’educazione dei figli, così come i recenti
libri della psicologa Grazia Attili, (L’amore imperfetto.
Perché i genitori non sono sempre come li vorremmo. Il
Mulino), o quelli della neuropsichiatra Mariolina Ceriotti (La
coppia imperfetta, La famiglia imperfetta. Ares),
accettano di lasciarsi provocare dall’ imperfezione dell’amore.
Sia quello che abbiamo ricevuto che quello che siamo chiamati a
dare, in particolare nei rapporti tra generazioni e nel processo
educativo di cui proprio l’amore è indispensabile veicolo.
Questi lavori si impegnano a rispondere alla forte domanda
d’amore, insoddisfatta da modelli culturali sterili e
utilitaristici oggi proposti in modo sempre più pervasivo. Ciò
richiede però di andare oltre l’analisi della scena familiare.
L’attuale disorientamento della famiglia e dei suoi membri,
infatti, non nasce solo al suo interno. Così il suo superamento
non è ottenibile solo con una dettagliata descrizione delle
dinamiche familiari. Esse rimandano sempre, infatti, ad una
ferita più profonda, più ampia. Il malessere della modernità è
di natura antropologica.
Oggi è in questione lo stesso statuto dell’uomo nelle sue
caratteristiche fondamentali: per esempio se sia una creatura
oppure (come viene sempre più spesso descritto) un creatore, se
sia un soggetto dotato di libertà o un oggetto prodotto e
continuamente aggiornabile e manipolabile dalle tecnoscienze.
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Per la scienza non ci sono “droghe leggere”, solo
l’Italia resta nella disinformazione
(Intervista a Claudio Risé, di Rodolfo Casadei, da
“Tempi”, 27 marzo 2013,
www.tempi.it)
Claudio Risé, psicanalista junghiano, è autore di
Cannabis. Come perdere la testa e a volte la vita
(San Paolo, 2007). A lui ci siamo rivolti per commentare la
rinnovata penetrazione delle tendenze antiproibizioniste in
Italia e negli Stati Uniti in relazione alle cosiddette “droghe
leggere”.
Professore, stando al codice di comportamento dei suoi
deputati, il Movimento 5 Stelle dovrebbe presentare una proposta
di legge dal titolo “Legalizziamo, tassiamo, e (con i suoi
proventi) disincentiviamo l’uso e la vendita delle droghe!”,
inteso da molti come un via libera alle droghe cosiddette
“leggere”. Cosa ne pensa?
L’espressione “droghe leggere” non ha alcun significato
scientifico da almeno dieci anni.
La cannabis non lo è, lo ha spiegato a più riprese l’Istituto
superiore di Sanità nei suoi documenti.
Preoccupazione per la sua diffusione esprimono puntualmente
l’Oms (Organizzazione mondiale della sanità) e l’Osservatorio
europeo delle droghe e delle tossicodipendenze, che a proposito
dell’Italia propone dati allarmanti: il nostro paese fra il 2001
e il 2008 ha registrato il massimo incremento di consumatori in
Europa, passando dal 9,2 al 20,3 per cento nelle persone fra i
15 e i 34 anni.
I costi sociali di ciò sono altissimi e colpiscono le fasce più
deboli della popolazione.
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Quando comincia la paternità
18 marzo 2013 (A cura della
Redazione)
L’Ass. cristiana The Radiance Foundation,
Virginia, Usa: venti cartelli stradali, centinaia di manifesti
su muri e bus, contro la crisi della paternità e per invitare i
padri ad amare i figli combattendo l’aborto.
Se cliccate qui sotto trovate articolo e foto del cartello
stradale:
http://www.echristiannews.com/new-billboard-campaign-exposes-how-abortion-takes-the-place-of-fathers
L’Anima potente sta ai margini. (Quella debole
si mostra).
14 marzo 2013 Psiche Lui:
viaggio nell’Anima, di Claudio Risé e gli amici del blog
Ciao Claudio, volevo parlare con te/voi dell’”anima che
abita ai margini”. Nel film di Bergman Sussurri e Grida (ad
esempio), la serva Anna, colpita dal lutto e dalla morte, non
viene distrutta da questo, ma diventa la guaritrice che scioglie
l’angoscia. Chi è portatore di questa funzione salvifica non
ottiene però un riconoscimento sociale, ma viene confermato come
marginale: Anna la licenziano subito dopo. Significa che il
“servizio dell’anima” è per forza una condizione di
marginalità…(“Ecce Ancilla Domini”…) ? Certe sfumature preziose
nelle relazioni con le persone in difficoltà con cui lavoro non
hanno senso e visibilità sul piano sociale, dove invece sono
privilegiate modalità più esteriori…Come se questa marginalità,
mistero, silenzio, fosse malattia ed anche possibilità di
guarigione, di sé e degli altri. Ma solo se tenuta a distanza
dalla folla, riconoscimento, pubblicità. Che ne pensi? Ciao
Rebecca
Ciao Rebecca, l’Anima che trasforma abita sempre ai margini, è
dentro e non fuori. Non solo nelle persone, anche nelle cose
(cavi, bottoni, strumenti) l’”anima” è quella che è dentro. Non
si vede. [continua
a leggere su Psiche Lui]
Quei bambini in rivolta contro i rumori
Claudio Risé, da “Il Mattino di Napoli” del lunedì, 25
febbraio 2013,
www.ilmattino.it
È un popolo silenzioso, che vive con noi, ma di rado ci parla, e
poco ci ascolta. Sono i nostri bambini autistici. Uno su cento è
così, ma il loro numero è in aumento: in Occidente raddoppia
ogni sei anni. Anche perché lo “spettro autistico”, il campo di
questi disturbi, si allarga sempre di più.
In generale, gli autistici sono quelli che non giocano il nostro
gioco. Nel mondo della “comunicazione” e delle chiacchiere, loro
tacciono. E sono loro a decidere cosa ascoltare, cosa guardare.
In un mondo sempre più uguale e uniforme, sono i diversi per
eccellenza.
Il loro codice genetico è soggetto a cambiamenti assenti nelle
altre persone. Le loro aree cerebrali presentano diversità da
quelle degli altri, ed anche molto variate da loro. Sono un vero
rompicapo per la scienza, perché la diagnosi di cosa non va è in
loro molto diversa da persona a persona. E’ certo però che sono
nella stragrande maggioranza maschi: 8 a 1.
Non facili da trattare, come racconta ora Gianluca Nicoletti,
nel libro dove descrive la sua tenera e competente esperienza di
padre di un bimbo autistico (Una notte ho sognato che parlavi).
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La crisi del padre e l’indebolimento
del matrimonio
Claudio Risé, da “Il Mattino di Napoli” del lunedì, 18
febbraio 2013,
www.ilmattino.it
L’estinzione dei padri è ormai nei nostri media un genere comico
di successo. Non così altrove: «Dobbiamo fare di più per
incoraggiare la paternità. Ciò che fa di te un uomo non è la
capacità di generare un figlio. È il coraggio di crescerlo.
Famiglie forti creano comunità forti». Quindi uno Stato forte.
Chi l’ha detto? Benedetto XVI prima di dimettersi? Un
conservatore impenitente?
Il presidente degli Stati Uniti, Obama, nel primo discorso sullo
“Stato dell’Unione” dopo la rielezione.
Sono ora disponibili le prime reazioni della galassia di
associazioni e istituzioni che si occupano negli USA di
paternità, famiglia e educazione. Tutte piuttosto soddisfatte di
come l’icona mondiale dell’opinione democratica abbia insistito
sul ruolo centrale che il padre occupa in ogni strategia di
rafforzamento dello Stato e ricordato come il suo indebolimento
sia stato invece determinante nel rendere più fragile l’America.
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Maschi e femmine a scuola
Claudio Risé, da “Il Mattino di Napoli” del lunedì, 11
febbraio 2013,
www.ilmattino.it
Genitori, insegnanti, opinionisti, tutti in Italia e altrove
sono preoccupati per i ragazzi. Vanno male a scuola, non stanno
attenti, sono scarsamente interessati a quasi tutto. Insomma un
disastro. E’ tutto (New York Times compreso) un chiedersi come
mai questo accade, e un accettare scommesse sulla prossima
estinzione del maschio. Qual è dunque la realtà?
Cominciamo col dire che è tutto vero: i maschi (e non solo i
ragazzi), sono in un mare di guai. Quali le cause, per i più
giovani?
Cominciamo dalla scuola, dove la questione è ben visibile, con
le ragazzine studiosette e i maschi disperati. Come mai? Beh,
l’attuale impostazione didattica, preoccupata dall’eguaglianza,
ha dimenticato che i maschi e le femmine, dai 13 anni ai 18,
sono completamente diversi. Per esempio (non è cosa da poco) le
ragazzine sono già quasi perfettamente a posto con lo sviluppo.
Mentre i maschi stanno appena cominciando a capire come
sopravvivere ai bombardamenti ormonali che da lì alla maggiore
età assorbiranno gran parte delle loro energie e della loro
attenzione, anche se cercheranno di non farlo capire.
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Come uscire dalla solitudine
Claudio Risé, da “Il Mattino di Napoli” del lunedì, 4
febbraio 2013,
www.ilmattino.it
La sofferenza più diffusa oggi? La solitudine. Un disagio che ne
crea molti altri, anche gravi. Spesso comincia presto, anche
prima di nascere, dalla faticosa ricerca di uno scambio armonico
tra madre e figlio.
Oggi i bambini affetti da disturbi della comunicazione (dalle
dislessie all’autismo), sono sempre più numerosi. Sono, o si
sono sentiti, soli. Sono bimbi sensibili, e il loro disturbo è
la metafora della malattia del tempo: solitudine e difficoltà a
comunicare ciò che si sente.
Le cronache lo ricordano in continuazione: dalle vite difficili
di molte star, a quella perdute delle cronache quotidiane di
giovani o vecchi trovati abbandonati in fondo a un cortile, o in
un appartamento chiuso. O il professionista famoso che si tira
un colpo nel suo super studio, in pieno centro.
La solitudine è la grande sfida con la quale si deve confrontare
l’uomo oggi. Da dove nasce? Il fatto è che l’uomo è un essere
sociale, vive e si sviluppa comunicando con gli altri. Per
comunicare, però, ha bisogno di appartenere a qualcosa in cui si
possa riconoscere. Un territorio, una comunità, un gruppo. E una
famiglia. Nel giro di pochi decenni molte di queste cose si sono
squagliate, o quasi. I territori sono esplosi sotto sviluppi
enormi, o si sono svuotati per l’abbandono dei loro tradizionali
abitanti.
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Le App. dell’oblio
Claudio Risé, da “Il Mattino di Napoli” del lunedì, 28
gennaio 2013,
www.ilmattino.it
Non possiamo ricordare tutto. Anche la capacità di conservare
ciò che non può essere dimenticato, si rafforza cancellando
ricordi inutili. Dimenticare però fu impossibile da Internet in
poi. Da allora la registrazione dei particolari anche secondari
o sciocchi della vita di tutti si trasformò in una delle
maggiori attività della rete. All’inizio fu bello; ma dopo
l’euforia di ritrovare sempre le proprie immagini e storie
cominciò il panico.
Integerrime docenti universitarie si trovarono improvvisamente
senza lavoro per via di vecchie foto che le ritraevano un po’
troppo scollate e allegramente brindanti. Manager impeccabili si
rivelarono amici di personaggi discutibili, segnando la fine
della loro carriera.
I messaggi dei social network cominciarono ad essere seguiti da
avvocati divorzisti in cerca di prove imbarazzanti, con
conseguenze disastrose nella vita di chi li aveva mandati.
Fidanzati e mariti cominciarono a cercare su siti erotici tracce
fotografiche delle loro amate (a volte trovandole).
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Psicologia delle tribù. Danni e vantaggi
Claudio Risé, da “Il Mattino di Napoli” del lunedì, 21
gennaio 2013,
www.ilmattino.it
“L’Italia è un insieme di tribù”, ha dichiarato il Presidente
del Consiglio Mario Monti. A dirlo è una persona che da più di
un anno governa il Paese, ed ha ottimi elementi per parlarne.
Che significa, però, in concreto, che l’Italia è un “insieme di
tribù”? E siamo sicuri che sia davvero un guaio?
Dieci anni fa fece scalpore il testo “Il tempo delle tribù”,
dove il sociologo francese Michel Maffesoli sosteneva che
proprio da loro nasceva la vitalità psicologica dei tempi
postmoderni.
Le tribù, i clan, le corporazioni, gli interessi locali e
particolari esprimono storie e psicologie differenti, tra le
quali mediare. Però portano anche alla luce punti di vista,
interessi, risorse che non verrebbero notati se non
rappresentati nella scena politica.
L’Italia, contro 150 anni di Stato unitario, ha una storia più
antica nella quale è stata presente nel mondo proprio con le sue
vitalissime tribù: le città marinare, quelle mercantili, le
corporazioni artigianali, le sue associazioni bancarie, e molte
altre. Serve una sintesi tra questa storia italiana “tribale”, e
lo Stato moderno presente sulla scena globale.
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I bambini non sono oggetti, ma titolari
di diritti
(Intervista a Claudio Risé, di Andrea Gagliarducci, da
“La Sicilia”, 15 gennaio 2013,
www.lasicilia.it)
Non è detto che l’impostazione che apre ai matrimoni gay e
alle adozioni dalle coppie omosessuali alla fine prevalga
«L’impressione è che la biopolitica segua le orme della
vecchia politica: ideologizzare i comportamenti umani in modo da
farne piattaforme per i poteri politici e burocrazie
specializzate».
Claudio Risé è psicoterapeuta e scrittore. Ai problemi della
genitorialità ha dedicato un libro già pubblicato (“Il
padre, l’assente inaccettabile”, San Paolo editore) e uno in
stampa (“Padre Libertà Dono”, Ares edizioni).
Ha seguito con interesse la Manif pour tous, la manifestazione
indetta in Francia (ma erano moltissimi a manifestare nel mondo
davanti le ambasciate francesi, 500 solo a Roma) in difesa della
famiglia naturale composta da un uomo e una donna, della
filiazione naturale e del diritto del bambino di essere allevato
da un padre e da una madre.
Un’opposizione pacifica al progetto di legge Mariage pour tous
francese, che apre ai matrimoni omosessuali e anche alle
adozioni per le coppie gay. Un’impostazione che sembra prendere
sempre più piede nel mondo. Ma – spiega Risé – «non è detto che
questa impostazione prevalga. La manifestazione francese ha
dimostrato un’ostilità al progetto di legge che né il governo né
i media si aspettavano. Anche alcuni gruppi omosessuali sono
ostili al “matrimonio”, e infatti hanno aderito con una
percentuale assai bassa anche al già esistente Pacs (Patto di
solidarietà sociale). Questo era stato istituito dai politici
anche in nome di “esigenze degli omosessuali”, che forse però
loro non condividono.
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Stato e vita privata. Una convivenza difficile
Claudio Risé, da “Il Mattino di Napoli” del lunedì, 14
gennaio 2013,
www.ilmattino.it
Quando lo Stato fatica a tenere i conti a posto, mette il naso
nella vita privata dei sudditi, cercando nuovi spazi al proprio
potere, e nuove categorie e tipi di “sudditi” da fidelizzare con
apposite norme. Il filosofo Michel Foucault la chiamava “biopolitica”:
quella che investiga e regola sessualità, natalità, stili di
vita, alla ricerca di elettori e potere. Servono però
precauzioni. Spesso, infatti, lo Stato o i suoi organi sanno
poco di queste materie, estranee alle loro mansioni.
Il rischio è quello di seguire le indicazioni di consiglieri
politici più interessati alla propria influenza personale che ad
ascoltare ciò che pensa la gente. Si suscitano così reazioni
scomposte, che disturbano la tranquillità e la vita privata
delle stesse categorie che si pretendono di proteggere. E’
quanto sta accadendo in Francia a proposito della legge sul
matrimonio omosessuale.
A quante persone serve questa legge? Agli omosessuali, che
parteciperanno alla manifestazione anti matrimonio di Parigi con
una loro associazione Plus gay sans le mariage (più
contenti senza il matrimonio), non è certo che interessi molto.
Sul milione di Pacs (Patto di solidarietà sociale), censiti nel
2010, le coppie omosessuali rappresentavano solo il 6%. Poiché
però gli omosessuali sono molto di più (sembra il 6% della
popolazione), forse non sono interessati al matrimonio.
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Il perdono
Claudio Risé, da “Il Mattino di Napoli” del lunedì, 7
gennaio 2013,
www.ilmattino.it
A inizio d’anno, e con la crisi, meglio pensare a come
economizzare non solo il denaro, ma anche le energie. Che vanno
usate bene e sfruttate fino in fondo. Attenzione quindi a non
sviluppare troppe energie negative, rabbia e risentimento,
perché tolgono risorse alle spinte positive, come gioia e voglia
di fare.
L’Università di San Diego, California, ha recentemente
riproposto per questo scopo un vecchio rimedio: il perdono. La
cui pratica sistematica ci risparmierebbe molti guai.
Che perdonare faccia bene, filosofia, religioni, e scienze
educative l’hanno sempre saputo, e a loro modo spiegato. La
psicoterapia però non ha finora granché potuto servirsi di tutta
questa saggezza perché la persona che chiede di essere curata si
sente più o meno “alla frutta”, ed è poco disponibile a discorsi
complessi e moraleggianti. Vuole stare meglio, ed è poco
disponibile a donare o perdonare niente e nessuno.
Non è un atteggiamento aperto e lungimirante, quello della
persona sofferente psichicamente, ma ha l’attenuante dello stato
di necessità: se non hai nulla (o così credi) non puoi neppure
donare granché.
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Viviamo senza paura le sfide del domani
Claudio Risé, da “Il Mattino di Napoli” del lunedì, 31
dicembre 2012,
www.ilmattino.it
Stasera il mondo entrerà nel 2013 con prudente cautela. Il
passaggio di San Silvestro ha due facce: l’anno che finisce, e
quello che comincia. A volte, l’attenzione è sul festeggiamento
della fine, a volte sul benvenuto a ciò che inizia. Questa
volta, non c’è dubbio che è il secondo che interessi di più:
dall’Italia, con le sue elezioni; agli Usa, col brivido del
«precipizio fiscale»; al mondo, ansioso di uscire dalla crisi.
Quanto al vecchio anno, un sospiro di sollievo lo saluterà. E il
nuovo? Più che un anno che comincia, sembra un quiz da
decifrare. Per iniziarlo bene però, non bisogna «isolare» San
Silvestro dal periodo che lo ha preceduto, e da quello che lo
seguirà fino all’Epifania, con la sua Comare secca da bruciare.
Tutto il periodo che segue al Natale (ne abbiamo parlato una
settimana fa) rappresenta infatti una svolta nel ciclo del
tempo, nella natura e nella psiche individuale e collettiva. È
il Bambino la vera nascita del nuovo, dentro e fuori di noi, che
si svilupperà durante l’anno (e anche nei successivi).
A Capodanno, in realtà, c’è in giro ancora molta vecchia
mercanzia, dal vecchio pianeta Saturno, ai diavoli o gli
spiriti, come sanno bene i napoletani che li cacciano con i
botti. Fino appunto all’aspetto del femminile «vecchio», i cui
doni più o meno secchi segneranno all’Epifania la fine del ciclo
vegetativo precedente e l’inizio del nuovo.
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2012: Diario di Bordo
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La fine del mondo per ricominciare
Claudio Risé, da “Il Mattino di Napoli” del lunedì, 17
dicembre 2012,
www.ilmattino.it
Milioni di persone, nei vari continenti, sono convinte che il
mondo stia per finire. Preoccupati dalle manifestazioni di
panico, dagli spostamenti di masse in cerca di rifugi ed altre
manifestazioni imprevedibili, alcuni governi hanno diffuso
comunicati ufficiali spiegando perché il mondo non finirà. Così
ha fatto anche la NASA, agenzia spaziale americana, assicurando
che nel cosmo tutto è tranquillo.
Cosa significano, però, queste periodiche e collettive
convinzioni che tutto finisca?
Nel mondo prendono forma ciclicamente movimenti più o meno
estesi, impegnati a diffondere l’attesa della fine. Qualcuno ne
profitta per guadagnarci denaro o potere, magari come capo di
una setta; ma il grosso di queste masse è in buona fede, e
disinteressato. Come mai continuano a riproporsi aspettative di
una fine che viene poi sempre smentita?
Le risposte sono diverse. Secondo la psicoanalisi tutti sono più
o meno preoccupati della propria fine. Questi movimenti
sarebbero allora un modo di condividere quest’angoscia,
riferendola ad una fine collettiva. Al problema personale
verrebbe insomma dato un senso più ampio, coinvolgendovi il
resto del mondo.
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L’odio per la vita dei nuovi Erode
Claudio Risé, da “Il Messaggero”, 15 dicembre 2012,
www.ilmessaggero.it
Ancora una strage di follia, ancora tanti morti. In maggioranza
bambini. Teatro del massacro: una scuola, a conferma che era
proprio quella, la nuova vita che cresceva, l’obiettivo della
strage. Gli adulti, il preside, lo psicologo, gli altri che si
sono messi di mezzo, erano probabilmente intralci rispetto
all’obiettivo principale: i bimbi. E’ solo l’ultimo scoppio di
un cattivo sentimento fin troppo diffuso: l’odio per la nuova
vita.
Non è una novità assoluta della modernità. Si tratta di quel
funesto “complesso di Erode” che già da prima del Re biblico ha
procurato nella storia del mondo diverse “stragi degli
innocenti”, massacri di bambini falciati da adulti terrorizzati
(come quel Re) dal timore della propria morte, e dall’ossessione
del proprio potere, reale o immaginario.
Certo, questo odio per la vita diventa più forte quando – come
accade appunto oggi – il cambiamento si intensifica, e cresce la
spinta a rinnovarsi, a riconoscere il proprio bisogno di
crescere, di cambiare, di imparare nuove cose. Quando i deboli,
che vorrebbero invece essere forti, si sentono sfidati
dall’incalzare del tempo, del cambiamento, del necessario
rinnovamento.
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Il Dio dei sensi
(Claudio Risé a Paolo Rodari. Il Foglio, sabato 15
dicembre 2012,
www.ilfoglio.it)
Spiega lo psicoterapeuta Claudio Risé che “la
psicologia moderna, che si crede pratica e utilitaria, è poco
abituata a vedere la trascendenza nei rapporti sessuali. Con
l’eccezione del pensiero junghiano, che ha individuato il
transpersonale “inconscio collettivo”, coi suoi Archetipi
invarianti nel tempo, la relazione tra sessualità e trascendenza
più che in psicologia è studiata principalmente nella storia
delle religioni e dalla filosofia. E’ su questi terreni che
vengono esplorati i sensi come strumenti per rompere la
chiusura dell’Io e arrivare all’altra persona, e di lì
all’Altro, infinito.
Il cristianesimo esplicita tutto ciò con la sua particolare
passione per l’Incarnazione. E’ la scandalosa religione in cui
Dio prende il corpo di un uomo, muore e rinasce con quello. Se
l’essere umano, col suo corpo, è immagine e somiglianza di Dio,
amarlo e desiderarlo è un’esperienza sensata e religiosa, mentre
il disprezzarlo è irrazionale e blasfemo.
Anche nella mistica cristiana il corpo è importante. “La
bellezza seduce la carne per arrivare all’anima” dice Simone
Weil. L’esperienza religiosa è l’incontro con l’amante-Gesù, sia
che a cercarlo sia una delle molte mistiche che l’hanno trovato,
sia che sia Giovanni della Croce, in vesti femminili. Ma
l’incontro corpo-trascendenza c’è anche in altre religioni, ad
esempio nel buddismo tibetano (che si avvale di tutta
l’esperienza tantrica), dove i sensi sono un campo illimitato di
percezioni che attraverso le esperienze della vita quotidiana
ci permettono di comunicare col trascendente”.
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Intervista a Paola Bonzi, del CAV Clinica
Mangiagalli di Milano
A cura dell’Associazione
Maschi
Selvatici, 15 dicembre 2012
Fondato nel 1984, per volontà di Paola Marozzi Bonzi, il Centro
di Aiuto alla Vita “Mangiagalli” ha salvato più di 11 mila
bambini che sarebbero stati uccisi con l’aborto. Lo
ripetiamo: 11 mila bambini! Che si aggiungono alle donne
e alle coppie guidate, con premura e attenzione, verso strade
diverse da quelle proposte dal mondo incapace di dono in cui
viviamo. Paola Marozzi Bonzi ha raccontato la splendida
avventura del Centro nel suo libro Oggi è nata una mamma.
Storie e sfide del Centro di aiuto alla Vita Mangiagalli
(San Paolo Ed.). Abbiamo intervistato la fondatrice Paola
Marozzi Bonzi per sapere cosa ha da dire agli uomini su
questo argomento:
Signora Paola, noi siamo un’associazione maschile che da anni
riflette sulla relazione tra l’uomo-padre e la vita concepita.
Dal punto di vista del suo osservatorio cosa si sente di dire
agli uomini che si trovano davanti alla gravidanza della loro
donna?
Come sempre non si può fare di ogni erba un fascio:
- Agli uomini presenti nella vita della donna, bisogna
dare la consapevolezza del proprio ruolo; infatti spesso si
sentono tagliati fuori e vivono la gestazione del loro figlio
come spettatori.
- Serve invece che l’uomo faccia da “contenitore” della
donna che a sua volta fa da contenitore al loro bambino. Ciò
procura nella madre una regressione allo stato di “figlia” che
ha bisogno di gesti affettuosi, di rassicurazioni, di sentirsi
comunque desiderata nonostante i cambiamenti corporei a volte
importanti, di progettualità comune, di condivisione anche dei
piccoli eventi.
- Altri uomini tendono a lasciare
la donna che sta per diventare madre, da sola, dicendo “sono
affari tuoi” e ciò avviene anche per l’accettazione o meno della
gravidanza.
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Inverno demografico e crisi economica
Claudio Risé, da “Il Mattino di Napoli” del lunedì, 10
dicembre 2012,
www.ilmattino.it
L’Europa, con l’Italia in buona posizione, ha in questi anni tre
primati che fanno pensare: il maggior sviluppo di patologie
psichiatriche; la crisi economica più persistente; il tasso di
natalità più basso nel mondo, solo 1,47 figli per donna. Per
avere una popolazione almeno stabile ne occorrerebbero 2,1.
Che ci sia un nesso tra questi tre primati? Se ne parla poco, ma
è molto probabile. I rapporti fra sviluppo economico e
demografico, e tra invecchiamento e demenza, sono noti.
Chi lavora con l’inconscio sa che la comparsa dei bambini nei
sogni annuncia sempre l’arrivo di nuove energie, la possibilità
di reagire alle spinte depressive, a stanchezze e pessimismo. Il
perché non è poi difficile da capire: il bambino significa nuova
vita, nuova forza vitale, e così è visto in tutte le culture.
In quella cristiana dove l’arrivo del bambino Gesù, attorno al
solstizio d’inverno (fra poco), segna l’inizio nascosto del
rinnovamento. Ma anche, ad esempio, nella cultura Maya (se ne
parla oggi a proposito delle sue previsioni di “fine del
mondo”), che nel momento del suo fulgore adorava un dio
fanciullo e buono, Xochipilli, sostituito poi con una figura
tenebrosa e crudele. Cominciarono allora a moltiplicarsi i
sacrifici di bambini al dio Sole, e quella civiltà si avviò alla
decadenza e alla scomparsa.
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Diciamo addio all’era dei bamboccioni
Claudio Risé, da “Il Mattino di Napoli” del lunedì, 3
dicembre 2012,
www.ilmattino.it
Cosa si aspettano i nostri (troppo pochi) giovani? Capirlo
potrebbe aiutare il Paese ad uscire dallo stallo e malessere in
cui si trova.
Chi, come genitori, educatori, terapeuti, è a contatto coi più
giovani, può individuare con una certa chiarezza alcuni elementi
comuni, presenti fra di loro e piuttosto nuovi rispetto alla
generazione precedente. Uno è il rifiuto di ogni atteggiamento
paternalista da parte dei “grandi”. Questi ragazzi si
considerano persone, e sanno cosa ciò significa.
C’è – spesso – la consapevolezza di non sapere molte cose, e a
volte la curiosità di conoscerle. Ma ancora più forte è la
coscienza della propria dignità.
Dal punto di vista psicologico, la loro situazione è diversa da
chi li ha preceduti 10 o vent’anni fa. Questi oscillano meno
spesso tra depressione e trasgressione, i due poli degli
adolescenti a cavallo del millennio. In compenso sono piuttosto
stabilmente “arrabbiati”, in modo meno isterico ma più costante.
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Disubbidisce al giudice, padre assolto
‘per amore’
Separazioni, sentenza
rivoluzionaria a Firenze
Firenze, 20 nov. 2012 –
(Adnkronos/Catola&Partners/Quotidiano.net) – Condannato
dopo la separazione a vedere la figlia per non più di tre ore
infrasettimanali e successivamente processato per aver più volte
ritardato a riportarla alla madre, un trentottenne
professionista fiorentino è stato assolto in primo grado dal
tribunale di Firenze perché il fatto non costituisce reato.
La sentenza è di alcuni giorni fa, ma ne danno notizia oggi
Fabio Barzagli, presidente del network internazionale
Paternita.info, e Marino Maglietta, presidente
dell’associazione Crescere Insieme, cui si deve il
disegno di legge 54/2006 sull’affido condiviso.
“Sentenza rivoluzionaria”, esulta Maglietta. “Vittoria della
ragionevolezza”, aggiunge l’avvocato Elisabetta Bavasso,
difensore dell’imputato. “Un ottimo provvedimento pilota”,
commenta Giancarlo Ragone, in Italia il primo consigliere
comunale (comune di Bari) incaricato di promuovere la
Bigenitorialità.
Si tratta in ogni caso di una sentenza innovativa, che prelude a
una giurisprudenza più attenta alle aspettative dei genitori
svantaggiati nella frequentazione dei figli (quasi sempre i
padri), sollecitando implicitamente norme più equilibrate.
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Morte e resurrezione del maschio
Claudio Risé, da “Il Mattino di Napoli” del lunedì, 19
novembre 2012,
www.ilmattino.it
E’ davvero la fine del maschio? Probabilmente no, ma ci sono
segni di cambiamento importanti. Per esempio nelle cliniche in
giro per il mondo che applicano metodi per selezionare tra
spermatozoi “maschili” e “femminili”, i genitori chiedono ormai
in prevalenza femmine (negli USA nel 75% dei casi).
Sempre negli USA i tre quarti dei posti persi dall’inizio della
crisi erano di uomini, e riguardavano settori “pesanti”,
maschili. E le donne sono in testa ai diplomi universitari
meglio pagati.
Inutile dire che le femmine, all’università (ma anche molto
prima) hanno voti migliori dei maschi. In molte professioni,
dalla ricerca alla finanza, le donne si fanno strada con più
forza, e nei Paesi più industrializzati ormai il livello di
occupazione è uguale per maschi e femmine.
Certo, il cambiamento è più impressionante negli Stati Uniti
dove l’immagine del pioniere-cowboy, che letteralmente “apriva
la strada” alla famiglia, appartiene all’inconscio collettivo.
Però il fenomeno è visibile dovunque, anche nei paesi del
centro-nord Europa o di nuova industrializzazione, come la
Corea.
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Le amare passioni dei potenti
Claudio Risé, da “Il Mattino di Napoli” del lunedì, 12
novembre 2012,
www.ilmattino.it
L’uomo e la donna moderni sono di rado all’altezza della loro
grandezza, intelligenza, forza fisica, ricchezza e generosità.
L’amara vicenda di due famosi primi della classe globale, il
generale David Petraeus, attuale capo della Cia e vincitore del
conflitto irakeno, e della sua amica Paula Broadwell, laureata a
West Point e a Harvard, atleta, scrittrice e altre cose
eccellenti, lo dimostra.
Il fatto è che i famosi di oggi sanno meno sull’amore di quanto
l’Occidente ha sempre saputo.
Non solo Dante ed i poeti dell’amor cortese hanno
esaltato la capacità dell’amore tra uomo e donna di riempire uno
spazio emotivo assai ampio, che andava dalla tenerezza e
condivisione dell’amore coniugale all’intensa partecipazione
affettiva delle altre numerose e forti forme della passione. Il
trovatore cantava all’amata lontana: la distanza, accettata, lo
rendeva capace di amare più intensamente, in modo elevato.
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Il ritorno dei sogni
Claudio Risé, da “Il Mattino di Napoli” del lunedì, 5
novembre 2012,
www.ilmattino.it
I sondaggi si moltiplicano, e si può capire. Ai politici,
industriali, commercianti, interessano le opinioni e le
intenzioni delle persone. Chi voteranno, cosa compreranno, dove
andranno.
Su una cosa, però, i sondaggi tacciono: i sogni. Quelli gli
intervistatori non li chiedono, né (forse) glieli direbbero.
Eppure sono importanti. Non solo perché c’entrano coi voti e con
gli acquisti. Ma perché (come appare lavorando con la psiche) le
persone, specie giovani, ricominciano a sognare.
E’ assai probabile che pezzi di questi sogni stiano contribuendo
ai sommovimenti in atto nella vita pubblica, non solo italiana.
Anche le elezioni di domani, in America, rispetto a competizioni
del passato, più fredde e ragionate, hanno (ad esempio) un forte
aspetto di sogno: quello dei diritti civili del candidato nero,
Obama, e quello dei doveri per tutti del candidato mormone,
Romney. Per entrambi, certo, sono in ballo anche affari e
potere, ma è sulla forza del sogno e la capacità di comunicarlo
che vinceranno, o perderanno.
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Servono grandi amori
Claudio Risé, da “Il
Mattino di Napoli” del lunedì, 29 ottobre 2012,
www.ilmattino.it
Forse, prima e più dell’economia, è malato l’amore. O meglio la
nostra capacità di innamorarci, di appassionarci all’altro.
E’ noto (e stradimostrato) come l’innamoramento dia nuove forze,
nuove energie e capacità di immaginare cose, prendere
iniziative. Oggi però ci si innamora sempre meno. Si
costituiscono meno coppie, si rompono più velocemente. Anche il
single, poi, non è felice, come sanno bene terapeuti e servizi
sociali. Tutto ciò crea depressione e ristagno (anche
economico).
In questo panorama desolato Francesco Alberoni, uno dei
sociologi italiani più noti nel mondo (i suoi libri sull’amore
sono stati tradotti in trenta lingue), lancia una proposta del
tutto controcorrente. Mentre la maggior parte (anche dei
terapeuti) convivono con le relazioni evaporate della società “liquida”,
Alberoni scrive un libro (che chiama senza esitazioni: “L’arte
di amare”), che è un inno, ragionato ma anche molto appassionato
al: “grande amore erotico che dura”.
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Quella sofferenza d’amore che uccide
Claudio Risé, da “Il Mattino di
Napoli” del lunedì, 22 ottobre 2012,
www.ilmattino.it
Carmela, la diciassettenne uccisa a Palermo mentre cercava di
difendere la sorella dal suo ex ragazzo, potrebbe aiutarci a
evitare che nei prossimi mesi ricominci l’insensata strage di
donne che ci ha accompagnato fino all’estate. Dietro questo
eccidio, infatti, non ci sono solo i problemi affettivi e
psichici degli assassini; c’è anche un buco culturale, un
deficit cognitivo che essi condividono con buona parte della
società. E che Carmela ha affrontato proprio nel suo ultimo
tema.
Nel componimento, commentando una ballata del poeta Petrarca sul
rifiuto ricevuto dall’amata Laura, Carmela nota con grande
precisione: “La sofferenza d’amore uccide le facoltà mentali”.
Una brava maestra, un grande poeta, e soprattutto la sua anima
sensibile hanno portato Carmela dritta al punto centrale della
tragedia di cui, di lì a poco, lei stessa sarà vittima: chi
soffre per amore, come chi è rifiutato, è già in una situazione
di grave disagio psichico. Ciò non diminuisce in nulla la sua
responsabilità, tuttavia l’ignoranza su contenuti e dinamiche di
questa condizione esistenziale ed affettiva non fa che renderla
più potenzialmente devastante.
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Pace per Leonardo, e tutti i bambini
Claudio
Risé, da “Il Mattino di Napoli” del lunedì, 15 ottobre 2012,
www.ilmattino.it
E’ bello che Leonardo, il
bimbo trascinato sull’asfalto davanti a scuola per trasferirlo
dalla madre al padre, dedichi alla madre un tema sull’ulivo, e
la sua qualità di albero della pace. Bello per lui, fresco
reduce dalla battaglia tra i genitori (con rispettive famiglie),
e segno di speranza per i milioni di persone che si sono
appassionati alla sua storia, specchio delle migliaia di bambini
che negli ultimi quarant’anni sono stati trascinati e travolti
nelle guerre tra i genitori.
E’ indispensabile che queste guerre tra madri e padri finiscano,
se non si vuole perpetuare nei figli e nella loro vita affettiva
i malesseri psicologici evidenti nella relazione tra i loro
genitori, contagiando con l’odio una società che non ha certo
bisogno di una “cura” così intossicante.
In questa pace deve impegnarsi direttamente lo Stato, che ha
finora trattato l’intera questione badando ai voti e alle
pressioni delle lobby, ma con distrazione verso quanto emergeva
dalla società. Nella quale la conflittualità tra gli ex genitori
ricadeva sull’equilibrio dei figli, sviluppando in loro i più
diversi disturbi psicologici, dalle depressioni ai disturbi
alimentari, alle patologie borderline, con i loro caratteristici
scompensi affettivi ed emotivi.
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Disorientamento sociale e malessere psichico
Claudio Risé, da “Il Mattino di
Napoli” del lunedì, 8 ottobre 2012,
www.ilmattino.it
C’è un aspetto nuovo nei malesseri che le persone presentano
allo psicologo negli ultimi mesi. Si tratta del
“disorientamento”, una sensazione di difficoltà nel muoversi
nell’ambiente abituale. E’ un sintomo noto da sempre alla
psichiatria, che lo tiene d’occhio come indicatore dello stato
di salute della persona.
Chi sta bene sa dove andare, oggi invece questo orientamento è
sostituito da sconcerto, che crea incertezza. E, non sapendo
bene dove andare, le persone preferiscono fermarsi.
A cosa è dovuto questo disorientamento collettivo, testimoniato
dalle persone in cura, ma anche, più banalmente, dai molti
sondaggi (come quelli elettorali) che presentano una società
sconcertata, priva di una direzione precisa, un programma più o
meno condiviso?
Il fatto è che la chiarezza del nostro orientamento psicologico
dipende anche da quanto ci riconosciamo nel mondo attorno a noi,
nella società in cui viviamo. La società è lo scenario umano in
cui è posta la “casa”, la vita quotidiana delle persone, è lo
sfondo dell’orizzonte ad esse familiare. Oggi, però, si stenta a
vedere nella società un ambiente sufficientemente affidabile, in
cui si possa vivere e crescere.
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La fiducia riparte da noi
Claudio Risé, da “Il Mattino di
Napoli” del lunedì, 1 ottobre 2012,
www.ilmattino.it
La patologia più diffusa oggi? La sfiducia. E non è solo il
frutto degli ultimi scandali, o della crisi. E’ qualcosa di
sotterraneo, che si sta sviluppando lentamente, da anni, non
solo in Italia. Sfiducia verso le autorità, lo Stato, i
superiori. Ma anche verso i genitori, i figli. E, soprattutto,
se stessi.
La corruzione è legata, nel profondo, anche a questo. Facciamo
molta fatica a pensarci onesti. Sarà ben difficile diventarlo
finché vediamo in questo modo noi stessi e gli altri.
Questa sfiducia porta con sé il pessimismo: se non mi fido di
nessuno, la vita diventa più difficile. Ed alimenta la paura, lo
stato emotivo in cui crescono ansia, e instabilità.
All’origine di siffatto scenario, che rende difficile superare
le crisi e risanare persone e nazioni c’è un sentimento preciso:
la sfiducia.
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Stare in famiglia non aiuta a crescere
Claudio Risé, da “Il Mattino di
Napoli” del lunedì, 24 settembre 2012,
www.ilmattino.it
Un italiano su tre resta nella casa materna. Tra loro c’è anche
un quarto della popolazione tra i 30 e i 40 anni, e quasi il 12%
delle persone tra i 45 e i 65 anni. I dati sono stati commentati
per lo più dal
punto di vista economico, sottolineando la positiva funzione di
ammortizzatore sociale della famiglia in tempo di crisi. Come
stanno però dal punto di vista psichico questi 30-40 a casa con
la mamma? E ancora: che effetto ha questo fenomeno sulla salute
e la vitalità del Paese?
Sono domande che occorre porsi, cercando risposte nei dati
disponibili da altri settori. Infatti, “ammortizzare” fatiche e
difficoltà individuali e di gruppo non è necessariamente il
miglior criterio per aiutare lo sviluppo psicologico, affettivo
e cognitivo delle persone: ogni educatore responsabile lo sa.
La mancanza di lavoro in loco, nelle poche centinaia di metri
che la maggior parte delle persone esaminate sembra disposta a
percorrere, non toglie il fatto che in altre città e regioni
risultino disponibili e offerti migliaia di posti per i quali
nessuno si presenta, sia perché non previsti nel modello
culturale familiare (e quindi non ci si è preparati a
svolgerli), sia perché “lontani”.
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Quando il cemento fa ammalare
Claudio Risé, da “Il Mattino di
Napoli” del lunedì, 17 settembre 2012,
www.ilmattino.it
Non è che il cemento faccia male, come vorrebbe una vulgata
“verde” un po’ sommaria. Serve a fare case, e altre cose
indispensabili. Però distruggere in 40 anni aree verdi grandi
come tre regioni per
coprirle di cemento, come è accaduto in Italia, fa di certo molto male.
Non solo all’economia o al paesaggio, ma al corpo: lo fa
ammalare. Nei paesi più sviluppati di noi (anche culturalmente),
è nota da tempo la sindrome da “deficit di natura”, oggi
all’origine dei malesseri psicofisici.
L’eccessiva cementificazione è innanzitutto causa di molteplici
forme di disagio e di comportamenti a rischio che giocano una
parte importante nell’attuale crisi. L’uso e il commercio di
droghe ad esempio, che è la seconda causa di ricoveri
ospedalieri con i connessi costi (in testa alle motivazioni di
omicidi, furti e attentati alla sicurezza delle persone), è
direttamente correlato alla diminuzione di aree verdi ed alla
perdita di qualsiasi rapporto con la vita dei campi e delle zone
boschive.
Non a caso le Comunità di recupero terapeutico più efficienti,
come quella di San Patrignano, si trovano in località agricole,
ed il lavoro coi prodotti della natura e con gli animali è uno
dei più potenti strumenti di ricostruzione di personalità prima
devastate dall’uso di droghe.
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Il cinema e l’attualità del senso religioso
Claudio Risé, da “Il Mattino di Napoli” del lunedì, 10
settembre 2012,
www.ilmattino.it
Da più di un secolo scienziati e saggi annunciano la scomparsa
delle religioni, relitti del passato o “illusioni” (così le
definiva Freud, fondatore della psicoanalisi). Intanto però le
religioni vecchie e nuove fanno sempre notizia, e interessano
molto. Ad esempio alla Mostra del cinema di Venezia un buon
numero di film era di argomento e sensibilità più o meno
religiosi, e tra essi il vincitore, il coreano Pietà con la sua
ripresentazione dello stato attuale della “Pietà” madre-figlio.
Il cinema, comunque, non è l’unica industria ad interessarsi
delle religioni. Esempio non irrilevante: anche le compagnie
aeree sono pronte a fornire voli per raggiungere i luoghi dove
si ritiene avvengano apparizioni o miracoli, come Lourdes o
Medjugorje (dove si può effettuare un pellegrinaggio in
giornata). Oppure le case editrici, impegnate a mettere in
catalogo ogni anno almeno un poliziesco goticheggiante, di
ambientazione vaticana, per alzare le tirature.
Insomma la religione è ancora tra noi, anche se in modi diversi
dalla predica media dei parroci italiani. La cui qualità
scadente è d’altra parte una delle più sicure prove (secondo
quanto ebbe a dichiarare l’attuale Papa, Benedetto XVI), della
presenza divina nel Cristianesimo, che altrimenti non avrebbe
potuto sopravvivervi.
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Come finirla col Principe azzurro
Claudio Risé, da “Il Mattino di
Napoli” del lunedì, 3 settembre 2012,
www.ilmattino.it
Qualcuno dirà che è solo un prodotto commerciale, consumistico,
e ci sarà anche del vero. Però ho l’impressione che in questa
nuova eroina femminile della Disney, Merida, la protagonista del
film Ribelle-The Brave in uscita nei prossimi giorni,
ci sia molta attualità, e tutt’altro che sciocca. Questa ragazza
che tende l’arco per colpire il bersaglio e dichiara: “sono
Merida e gareggerò per ottenere la mia mano”, centra infatti un
problema psicologico attualissimo, per donne e uomini.
Si tratta del fatto che “il principe azzurro”, l’immagine
fiabesca dell’uomo attorno al quale si erano organizzate fino a
ieri le fantasie sentimentali della donna dall’infanzia in poi,
ammesso che sia mai esistito, non c’è più. Chi lo aspetta perde
il suo tempo: non arriverà. Non solo perché si tratta di
un’immagine fiabesca, e non di un grande mito, di quelli che
descrivono le situazioni della vita umana di ogni tempo. Ma
perché è una fiaba dell’ottocento, un secolo fortemente
impegnato a tenere addormentate il più possibile, in attesa del
principe, le donne che cominciavano a scalpitare.
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Verità o ipocrisia
Claudio Risé, da “Il Mattino di
Napoli” del lunedì, 27 agosto 2012,
www.ilmattino.it
L’odierno glorificare la trasparenza universale non coprirà
un’ipocrisia degna dei tempi del puritanesimo più spinto? Le
foto del principe nudo, fatte dal cellulare di una escort avida
di dollari e pubblicate da giornali avidi di lettori, ricordano
le costose sedie davanti al palco dell’impiccagione: un modo per
soddisfare la morbosità a spese di trasgressori famosi.
In terapia del resto, l’ansia di scoprire l’intimità dell’altro
si accompagna alla riluttanza nel vedere se stessi. Anche perché
quando vediamo veramente chi siamo, diventa difficile non avere
compassione delle debolezze altrui.
Rifiutare invece di confrontarci con la nostra ombra ci riempie
di ansia, che cerchiamo di scaricare ispezionando accuratamente
il lato oscuro degli altri. Soprattutto se hanno la disgrazia di
essere famosi, magari anche ricchi, e quindi suscitano, assieme
all’invidia, i nostri lati peggiori. Tra i quali appunto
l’antica tendenza umana ad appassionarsi alle colpe altrui.
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Psicologia dei tempi di siccità
Claudio Risé, da “Il Mattino di
Napoli” del lunedì, 20 agosto 2012,
www.ilmattino.it
Sembra proprio che questo fine vacanze-rientro in città avvenga
nel segno del sole bollente e della siccità. Non solo in Italia,
come dimostrano le foto dell’ormai riarso granaio d’America, il
Midwest, e
di altre zone agricole.
Il problema non sarà solo economico, per l’aumento dei costi
alimentari. La presenza o assenza dell’acqua, infatti, ha degli
effetti psichici molto precisi. Ce lo ricorda il simbolo
dell’“acqua della vita” con l’immagine della fonte presente in
tutte le culture.
Senza acqua, ci racconta questo simbolo universale, la vita,
bisognosa di acqua sia per gli umani che per gli altri esseri
viventi (piante e animali), diventa difficile, faticosa.
Nei periodi più caldi aumentano, per esempio, i vari malesseri
psichici, come se la personalità facesse più fatica a mantenere
una posizione stabile ed equilibrata. Servirebbe ombra e fresco,
per mitigare gli attacchi dell’astro bollente; ma, appunto, se
vi è siccità è difficile trovare alberi e frescura.
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Disprezzo per l’impresa e
disoccupazione crescente
Claudio Risé, da “Il Mattino di
Napoli” del lunedì, 13 agosto 2012,
www.ilmattino.it
Nell’Italia della crisi e della disoccupazione crescente, molte
aziende non trovano risposte alle loro offerte di lavoro. Quei
posti, di solito (ma non solo) operai specializzati nella
meccanica fine e tecnici informatici sofisticati, corrispondono
spesso ai “sogni adolescenziali” che il trenta-quarantenne in
crisi racconta allo psicoterapeuta oggi, quando l’impiego scelto
perché più “sicuro” o “d’immagine” lo lascia a spasso. Come mai
quei ragazzi non seguirono le loro vocazioni?
Si tratta di una questione che questa rubrica segue con
attenzione, ed è ora confermata da un nuovo rapporto dell’Unione
delle Camere di commercio. Nelle sue pagine, ricche di dati e
statistiche, si mostra come molte aziende in Italia fatichino a
trovare le persone necessarie al loro sviluppo.
Perché, però, in Italia moltissimi giovani, malgrado le loro
diverse aspirazioni, finiscono con l’impegnarsi in professioni
inflazionate rispetto alle necessità di oggi, come la pletora di
avvocati (se ne occupa ora Severino), psicologi, ed altre
occupazioni a difficile impiego, trascurando invece le richieste
del mercato del lavoro?
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Violenza, pulsioni collettive ed ordine sociale
11 giugno 2012
Claudio Risé, da “Il Mattino di Napoli” del
lunedì, 11 giugno 2012,
www.ilmattino.it
Aumenta la voglia di non subire, di reagire alle difficoltà
anche con la violenza. Il sospetto assassino di Melissa che
dichiara (chissà se è vero) di aver messo l’esplosivo per
protestare contro lo Stato che non protegge i truffati come lui,
non è l’unico a pensare di farsi giustizia da solo. Idee del
genere compaiono sempre più spesso nei racconti delle persone in
difficoltà psicologica. Anche il dibattito nella società,
d’altra parte, diventa meno fermo nel condannare la violenza.
Diverse forme di “antipolitica” contestano spesso (magari in
nome della vera politica e dell’interesse pubblico) che la
violenza venga riservata allo Stato e ai suoi organi. Una
posizione sul tema è sviluppata nel veloce saggio «Dio è
violento», appena pubblicato dall’acuta filosofa femminista
Luisa Muraro, e accolto con attenzione dai media.
Muraro, persona impegnata e con molteplici collegamenti con la
realtà sociale osserva: ”C’è una violenza nelle cose e fra i
viventi che prelude a un ritorno della legge del più forte:
dobbiamo pensarci”. Dopo di che, però, propone: “Mi riprendo
l’intera responsabilità di me e della mia forza… e mi do la
licenza di usarla”.
Molti, inutile negarlo, la pensano come lei, come accade a volte
ai pamphlet scritti da chi ha il senso del proprio tempo.
Proprio questo, però, ci chiede di pensarci, di capire cosa
significa questa diffusa voglia di “riprendersi la
responsabilità di sé e della propria forza”.
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I grandi vecchi testimonial del futuro
5 giugno 2012
Claudio Risé, da “Il Mattino di Napoli” del
lunedì, 4 giugno 2012,
www.ilmattino.it
L’inconscio collettivo si stringe attorno alle figure di cui si
fida: Joseph Ratzinger, 85 anni, gode di un’attenzione globale;
Elisabetta II, 86, e Giorgio Napolitano, 87, sono i più amati
nei rispettivi paesi. Anche nelle famiglie e nell’economia i
vecchi ritrovano nuovo prestigio (e potere), dopo che la crisi
ha spazzato via molte ricette e stili di azione degli ultimi
anni. Come mai, mentre avanza il nuovo millennio, sono
soprattutto i vecchi a suscitare affetto, stima, affidamento?
Per chi, come lo psicologo, ascolta la vita delle persone, non è
difficile capire il perché di quest’attenzione. La cultura e gli
stili di vita degli ultimi decenni sono stati del tutto
indifferenti al passato e centrati invece sul presente.
Negli anni della ricchezza e dello sviluppo dell’informazione
globale si è creduto che la vita fosse solo ciò che accadeva in
quel momento, che ciò che era stato fatto prima non avesse
nessuna importanza.
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Corvi ed inquietudine dei credenti
29 maggio 2012
Claudio Risé, da “Il Mattino di Napoli” del
lunedì, 28 maggio 2012,
www.ilmattino.it
Come reagisce il vasto e multiforme popolo cattolico allo
svolazzare di corvi sui documenti riservati del Papa, ai
periodici licenziamenti dei banchieri vaticani, all’inquietante
ritrovamento all’interno delle Basiliche di tombe con resti
imprevisti e assai sconcertanti? Nei colloqui di questi giorni
con lo psicoterapeuta emerge subito la curiosità e lo sconcerto.
Che non diventa gossip, ma si rivela invece materiale prezioso
per la ricerca e la trasformazione psicologica personale.
La Chiesa è infatti per i cattolici, in modo più o meno chiaro,
un’immagine del bene. Il cattolico la vorrebbe pulita,
accogliente, perfetta. Come del resto vorrebbe essere anche lui
(almeno quando si mette in discussione, andando in terapia):
bravo, affidabile, apprezzato dagli altri e tranquillo dentro di
sé. Ed è proprio sul volersi in un modo, e essere in un altro,
voler essere impeccabili, ed essere molto discutibili (il volere
le cose buone, e fare quelle cattive lamentato da San Paolo),
che si organizza ogni nevrosi, con relativi malesseri e
potenziali scissioni della personalità.
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Divorzi, si litiga di meno
22 maggio 2012
Claudio Risé, da “Il Mattino di Napoli” del
lunedì, 21 maggio 2012,
www.ilmattino.it
Una buona notizia, di gran peso, dal fronte famiglia. Finalmente
sembra che gli italiani comincino ad essere stufi dei divorzi
guerreggiati, dove l’altro è il nemico, e i bambini (in nome
loro si combattono le battaglie più cruente) le fatali vittime.
Dopo oltre 40 anni di questa musica, che ha bruciato una buona
quantità di reddito nazionale e rovinato la vita a decine di
migliaia di persone, si incomincia a cambiare spartito.
Si fa sempre più strada il “diritto collaborativo”. Di che si
tratta? Di una pratica piuttosto nuova, anche se negli Stati
Uniti esiste da anni: la separazione-divorzio riguarda entrambi
i coniugi, regola alcuni loro rapporti per il resto della vita,
e quindi i due devono procedere di comune accordo (anche se non
è semplice).
Ad esempio non va bene il bambino che per salomonica (nel
migliore dei casi) sentenza viene tagliato in due (in
proporzioni diverse), e diviso tra un genitore e l’altro: crea
scissioni gravi nel bambino, e sviluppa nei genitori nevrosi e
squilibri, più preoccupanti di quanto essi credano.
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Lettera Carron / Risé: la lotta tra la luce della
grazia e l’oscurità della pesantezza
16 maggio 2012
(Di Claudio Risé, da “Il Sussidiario”, 16 maggio
2012,
www.ilsussidiario.net)
Don Julian Carron, con la sua lettera a Repubblica, ha
ripetuto, e quindi proposto a chi la leggeva, il gesto
introduttivo alla meditazione cristiana e al Mistero della
Messa: Signore pietà.
Atto sorprendente in un’epoca e un costume in cui l’esibizione
di forza e irreprensibilità ( come di tutto ciò che cattura lo
sguardo altrui: bellezza, sfrenatezza, successo), è esercizio e
quasi dovere quotidiano, all’interno di quel culto dell’immagine
ansiosamente praticato dai più (e, per quel che ho capito,
presente anche tra le accuse mosse nella campagna politica
contro il Presidente della Lombardia, Roberto Formigoni e
Comunione e Liberazione). [continua
a leggere su
ilsussidiario.net]
Ritroviamo un linguaggio comune
15 maggio 2012
Claudio Risé, da “Il Mattino di Napoli” del lunedì, 14 maggio
2012,
www.ilmattino.it
Bisogna parlarsi. Se non vogliamo che i bagliori degli incendi
greci ci raggiungano, che la vita quotidiana venga inghiottita
da risse e spari, dobbiamo ricominciare a parlarci, ad
ascoltarci, a progettare insieme, gli uni con gli altri. I
genitori coi figli, gli uomini con le donne, lo Stato coi
cittadini, le Autorità con le persone comuni.
Occorre abbattere i muri che ci separano, trasformando in
Comunità le attuali gabbie di individui arrabbiati e minacciosi,
potenzialmente violenti.
La prima grande risorsa per tornare a crescere e far ripartire
lo sviluppo è rappresentata dalle energie degli altri.
Ogni psicologo sperimenta come dietro la depressione e l’astenia
psichica ci sia un deficit di scambio, di ascolto, di abbraccio
dell’altro. Per ritrovare le forze perdute occorre abbattere
molti muri: ogni malessere individuale, infatti, si nutre di un
malessere sociale e lo alimenta.
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La crisi e il rischio
“depressione di massa”
Claudio Risé, da “Il Mattino di Napoli” del lunedì, 7
maggio 2012,
www.ilmattino.it
I suicidi delle persone rovinate dalla crisi, diversi tra loro,
hanno in comune un elemento: la convinzione che “non farcela”
sia una colpa, una lesione della dignità personale, come ha
scritto Paganelli. Un’idea comprensibile, ma sbagliata, che
genera gesti rinunciatari e autodistruttivi. È necessario che
autorità e media la smentiscano con chiarezza.
Nell’economia di mercato affrontare il rischio d’impresa è una
virtù, di cui lo Stato riconosce la dignità profonda, comunque
vada.
Lavoratori ed imprenditori sono i veri eroi della Repubblica
“fondata sul lavoro”, come dice la Costituzione. La loro qualità
sociale non è condizionata all’esito positivo dei bilanci, ma
deriva dall’aver scelto l’attività sulla quale si fonda il
funzionamento di gran parte della società moderna: il lavoro in
azienda, piccola o grande, con le sue fatiche e i suoi pericoli.
Sia il rischio di un’impresa, anche piccola, sia quello che si
assume il prestatore d’opera.
Anche chi cerca una lavoro, senza trovarlo, è un dignitoso
lavoratore, anche se al momento sfortunato.
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Ogni bambino è diverso
Claudio Risé, da “Il Mattino di Napoli” del lunedì, 30
aprile 2012,
www.ilmattino.it
Nuovi pericoli per i bambini, in arrivo dalla rete e dagli
sviluppi dell’elettronica. I guai, questa volta, non vengono
dall’insaziabile curiosità dei bimbi, che a volte li mette a
rischio, ma da quella dei genitori, che potrebbe fare molto male
ai bambini. Di che si tratta?
Stanno circolando (ma le più sofisticate arriveranno tra poco),
delle applicazioni per cellulari intelligenti, I Pad, computer,
per “rassicurare” i genitori sul fatto che i loro figli siano
“come tutti gli altri”.
Le prime avevano carattere medico: i genitori inserivano i dati
del figlio, quanto mangia, dorme, quanti pannolini cambia e così
via, e le applicazioni fornivano indicazioni, terapie, consigli.
Partendo, naturalmente, da confronti con l’ipotetico “bimbo
sano”, cioè quello “medio”, corrispondente alla media dei
comportamenti individuali. Il quale, ecco uno dei problemi di
questo modo di guardare ai bambini (come anche alle donne, ai
vecchi, a chiunque), non esiste. Perché le variabili sono
infinite e con sfumature non valutabili con dati quantitativi.
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Creatività. Istruzioni per l’uso
Claudio Risé, da “Il Mattino di Napoli” del lunedì, 23
aprile 2012,
www.ilmattino.it
L’accordo è unanime: bisogna crescere, innovare, tornare allo
sviluppo (magari più equilibrato). Per questo però servono nuove
idee. Da dove vengono?
L’Europa deve evitare di adottare una visione troppo cupa e
ansiosa dell’innovazione e dello sviluppo.
Le idee che cambiano la vita nostra e degli altri, non nascono
infatti da estenuanti studiate o seminari barbosi. Nascono
(spiegano le neuroscienze) quando ci concediamo di non pensare a
niente di speciale, di andare a zonzo con la mente.
Non è un caso che tutta la rivoluzione dei computer sia nata e
cresciuta in California, dove ci sono ottime università ma anche
si va al mare, a spasso, si fa surf. Con grande indignazione dei
paesi della costa est, quella atlantica (oggi più declinante),
che considerano i californiani dei fannulloni, quasi dei
“mediterranei”. Però le idee più rivoluzionarie sono nate lì, e
hanno anche prodotto un fiume di denaro. Come mai darsi la
libertà di non pensare a nulla, e un po’ di godersela, genera
idee fantastiche?
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Dalla passione la rinascita
Claudio Risé, da “Il Mattino di Napoli” del lunedì, 2
aprile 2012,
www.ilmattino.it
Passione, morte, resurrezione. Queste tre tappe, riproposte
ancora una volta nella prossima settimana, non appartengono solo
alla storia di Gesù, ma ad ogni trasformazione e sviluppo umano.
Il successo ha sempre un termine, molti si allontanano, occorre
rientrare dentro se stessi e accettare con passione la fine di
come si è stati. Solo così si risorge, si entra nel
rinnovamento.
La vita umana cresce sempre attraverso esperienze pasquali. Ma
non è semplice vederlo e accettarlo davvero.
L’idea della fine e della resurrezione è presente nella maggior
parte delle antropologie (non solo nel Cristianesimo), e parla
appunto della necessità del cambiamento, che deve passare sempre
attraverso una perdita: di abitudini, di situazioni consolidate,
di modi di essere.
Il nostro tempo, la modernità, fatica però più di altre epoche
ad accettare questa visione. Anche se una delle sue scienze più
giovani e più promettenti, la neuroscienza, ha dimostrato che è
proprio così che il cervello si forma e cresce, attraverso un
continuo sviluppo, che passa attraverso distruzioni e
trasformazioni, dalla giovinezza fino alla fine della vita.
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Congedi di paternità oggi e domani
Claudio Risé, da “Il Mattino di Napoli” del lunedì, 26
marzo 2012,
www.ilmattino.it
I tre giorni di paternità obbligatoria stabiliti da Elsa Fornero
nella riforma del lavoro sono importanti. Non solo perché quei
tre giorni alleviano la fatica di tante mamme e consentono ai
papà di sbrigare le pratiche e impegni familiari del dopo la
nascita. Non solo perché fanno risaltare di più la distanza
rispetto ai 15 giorni votati dal parlamento Europeo, e dai tempi
ben più lunghi di molti paesi. Ma perché mettono i due genitori,
insieme, di fronte all’altro: il bambino.
Un momento importante, che era finora impossibile per
l’obbligata presenza della madre e per l’effettiva assenza del
padre, spesso impegnato nel lavoro. Un’assenza che non lasciava
spazio ai genitori per chiedersi, insieme: cosa serve davvero al
nostro bambino, chi sarà meglio che stia con lui? Una domanda
fondamentale, sia per la famiglia che per la società, la cui
salute dipenderà domani anche dal benessere fisico e psicologico
dei bambini che oggi nascono.
Questa riflessione, però, non si fa quando si ragiona sulla
questione solo in funzione del mercato del lavoro: chi ha il
lavoro meglio remunerato si dedica a quello; l’altro, che nella
maggioranza dei casi in Italia è ancora la donna, sta a casa.
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Buona giornata del papà
Claudio Risé, da “Il Mattino di Napoli” del lunedì, 19
marzo 2012,
www.ilmattino.it
Il giorno del papà, che si festeggia oggi, diventa sempre più
sentito. Non solo occasione di regali, o lavoretti per impegnare
i bimbi delle elementari. Di anno in anno questa festa scandisce
ormai le tappe del riconoscere cosa significhi essere padri
oggi, e della conseguente trasformazione degli uomini e di tutti
i rapporti familiari. Ci allontaniamo così sempre di più da
quella triste etichetta di “società senza padri”, come
antropologi e psichiatri definivano l’Occidente negli anni 70.
E’ stata ed è, quella dei papà, una lunga marcia, emozionante ed
anche dolorosa, che contribuisce a cambiare non solo i rapporti
tra le persone, ma anche il clima affettivo ed emotivo del
nostro tempo.
L’aspetto più evidente è certamente l’ancora incompiuto “ritorno
del padre”, una figura di cui negli anni 70 nessuno sapeva più
che dire, se non che, appunto, non c’era, mentre oggi la sua
presenza torna ad essere evidente, anche se spesso in modo
drammatico.
Si tratta di un ritorno davvero “epocale”, perché era stato
nell’Ottocento, con l’avvento dell’industrializzazione, che la
figura paterna si era ritirata dall’educazione dei figli, da
allora affidata alla madre, per dedicarsi alla particolare
attività economica che allora nasceva: l’azienda. Fino ad allora
il mondo del lavoro, sia nei campi che nelle botteghe artigiane
delle città, era stato anche la principale scuola di vita dei
figli, nella quale il padre era insieme papà e maestro d’arte e
mestiere.
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I miti che generano depressione
Claudio Risé, da “Il Mattino di Napoli” del lunedì, 12
marzo 2012,
www.ilmattino.it
Un europeo su dieci è depresso. Le donne il doppio degli uomini,
e i giovani più degli adulti. Lo rivela l’ultimo sondaggio
importante svolto in Italia, Francia, Inghilterra, Spagna e
Germania, che conferma i dati precedenti. Sappiamo così che non
aumenta. Ma cosa succede quando si entra in depressione, e
perché accade?
Alcuni aspetti diventano sempre più evidenti: ad esempio i
tratti “sociali” della depressione, i suoi legami col lavoro, la
famiglia, e il modello di sviluppo attuale.
I depressi vengono messi in difficoltà dal carattere
“performativo” del nostro modello sociale che richiede in
continuazione di “funzionare” bene nei diversi campi, dal lavoro
alla sessualità.
Ridurre la persona a produttore (di denaro, successo, piacere),
suscita in molti l’ansia di “misurare” direttamente quanto siano
adeguati alle richieste degli altri e del collettivo. A questo
punto, se non si è sostenuti da una forte autostima, e da molta
concretezza e umiltà, è facile deprimersi.
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La tentazione di chiudersi
Claudio Risé, da “Il Mattino di Napoli” del lunedì, 5
marzo 2012,
www.ilmattino.it
“Sei venuto a sparare?… Voglio vederti sparare”. Il monologo del
militante No Tav sporto sullo scudo del carabiniere silenzioso
non è solo provocazione. Più simile invece a quel particolare
rovesciare la colpa e il male sull’altro, trasformandolo in
nemico (potenzialmente assassino), che sta dietro alle tragedie
storiche dell’ultimo secolo, l’ultima delle quali fu la stagione
degli anni di piombo. Accade anche in drammi privati, raccontati
al terapeuta di solito dopo che sono accaduti.
Gradualmente l’altro diventa un individuo pericoloso, che
qualunque cosa dica, o faccia, ti vuole far fuori. Mentre le
persone attorno a lui, quelli che condividono la sua posizione
sono partecipi del “complotto”.
La prima caratteristica di queste costruzioni immaginarie,
personali o collettive che siano, è che alla loro origine non
c’è (nella stragrande maggioranza dei casi), nessuna specifica
patologia. Sono invece presenti due caratteristiche che,
insieme, possono generare problemi: un forte senso critico, e
l’insicurezza.
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La neuroplasticità: il movimento è il nostro destino
(Di Claudio Risé, dal libro
Guarda, tocca, vivi. Riscoprire i sensi per essere felici,
Sperling & Kupfer, 2011)
Il movimento e la conseguente trasformazione sono il
nostro destino, e la consapevolezza di questo fatto è ciò che
consente alla vita dell’uomo moderno di essere all’altezza del
suo tempo.
Solo verso il 1990, mentre esplodeva l’Unione Sovietica e la
globalizzazione riceveva una nuova, decisiva spinta,
cominciarono a essere prese in considerazione le ricerche
neuroscientifiche che dimostravano che il cervello umano non è
una struttura definita, che si formerebbe nell’infanzia e
sarebbe sostanzialmente compiuto e immutabile entro i 20 anni,
bensì un insieme dinamico di circa 100 miliardi di neuroni,
ognuno dei quali con migliaia di sinapsi, impegnati in un
continuo movimento di formazione, trasformazione, morte e
rigenerazione, prodotto fondamentalmente da noi stessi. È,
infatti, ciò che noi facciamo e pensiamo, le nostre esperienze e
il nostro comportamento, a modellare e costituire il nostro
cervello.
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Paure e incubi dell’uomo macchina
Claudio Risé, da “Il Mattino di Napoli” del lunedì, 27
febbraio 2012,
www.ilmattino.it
Quali sono le paure più diffuse in questo “tempo della crisi”? A
giudicare da quanto si vede in psicoterapia, la paura della
povertà è presente ma non sempre genera malessere psichico.
Quella l’uomo la conosce (magari nel racconto familiare), anche
se non l’ama; sa che ci si può convivere.
La paura che fa star male, e che oggi si diffonde, è quella di
venir trattati sul lavoro e nella società come cose. Ciò spiega
anche buona parte della riluttanza giovanile a inserirsi nelle
aziende.
Giovani pieni di buona volontà, che si cimentano con ambite
(anche se assai esigenti) opportunità di lavoro, di notte
sognano di diventare gradualmente macchine, robot, o di venire
divorati dagli squali.
Raramente si tratta di persone viziate, con poca voglia di
lavorare sodo. Sono in genere intelligenti, ambiziosi, con forte
senso del dovere, tanto da accettare ritmi di lavoro superiori
alle 10 ore al giorno, come è ormai corrente nei posti
“importanti” delle grandi città. Non hanno vizi, né nevrosi
particolari.
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Divorzio breve: una legge che rende malati i nostri figli
(Intervista a Claudio Risé, di Paolo Nessi, da “Il
Sussidiario”, 24 febbraio 2012,
www.ilsussidiario.net)
DIVORZIO BREVE. Ciò che tradizionalmente si intende
definire “società” assume via via la parvenza di un pulviscolo
indifferenziato. Le forme relazionali che di consueto si
instauravano tra le persone sono, sempre più spesso, sostituite
da temporanei e quasi accidentali interscambi tra singoli. Come
leggere, altrimenti, l’ennesimo passo del Parlamento italiano
nella direzione di favorire sempre di più non tanto la famiglia,
quanto chi ne ha una e vuole disfarsene?
Ieri, infatti, la Commissione Giustizia della Camera ha
completato l’esame degli emendamenti sulla proposta di legge
relativa al divorzio breve. Tutte le correzioni sono state
ritirate, salvo quella del relatore Maurizio Paniz che prevede
la riduzione a un anno per il periodo di separazione prima di
ottenere il divorzio (ora è di tre) mentre sarà di due anni in
caso della presenza di figli minori. Cosa sta succedendo
all’Italia (e al mondo)? Lo abbiamo chiesto a Claudio Risé.
Come interpreta la decisione della Commissione?
Mi sembra che la società occidentale si sia incamminata ormai da
tempo, almeno dagli anni 70, sulla strada della precarietà dei
rapporti tale per cui il rapporto breve viene reputato pratica
normale, mentre quello di chi decide di impegnarsi per tutta la
vita è valutato eccezionalmente.
[continua a leggere su
ilsussidiario.net]
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Il mondo va in città
Claudio Risé, da “Il Mattino di Napoli” del lunedì, 20
febbraio 2012,
www.ilmattino.it
La popolazione mondiale sta correndo verso le grandi città. Nel
2030 il 60% dell’umanità vivrà nelle metropoli. In Cina, questo
cambiamento è ormai realtà.
Le megalopoli, però, sviluppano anche numerosi malesseri: dalle
cardiopatie alle psicosi, dall’obesità alla schizofrenia. Ma
allora perché 180 mila persone al giorno vanno proprio lì? Non
solo perché nelle città c’è più lavoro, e più denaro. Ci sono
anche altre opportunità. Da riconoscere e valorizzare, per
renderle utilizzabili.
Chi ogni giorno va in città, cerca (col denaro e il lavoro), più
socializzazione, modelli e stili di vita più numerosi e variati,
maggiore cultura, possibilità ampie di istruzione per i figli.
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Il necessario ritorno dei lupi
Claudio Risé, da “Il Mattino di Napoli” del lunedì, 13
febbraio 2012,
www.ilmattino.it
Malgrado alcuni falsi allarmi, sembra che i lupi comparsi con la
neve ai bordi dei boschi appenninici non abbiano finora
azzannato nessuno. Etologi e ambientalisti hanno così potuto
rispiegare che i lupi sono indispensabili per ridurre le mandrie
di cinghiali sempre più numerose e le devastazioni di culture da
loro compiute, come per altri problemi attuali del territorio.
L’uomo, però, ha paura del lupo. Perché rappresenta una sua
parte selvatica, oscura, che preferisce non vedere.
L’istinto dell’uomo non è, infatti, solo quello domestico del
cane. Il quale d’altra parte una volta abbandonato dal padrone
(molti lo fanno), è sempre pronto a riprendere la strada della
montagna dove diventa anche più selvaggio dei lupi: sembra che
fossero di cani inselvatichiti i morsi di questi giorni nel
riminese.
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Claudio Risé, da “Il
Mattino di Napoli” del lunedì, 6 febbraio 2012,
www.ilmattino.it
Quando la TV annuncia che qualcuno ha rubato milioni alla
collettività, la maggior parte degli spettatori pensa che è un
mascalzone, e un furbo. Quando un paziente lascia capire in
terapia che ha preso illegalmente del denaro, al terapeuta si
apre una pista significativa per capire che egli è davvero
malato, e come si configuri il suo malessere.
Se la psicologia del profondo ha ragione, l’attuale classe
politica non sta dunque molto bene. Di cosa soffrono, però, i
truffatori politici?
Il primo disturbo, lo sanno anche molti penalisti, è una
profonda (anche se spesso inconsapevole), disistima di sé. Come
mi raccontava il professor Alberto Dall’Ora, uno dei principi
del Foro penale, ladri e truffatori sono molto spesso persone
piuttosto intelligenti, che avrebbero risultati importanti anche
comportandosi correttamente. Ma, come sa l’analista, non ci
credono. Per varie ragioni biografiche e ambientali non si
credono capaci di veri successi. Quindi scelgono, spiega lo
psicoanalista Alfred Adler, “la menzogna…vie traverse..dolo e
astuzie”.
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Quei bambini senza padre allevati da servi o trasgressori
(Intervista a Claudio Risé, di Federico Ferraù, da “Il
Sussidiario”, 1 febbraio 2012,
www.ilsussidiario.net)
Cosa c’entra la manovra del governo Monti con
l’irresponsabilità diffusa dei «bambinoni» che escono dalle
nostre scuole? Per Claudio Risé, psicoterapeuta e scrittore, un
legame c’è, e affonda le sue radici nelle travagliate
vicissitudini dell’Autorità. «Se non c’è più un maestro inteso
come formatore e suscitatore di libertà, il soggetto non si
sviluppa». E finisce per essere solamente un servitore fedele
dell’Apparato. Risé interviene nel dibattito sull’autorità
aperto da
Ilsussidiario.net.
Lei ha scritto che il tema della crisi dell’autorità è
divenuto un slogan. Perché?
Autorità è un termine molto ampio e credo che valga la pena di
distinguere almeno tra due aspetti diversi. Il primo è il
bisogno del soggetto umano che chiede un’autorità come fonte di
sapere, di accoglimento, di identità, in ultima analisi di
crescita della propria personalità, del proprio sé. Come ricorda
Luigi Giussani, autorità viene da augeo ovvero «aumento, faccio
crescere, alimento». Il valore di questa autorità è comunemente
negato dalla società attuale, questo è vero. Ma al tempo stesso,
e molto insidiosamente, assistiamo ad una ipertrofia della
seconda valenza dell’autorità, intesa come fatto di potere
burocratico-organizzativo.
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Tra i giovani e gli adulti deve tornare il dialogo
Claudio Risé, da “Il Mattino di Napoli” del lunedì, 30
gennaio 2012,
www.ilmattino.it
Difficili da raggiungere. Così appaiono agli adulti gli
adolescenti di oggi. Chiusi nel «mondo dei pari» di età, ormai
diventato sempre più un filtro difficile da superare per chi
deve comunicare con loro, magari per proteggerli, educarli, o
trasmettere informazioni indispensabili alla vita. I genitori,
gli insegnanti impegnati, gli altri adulti che si trovano a
comunicare con loro raccontano la stessa impressione, a volte
dolorosa. I ragazzi comunicano quasi soltanto coi coetanei.
Vivono in una “città dei ragazzi”. I muri di questa fortezza che
li ha resi a lungo “invisibili”, come li definì il sociologo
Ilvo Diamanti, non li hanno però costruiti i ragazzi. Bensì i
loro padri, delusi dal naufragio delle speranze di cambiamento
degli anni 70, sconcertati dalla “fine delle ideologie” dopo la
deflagrazione dell’Unione Sovietica, inquietati dalla
globalizzazione.
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Quando l’Autorità diventa inaffidabile
Claudio Risé, da “Il Mattino di
Napoli” del lunedì, 23 gennaio 2012,
www.ilmattino.it
Si dice che il naufragio della Concordia
sia la perfetta metafora della fine del
principio di autorità. Che non esisterebbe
praticamente più: da qui gli errori del
Capitano, della Compagnia, degli organismi
di soccorso etc.
E’ davvero così? La nostra società ha dunque
liquidato ogni autorità? E’ meglio
chiarirlo, perché l’uso impreciso delle
parole ispira spesso comportamenti
disastrosi. In questa storia le autorità
c’erano, ma sembra abbiano, ognuna a suo
modo, fatto gravi errori.
La questione è rilevante, non solo per le
vittime, ma perché in effetti ha a che fare
con come si sia modificato il principio
d’autorità, con conseguenze devastanti sulla
psicologia e la vita delle persone.
L’autorità ha in sé due anime diverse: la
responsabilità verso sé stessi e gli altri,
che ci si impegna a proteggere, e il potere,
che consegue da questa assunzione di
responsabilità.
Fin dall’alba dell’umanità, gruppi di uomini
impauriti dai predatori e dalla natura
riconobbero l’autorità di quei capi che si
dimostravano capaci di fronteggiarli, e di
addestrare gli altri a farlo. Da questo
punto di vista l’autorità deriva dalla
capacità di educare le proprie pulsioni,
impaurite e distruttive, garantendo così la
protezione agli altri.
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Casa e figli “persi”: come la separazione
può colpire l’identità maschile
(Intervista a Claudio Risé, di
Viviana Daloiso, da “Avvenire”, 13 gennaio
2012,
www.avvenire.it)
l disagio psichico dei padri rimane
ancora invisibile alla societàPadri disperati. E, tuttavia, invisibili.
Non solo ai servizi sociali, ma alle
comunità d’appartenenza, alle istituzioni,
all’intera opinione pubblica. C’è una
“leggerezza” diffusa, alla base di stragi
come quella di Trapani: quella che non
coglie, spiega lo psicoanalista Claudio Risé,
«come il più delle volte la separazione pesi
con violenza inaudita sui mariti e in
particolare sui padri».
Cosa intende dire? Che gli uomini
sono più fragili delle donne? Che soffrono
di più?
Non mi riferisco a fragilità e sofferenza,
ma al tipo di perdita che la separazione
comporta per gli uomini. Questi ultimi
nell’80% e forse più dei casi oltre a
“perdere” la moglie, lasciano anche figli e
casa.
Si tratta di un trauma affettivo fortissimo,
che comporta una perdita contestuale di
identità: non a caso lo step successivo è
quasi sempre anche la perdita di lavoro e il
progressivo impoverimento.
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Perché la scuola è in ritardo di vent’anni
Claudio Risé, da “Il Mattino di
Napoli” del lunedì, 9 gennaio 2012,
www.ilmattino.it
La diagnosi del malessere profondo degli
italiani è ormai sul tavolo di chi governa.
Il problema dell’Italia è in gran parte la
sua scarsità di «capitale umano», come l’ha
definito il presidente Mario Monti. Vale a
dire il poco valore (segnalato da sempre in
questa rubrica) delle competenze scolastiche
e formative degli italiani. Di sicuro
intuitivi, intelligenti e laboriosi, ma non
dotati dalla scuola e da altre agenzie
formative delle nozioni necessarie a
guadagnare e produrre, oggi.
È un deficit che riguarda tutti, ma è
particolarmente preoccupante se si guarda
alla situazione giovanile, che rappresenta
potenzialmente l’Italia di domani.
Nella popolazione solo poco più della metà
(il 54%) ha un diploma, mentre la media Ocse
è al 73% (ma già Estonia e Polonia sono
attorno al 90%). Meno diplomi significa che
sappiamo fare di meno i mestieri e le
professioni oggi richieste: da qui
disoccupazione ed anche trasferimento di
imprese (che vanno dove c’è lavoro
qualificato), e contrazione del sistema
produttivo.
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2010
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La
nostalgia d’amore degli adolescenti
Claudio Risé, da “Il Mattino di Napoli” del lunedì, 5
luglio 2010,
www.ilmattino.it
Forse il cinismo ha davvero stancato le nuove generazioni. Le
strade delle città sono piene di: «Ti amo, mia principessa», di
scritte-ricordo del primo bacio tra i due, di scuse di maschi
forse anche troppo inginocchiati.
Comunque il bullo, il menefreghista, il villano, va poco, e solo
tra le ragazze un po’ problematiche. Le altre vogliono amore,
fedeltà, sentimento, come quelli offerti dai fidanzati-vampiri
degli ultimi, gettonatissimi, film. È corsa all’innocenza anche
tra i maschi.
Anche fra i ragazzi, infatti, tramonta l’interesse per le
mini-vamp, e torna il fascino della ragazzina acqua e sapone.
Con una moda dove i pantaloni sono stati sostituiti da
gonnelline svolazzanti, pizzi, volants, fiocchi e fiocchetti;
tutti trucchi conosciuti alla perfezione più che dalle mamme di
queste adolescenti, dalle loro nonne.
Nei gadget, che subito approfittano ed amplificano le tendenza
in atto, trionfano quindi cuoricini, cerchietti, dolci mostrini
e vampiri tenerissimi. Tramontano invece piercing e tatuaggi,
soprattutto quelli pesanti e a sfondo sadomaso, diventati
appannaggio ormai di ristretti gruppi di appassionati.
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L’equivoca “empatia” e la caccia ai vampiri
Claudio Risé, da “Il
Mattino di Napoli” del lunedì, 28 giugno 2010,
www.ilmattino.it
Forse negli ultimi cinquant’anni abbiamo sopravvalutato le virtù
dell’empatia (sentire come l’altro, mettersi nei suoi panni).
L’abbiamo messa al centro di tutto: educazione dei giovani,
rapporti coi dipendenti, con gli stranieri e i diversi,
relazioni uomo-donna. Adesso però ci accorgiamo che sempre più
spesso un giovane sgridato cade in depressione (e a volte si
toglie la vita), sul lavoro ci si sente «empaticamente»
controllati, l’intolleranza cresce, e fra maschi e femmine è
guerra.
Sembra proprio che l’ubriacatura di empatia sia stata
soprattutto un modo di aggirare i conflitti che crescevano in
una società in rapido cambiamento.
Con lo slogan dell’empatia ad ogni costo chi deteneva il potere
(i politici, i genitori, gli insegnanti) doveva mettersi nei
panni dell’altro (il giovane, la donna, il diverso di qualsiasi
tipo, lo straniero). In questo modo, però, si è in fondo
occupato lo spazio proprio di questi «altri», impedendo loro di
farsi davvero carico delle propria diversità. Si è così reso più
difficile alle identità «altre» di rafforzarsi e sviluppare le
proprie capacità di resistenza e discussione nei confronti del
potere.
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Conoscere il male preserva i bambini
Claudio Risé, da “Il Mattino di Napoli” del lunedì, 21
giugno 2010,
www.ilmattino.it
Cos’è che non funziona nel benessere? Perché i bambini nei
quartieri «alti» tendono ad ammalarsi più spesso e gravemente
che nelle zone povere? Perché a Milano, in una delle zone più
ricche della città, la scuola di quartiere ha registrato in
pochi mesi ben quattro casi di leucemia infantile, ed un altro
si è manifestato a breve distanza? Sono ormai sempre più
numerosi i pediatri e i clinici che prendono in seria
considerazione l’ipotesi che la troppa igiene non faccia bene
alla salute.
Tenere il corpo dei piccoli lontano da ogni germe lo rende
debole. Gli impedisce di sviluppare verso batteri e virus, le
difese che il corpo naturalmente produce contro i loro attacchi.
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La guerriglia delle molestie
Claudio Risé, da “Il
Mattino di Napoli” del lunedì, 14 giugno 2010,
www.ilmattino.it
In tutto il mondo, da Milano a
Gerusalemme, da Bari a New York a Tokio, uomini più o meno
potenti si mettono nei guai con gesti o battute sbagliate, che
fanno infuriare le donne e finiscono col mettere in pericolo la
carriera degli imprudenti. Cosa c’è dietro queste risse, che
hanno quasi sempre degli strascichi pubblici abbastanza
importanti? Sono gli uomini troppo arroganti, o le donne troppo
cattive? Si tratta di cose sempre accadute, ma prima taciute, o
c’è anche qualcosa di nuovo?
La ”guerriglia delle molestie“ rivela, in realtà, aspetti
significativi delle tensioni oggi in atto tra i due sessi. Anche
l’ascolto di uomini e donne in psicoterapia conferma che non si
tratta di episodi banali, né casuali.
(more…)
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Matrimoni, lo sfarzo batte la passione
Claudio Risé, da “Il Mattino di Napoli” del lunedì, 7
giugno 2010,
www.ilmattino.it
C’è una diminuzione di passione nelle coppie che decidono di
metter su famiglia in Italia, e questa rubrica (che si occupa
appunto di passioni), lo documenta puntualmente. Il diffondersi
delle coppie ”no child“, senza bambini, oppure di quelle che
decidono di vivere in luoghi separati, pur essendo insieme, si
accompagna ad altri fenomeni che mostrano un calo di intimità.
Ad esempio i matrimoni diminuiscono, ma gli invitati aumentano,
le cerimonie diventano più sfarzose, di immagine.
Secondo i dati Istat, rispetto agli anni ’70, oggi quasi la
totalità dei matrimoni è festeggiata con ricevimenti o pranzi
nuziali, che nel circa il 60% dei casi supera i cento invitati.
Inoltre più di sette su dieci delle nuove coppie festeggia con
un viaggio di nozze all’estero, e quattro di loro escono
dall’Europa.
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La nostalgia che rischia di perderci
Claudio Risé, da “Il
Mattino di Napoli” del lunedì, 31 maggio 2010,
www.ilmattino.it
Cos’è che ci fa perdere energie,
diventare pessimisti, vedere le cose insuperabili come montagne?
Se osserviamo le biografie delle persone in difficoltà, o anche
i nostri momenti bui, vediamo che la crisi è sempre preceduta da
una specie di nostalgia di un abbraccio ormai perduto, da una
difficoltà a farcela da soli, da stanchezza e ripiegamento.
Verso dove? Verso un «prima» (immaginario, ma non troppo), dove
eravamo amati, dove ogni bisogno era soddisfatto, e la
protezione assicurata.
In quel giardino dell’Eden, che è poi la pancia della propria
madre, è cominciata la vita di ognuno di noi. Solo che poi se ne
esce, e (anche se la fusione con la madre dura ancora molti
anni), a un certo punto il distacco avviene davvero, almeno
formalmente: si entra nella vita da soli (o si finge di farlo),
e non è facile.
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Anche i gay a volte soffrono
Claudio Risé, da “Il Mattino di Napoli” del lunedì, 24
maggio 2010,
www.ilmattino.it
Si va ampliando una strana zona grigia nella libertà sessuale.
Oggi si può cambiare sesso, applicare sul proprio corpo
attributi sia maschili che femminili, affittare organi per la
riproduzione, vendere seme, etc. Chi però abbia tendenze
omosessuali che lo disturbino (al contrario dell’eterosessuale
con lo stesso problema), rischia di non trovare un terapeuta che
lo prenda in carico.
Sta crescendo infatti un rumoroso dibattito sull’illegalità
delle terapie a persone omosessuali.
L’omosessualità, infatti (lo hanno dichiarato da qualche anno
sia i principali manuali diagnostici che l’Organizzazione
Mondiale sella Sanità), non è più una malattia. E allora perché
prendere in terapia chi sia omosessuale, se non per pregiudizio
ideologico, o affarismo?
(more…)
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Nuove coppie: amore a distanza
Claudio Risé, da “Il
Mattino di Napoli” del lunedì, 17 maggio 2010,
www.ilmattino.it
Ci sopportiamo sempre meno, e con
sempre maggior fatica. Dopo le coppie free child, libere da
figli (di cui questa rubrica s’è occupata tempo fa), ecco ora
crescere quelle Living apart together (LAT),
che cioè stanno insieme, ma in case diverse, ognuno per conto
proprio. Una categoria in sviluppo, che comprende storie molto
diverse. Unite da una comune preoccupazione: salvaguardare i
propri spazi personali, le proprie abitudini, senza però
rinunciare a una relazione affettiva stabile.
I Lat uniscono tipologie, caratteri, età, molto differenti tra
loro. Si formano in modo particolarmente frequente nella seconda
metà della vita, tra persone che hanno già avuto altri matrimoni
o unioni, e che hanno sperimentato la difficoltà di far
convivere a lungo l’affetto con abitudini, stili di vita, e
gusti diversi.
Magari uno preferisce andare a letto presto e l’altro tardi; uno
impazzisce per le partite e l’altra per i film d’amore; uno
russa e l’altro non sopporta; uno (di solito lui) si alza spesso
per andare in bagno, e l’altra ha il sonno leggero, e si
sveglia. Cose che ci sono sempre state, e magari una volta erano
oggetto di affettuose prese in giro; ma anche di scenate,
sbuffi, malumori.
(more…)
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Adattarsi e reagire, la forza degli italiani
Claudio Risé, da “Il Mattino di Napoli” del
lunedì, 7 dicembre 2009,
www.ilmattino.it
Qual è il
profilo psicologico dell’italiano d’oggi?
Informazioni utili si ricavano dall’ultimo
rapporto annuale del Censis (il centro studi
presieduto da Giuseppe De Rita), un
documento economico che, redatto con
intelligenza, riesce a fornire elementi
concreti per capire la psicologia degli
italiani di oggi, i suoi punti di forza, e
le sue debolezze. De Rita parla di un
italiano «adattativo-reattivo», che
reagisce, adattandosi, alle difficoltà della
crisi. Una definizione tutt’altro che
grandiosa.
Chi reagisce adattandosi è molto diverso da
colui che fa saltare il banco, vincendo la
partita con un colpo di genio. Tuttavia
questa definizione ci dice che l’italiano
che esce dalla crisi è forse vaccinato dallo
squilibrio psicologico che quella crisi ha
generato, e che continua ad imperversare in
gran parte dell’Occidente: il narcisismo.
La cultura del narcisismo, che ha alimentato
la grande corsa ai giochi finanziari e
all’espansione dei consumi dagli anni ’90
fino a un anno fa, è ispirata alla
grandiosità, all’immagine, al sorprendere
gli altri e il mondo.
Il narcisista non vuole affatto adattarsi,
ma vincere, sbaragliare. Non calcola,
preferisce giocare, e rischiare. La grande
crisi è nata da questa passione per
scommesse finanziarie diventate sistema, per
il disprezzo verso ogni attenzione al
limite, al dato di realtà, alla misura.
Tutte cose che il narcisista non sopporta
perché lo costringono a fare i conti anche
coi propri limiti, a preferire la mediocrità
al disastro, insomma a dare spazio alla
realtà, agli altri, invece di guardare solo
a sé stesso, ed a quelli che lui crede
essere i propri desideri (e invece non sono
spesso che manie di grandezza, nel tentativo
di bilanciare profonde insicurezze).
L’italiano di cui il rapporto Censis
descrive comportamenti e preoccupazioni è
molto diverso da questo personaggio, che ha
inventato i meccanismi che hanno prodotto la
crisi, e vi ha anche affidato risorse e
risparmi, propri e degli altri. L’italiano
adattativo-reattivo non si abbatte, ma
neppure nega la realtà: se perde il lavoro
se ne inventa un altro (accettando anche un
«lavoretto»), tira i remi in barca, chiede
aiuto alla famiglia, fa debiti modesti, per
finanziare spese altrettanto modeste.
Anche le tensioni sociali si adattano alla
circostanze: per esempio calano gli
scioperi, che si scontrerebbero con
interlocutori deboli, non in grado di fare
concessioni significative. Ed aumentano,
invece, le liti condominiali, dove si può
scaricare aggressività senza correre troppi
rischi.
Il grande idolo del narcisista, l’immagine,
interessa all’italiano meno di quanto sembri
dai dibattiti su veline e affini. Tanto che
quando gli affari vanno male, ed esporsi
significherebbe pagare tasse che magari non
corrispondono ai guadagni, l’italiano si
rende invisibile, e si inabissa nell’italica
categoria del «sommerso» (che corrisponde al
20% del Pil, ed ora è probabilmente
aumentata). Non è una gran prova di civismo,
ma rientra tuttavia in quella «vitale
resistenza alla pressione degli eventi» di
cui parla De Rita.
Meglio un’attività sommersa in più, che
uscire davvero dal ciclo produttivo; si
potrà sempre rientrare tra i «visibili»
domani, quando le entrate consentiranno con
maggiore tranquillità di far fronte alle
imposte.
Certo il modello italiano
«adattativo-reattivo», consente di
resistere, ma non garantisce lo sviluppo. Il
guaio dell’Occidente, però, è proprio quello
di non adattarsi, e vivere al di sopra dei
propri mezzi.
Rispetto ai deliri del narcisismo
trionfante, adattarsi è già un sapere.
Prezioso.
Sviluppo e giovani nullafacenti
Claudio Risé, da “Il Mattino di Napoli” del
lunedì, 30 novembre 2009,
www.ilmattino.it
Il dato più
preoccupante dell’Italia di oggi, e di
quella di domani, non passa né in prima
serata televisiva né in prima pagina. Si
tratta di questo: il 20% circa dei giovani
con meno di 22 anni non studia, e non
lavora. L’Italia è il paese europeo con la
più alta percentuale di giovani
nullafacenti. L’elevata disoccupazione
c’entra poco: le medie e piccole industrie,
e le attività artigianali, hanno infatti
un’altissima richiesta di personale
specializzato, che la scuola non fornisce.
Soltanto il Nordest ha 80 mila posti di
lavoro disponibili; mancano però persone
formate. In parte la richiesta viene
soddisfatta da quegli immigrati che
dispongono di formazioni adeguate. Spesso
però la mancanza di personale preparato
rallenta lo sviluppo delle imprese,
costrette a ridurre le attività, oppure a
trasferire iniziative all’estero,
delocalizzare.
Naturalmente questa fascia di giovani, ex
studenti svogliati, poi mantenuti dalla
famiglia per anni, rientra poi (ma non
sempre) nel processo produttivo, e un lavoro
in qualche modo lo trova. Ma di solito in
settori scarsamente produttivi, impieghi più
o meno pubblici, a basso reddito e scarsa
spinta innovativa.
Così ogni anno si sposta in alto (verso la
trentina) l’età di uscita dalla casa
genitoriale, diminuiscono i matrimoni, le
unioni stabili, i figli.
La crisi italiana, di oggi e domani, è
annunciata soprattutto dall’insufficienza di
formazioni e competenze adeguate in giovani
che rimangono per anni in una «terra di
nessuno», né scuola né lavoro, sopravvivendo
«a carico»: della famiglia e della società.
Ora finalmente (seppur con enorme ritardo),
è stato varato un regolamento del Governo
per ridare spazio e dignità
all’importantissima galassia dell’istruzione
tecnica e professionale. Potrebbe
funzionare, anche perché il dossier è stato
seguito e monitorato dal settore Education
di Confindustria, direttamente interessata a
che il problema venga finalmente risolto.
Ma quali sono state le convinzioni degli
italiani che hanno ostinatamente promosso,
attraverso la velleitaria gestione della
scuola, un prolungato rallentamento dello
sviluppo, con conseguente depressione di una
fetta così importante dei giovani? La più
pericolosa probabilmente è stata la
sopravvalutazione delle formazioni
intellettuali (sancite dalla «laurea»), in
un popolo dotato di una lunga storia di
abilità manuali, che fecero dell’artigianato
italiano la culla dell’arte e della bellezza
dal Rinascimento in poi. Ancora oggi, uno
dei pochi settori (quello della moda e del
design) che ha continuato il suo sviluppo
negli ultimi anni, lo ha fatto perché ha
mantenuto forti legami con l’artigianato,
che continua a rifornirlo di idee fresche,
competenze e abilità, ricevendone in cambio
riconoscimenti, denaro, e posti di lavoro.
L’enfasi posta dalla scuola e dalla società
all’accesso all’università e alla laurea ha
invece indebolito le scuole professionali
prima, e gli istituti tecnici poi, non
rifornendo di mano d’opera settori vitali
per la nostra economia come l’artigianato,
il turismo, e la piccola e media impresa.
Proprio a questo ultimo settore
appartengono, d’altra parte, molte fra le
aziende più tecnologicamente avanzate e
redditizie del paese. La loro richiesta di
giovani ben formati viene oggi finalmente
ascoltata, ormai spentesi le grida dei
cortei contro il ministro Moratti, che
chiedeva cinque anni fa queste stesse cose.
Finita in disoccupazione e depressione di
massa la passione per il «pezzo di carta»,
si torna forse ad una più equilibrata
valutazione di tutti i saperi, compresi
quelli tecnici e manuali.
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Identità fluide e derive criminali
Claudio Risé, da “Il Mattino di Napoli” del
lunedì, 23 novembre 2009,
www.ilmattino.it
«Stai al tuo
posto»: ecco un’esortazione ormai sparita
dal vocabolario di genitori e educatori.
Forse perché troppo dura: non pretendere di
essere altro da ciò che sei (un bambino, uno
studente, un figlio). Forse perché
sospettata di infliggere una ferita troppo
acuta al narcisismo del giovane. Eppure,
imparare a stare in quello che in quel
momento della vita è «il proprio posto», è
condizione indispensabile per ricevere
un’educazione. Rifiutarlo genererà caos.
Nella vita proprio la difficoltà di
accettare un preciso posto nella società
produce disordine ed anche criminalità. Ad
esempio, la vicenda che da tempo occupa con
tinte sempre più fosche le pagine delle
cronache italiane, ed ha al proprio centro
l’ex governatore del Lazio e le sue
frequentazioni, illustra come ognuno dei
suoi personaggi non sia riuscito a «stare al
proprio posto», ad aderire ad un ruolo
preciso con le relative responsabilità.
Il caso, infatti, fu provocato da
carabinieri che da custodi dell’ordine si
erano trasformati in ricattatori grazie ai
fatti di cui erano venuti a conoscenza. Ecco
una prima doppia identità: da una parte
forze dell’ordine, dall’altra attori di
crimini, e provocatori di disordine.
I carabinieri potevano d’altra parte
assumere questa identità fluttuante anche
perché lo stesso faceva la loro vittima:
Piero Marrazzo, Governatore del Lazio. Il
quale da una parte guidava con delicate
responsabilità una delle Regioni più
importanti d’Italia, dall’altra remunerava
senza risparmio delle prostitute
clandestine, acquistando inoltre da loro
dosi di cocaina.
Appare anche qui, nella vicenda (peraltro
molto umana) di Piero Marrazzo, la fatica,
oggi sempre più difficile da sopportare, di
«stare al proprio posto»: il tuo. Quello che
la tua stessa vita, le tue capacità, le tue
abilità, ti hanno assegnato. E che prende la
forma di un «posto», una collocazione
sociale, che tuttavia per garantirti
un’identità (quindi anche un equilibrio
psicologico) stabile, ti chiede di assumerti
le responsabilità corrispondenti. Ad
esempio, per un amministratore pubblico, di
non violare le leggi dello Stato, e di non
farti complice (magari come vittima) di chi
le vìola.
Piero Marrazzo, come migliaia di altri
protagonisti della contemporanea «società
liquida» (come l’ha chiamata il sociologo
Zygmunt Bauman), non ce l’ha fatta. Proprio
in questa difficoltà nel mantenere
un’identità «solida», ben definita, cui si
rimane fedeli pagando i relativi prezzi,
consiste del resto la liquidità della
società postmoderna. Nella quale ogni forma
tende a dissolversi per assumerne un’altra;
a volte contraria, come quella del
carabiniere che diventa malfattore, o quella
del governante che si lascia governare da
irregolari e fuorilegge. Tutto ciò tuttavia
tende anche a «liquefare» la personalità da
una parte e le istituzioni sociali
dall’altra.
A completare queste drammatiche
trasformazioni appare infine, in questa
vicenda, la metamorfosi sessuale dei partner
del governatore i quali, uomini alla
nascita, avevano poi scelto di passare (per
quanto possibile) all’altro sesso,
assumendone forme, nomi e costumi.
Diversamente dall’androginia naturale (ad
esempio dell’atleta Semenya), qui l’identità
naturale si alternava con l’altra,
utilizzata per interesse economico, o per
piacere.
Ma l’essere umano può assumere identità
multiple e opposte, senza esserne
danneggiato? Il pensiero greco (con le sue
Tragedie), ancora prima di quello ebraico e
cristiano assicurava di no. Forse aveva
buoni motivi.
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Rigeneriamoci con le foglie che cadono
Claudio Risé, da “Il Mattino di Napoli” del
lunedì, 16 novembre 2009,
www.ilmattino.it
È il tempo
della «sindrome delle foglie morte». «Non
sopporto tutto ciò che in questo periodo
finisce: le foglie che cadono, il sole che
se ne va presto, il culto dei morti»,
racconta al terapeuta chi ne soffre. «Ogni
fine mi fa paura».
Eppure, lo spegnersi delle cose in autunno,
dalle foglie che cadono alla fine di molti
amori nati nel pieno dell’estate, è anche
un’opportunità. Senza il declino
nell’autunno-inverno non sarebbe possibile
lo sviluppo della primavera e dell’estate.
La psiche umana però vorrebbe a volte una
crescita ininterrotta, un sole che non
tramonta mai, e allora si ribella.
Depressione, e crisi di panico, sono forme
tipiche di questa ribellione.
Del resto, essa non è neppure un’esclusiva
della modernità in cui viviamo: anche i Maya
(ad esempio) temevano che il sole si
spegnesse, e moltiplicavano riti
sacrificali, perché ciò non accadesse. Anche
quella dei Maya, come la nostra (dicono
molti dei suoi studiosi), era una società
iperattiva, che temeva i cambiamenti indotti
dai tempi morti e dal successivo
rinnovamento. E per evitarlo non esitava a
sacrificare la persona simbolo del
rinnovamento: il Bambino, di cui noi
ricordiamo la nascita appunto al culmine del
sonno della natura, nel solstizio invernale,
a Natale.
Le civiltà molto attive, come la nostra (e i
Maya) faticano ad accettare l’ombra, il
ritrarsi delle forze vitali, l’allungarsi
della notte e del sonno. Questo
atteggiamento però nega i tempi della natura
e quindi pone l’uomo in una posizione
(«maniacale» secondo l’osservazione
psichiatrica) di diniego della realtà,
quindi pericolosa per l’equilibrio.
La scansione delle stagioni è una proposta
che il mondo naturale (cui apparteniamo) ci
fa, suggerendoci di imparare ad alternare
due diversi stili psicologici a seconda del
tempo: quello solare ed estroverso della
primavera-estate, e quello umbratile ed
introverso che inizia in autunno e tocca il
suo apice in inverno. È soltanto accogliendo
questo consiglio, implicito nel clima, nella
luce, negli stati d’animo delle varie
stagioni, che noi possiamo accordare il
nostro umore e la nostra creatività con
quello della natura circostante, rendendoci
quindi tutto più facile e meno faticoso.
Le foglie che si staccano dagli alberi ci
chiedono dunque di non resistere a ciò che
in questa stagione vuole staccarsi da noi,
lasciandolo invece andare, come fa il
serpente con la sua vecchia pelle, che
lascia sulla pietra.
Vecchie abitudini, passioni ormai spente,
entusiasmi tramontati: invece di deprimerci
per la loro fine, profittiamo
dell’allungarsi delle tenebre per lasciare
che tutto ciò che non è più vitale scivoli
nella notte, e dormirci sopra,
rigenerandoci. Le crisi d’ansia e di panico,
così come le depressioni, nascono dal
tentativo opposto: quello di non abbandonare
mai nulla, nel tentativo onnipotente di
assicurarci una vita fatta soltanto di
accumulo, evitando qualsiasi perdita. Una
situazione del genere sarebbe terribile, e
produrrebbe malesseri opposti; del resto ben
visibili nelle terapie di quelle persone che
per ragioni diverse, non riescono mai a
liberarsi di niente, e soffocano in
esistenze affollate ed eccessive.
La natura tuttavia, nella sua misteriosa e
profonda saggezza, ispirata ad un
infallibile istinto di crescita e
sopravvivenza, ha provveduto, con i tempi ed
i climi delle stagioni, ad evitare questo
rischio. Così nelle piante la linfa si
ritira, le foglie cadono fertilizzando il
terreno, ed a primavera i rami sono pronti a
nuove gemme e nuovi sviluppi. Impariamo ad
imitarla, invece di ribellarci con ansie,
panico e depressioni.
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Adolescenti. Verso un addio alla droga
Claudio Risé, da “Il Mattino di Napoli” del
lunedì, 9 novembre 2009,
www.ilmattino.it
Come mai
l’Unione europea, attenta a mantenere
«puliti» i muri delle aule scolastiche da
crocifissi ed altri simboli religiosi, non
si preoccupa di mettere a punto una politica
comune contro la droga? Difficile non
chiederselo, osservando gli ultimi dati
dell’Osservatorio europeo sulle droghe, dove
Italia, Spagna, Francia e Gran Bretagna
appaiono letteralmente invase dagli
stupefacenti, il cui consumo riguarda ormai
fette importanti della popolazione,
soprattutto fra i diciotto e i trentacinque
anni.
Che i vari Paesi europei debbano cooperare,
se vogliono fermare l’invasione delle mafie
degli stupefacenti è stato finalmente
riconosciuto in una missione ufficiale,
guidata nei giorni scorsi da Etienne Apaire,
presidente della francese Missione di lotta
alla droga e alla tossicodipendenza (Mildt),
in visita al sottosegretario Carlo
Giovanardi, che segue la politica italiana
contro la droga. Apaire ha chiesto un
controllo coordinato delle frontiere da
parte degli Stati europei, dato il carattere
internazionale della circolazione degli
stupefacenti.
È ora che in Europa ci si accorga che serve
meno propaganda ideologica, e più attenzione
ai pericoli concreti, a cominciare dalla
droga.
Anche in Italia, d’altra parte qualcosa si
muove, dopo decenni di disattenzione. La
campagna appena lanciata - «Dai un calcio
alla droga» - indirizzata soprattutto ai
giovani, coinvolgendo campioni come Kaka,
Del Piero, Balotelli e Totti, è la prima
iniziativa di comunicazione di massa in
Italia contro l’uso delle droghe; verso cui
l’atteggiamento della classe politica è
stato finora piuttosto timido. Soprattutto
rispetto alle grandi campagne, realizzate
anche con grandi manifesti, e un efficace
impegno fotografico e sloganistico, che
hanno occupato le autostrade di Francia e
Spagna negli anni scorsi, arrivando ad
arrestare il continuo aumento di consumo di
droga nei paesi a noi confinanti. Da noi,
invece, questo è ancora in continua ascesa.
Dai 15 ai 64 anni, infatti, l’Italia è al
primo posto per il consumo, rilevato
nell’ultimo anno e nell’ultimo mese. C’è
però un segno di speranza, anche se per ora
molto tenue: man mano che si scende
nell’età, il primato nello sballo detenuto
dagli italiani sta incominciando a
diminuire. Ad esempio nel gruppo di età tra
i 15 e i 34 anni l’Italia è ancora al primo
posto per quanto riguarda le rilevazioni
dell’ultimo anno ma scende finalmente al
secondo dopo la Spagna, in quelle relative
all’ ultimo mese. Per quanto poi riguarda il
gruppo d’età fra i 15 e i 24 anni rimaniamo
purtroppo tra i primi 4 Paesi europei per
consumo nell’ultimo anno e mese, ma non
siamo più capofila assoluti.
Inoltre, ha osservato Giovanni Serpelloni,
capo del Dipartimento nazionale antidroga,
«se scorporiamo i dati e li puntiamo sui
quindici-sedicenni vediamo che per la prima
volta in questa fascia il consumo della
cocaina diminuisce», notando poi,
giustamente che «non è cosa da poco, visto
che sono gli adolescenti a segnare il
trend».
L’ottimismo verrebbe confermato se sapessimo
con relativa certezza che gli adolescenti
stanno disamorandosi anche della cannabis,
il cui consumo appare tuttora in forte
aumento (è raddoppiato negli ultimi dieci
anni). Rimane infatti quello, lo spinello,
oggi sempre più spesso associato all’alcol,
la pista di lancio verso le altre droghe.
Tanto più pericolosa quanto più spesso
presentata come «droga leggera» da media e
molti politici (da cui è spesso usata),
incuranti dell’appello del Consiglio
superiore di sanità: La cannabis non è una
droga leggera.
Comunque qualcosa si muove: finalmente.
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Deserti affettivi e trasgressione
Claudio Risé, da “Il Mattino di Napoli” del
lunedì, 2 novembre 2009,
www.ilmattino.it
Che effetto
produrrà nella psicologia degli italiani, e
dei più giovani, il fatto che ormai dalla
scorsa primavera i principali media
dedichino le notizie di testa alle
trasgressioni sessuali di leader politici e
vip di vario tipo e qualità? A cosa si deve
l’esondare della cronaca politica dai propri
argini tradizionali, per dilagare nella vita
intima dei suoi protagonisti? C’è qualche
relazione tra l’irrequietezza sessuale dei
politici e la prepotente trasgressività
degli adolescenti?
Se è fondata l’osservazione che il parlare
troppo e morbosamente di guerra rischia di
immettere il virus bellicista nelle
popolazioni e nell’opinione pubblica, ci si
può chiedere se dilungarsi sull’abitudine
dei potenti di frequentare prostitute/i di
vari generi sessuali non finisca col
suscitare dapprima sconcerto, e poi
emulazione, soprattutto nelle fasce
“deboli”, dai giovani alle persone dotate di
formazioni culturali o affettive più
fragili. Chissà insomma se il messaggio:
“guardate un po’ i potenti cosa fanno”, non
venga percepito come: “se volete far
carriera fate così”.
Nell’esperienza psicoterapeutica, ad
esempio, si vede chiaramente il formarsi di
una forbice, soprattutto tra i giovani. Da
una parte le persone più psicologicamente
strutturate si mostrano irritate di fronte
allo spettacolo presentato dai media,
distaccate dalle istituzioni (anche
informative, giornali e televisioni), e
intenzionate a dotarsi di propri criteri di
giudizio, e di un proprio stile di vita, che
li ripari da un costume collettivo percepito
come scadente, e pericoloso. Dall’altra,
soprattutto gli osservatori specializzati
nelle categorie deboli e a rischio,
segnalano che sempre più frequentemente il
successo viene identificato con la
deviazione sessuale. Come nel caso di quella
madre che ha giustificato con l’intenzione
di “aumentare la popolarità e il successo
sociale” della figlia undicenne il proprio
impegno nell’organizzarle di continuo
incontri sessuali con compagni più grandi
(che la donna convinceva regalando loro
cariche telefoniche ed altri gadget).
Il martellare dell’informazione
sessuocentrica convince le persone più
deboli (spesso anche malate, come nel caso
appena citato), che l’avere molti rapporti
sessuali fuori da ogni morale riconosciuta,
sia la vera chiave per il successo oggi.
Tuttavia ciò può accadere solo per il vuoto
che caratterizza ormai la sfera privata e la
vita affettiva di molte persone. Per il
cittadino della postmodernità, sradicato da
appartenenze di classe, di territorio o di
fede in gran parte abbandonate, e con
un’affettività familiare fragile e
provvisoria, sempre sottoposta alla
possibilità di un
abbandono-separazione-divorzio, la
sessualità è rimasta il principale terreno
di esperienze emotive. Ma la caratteristica
della sessualità separata dall’affetto è
quella (come avvertiva già Freud) di
lasciare inappagati. Di qui la ricerca di
trasgressioni.
Lo scenario ossessivamente descritto dai
media nelle loro cronache sui vip, prima e
al di là delle varie manovre politiche che
pur lo influenzano, è soprattutto la
riproduzione dell’affettività postmoderna:
una vita privata devastata cui si vorrebbe
ansiosamente rimediare con una sessualità
sempre più trasgressiva, aiutata da sostanze
euforizzanti.
I media non fanno altro che raccontare la
paura/desiderio di molti, che nella realtà
viene interpretata da alcuni potenti, spiati
e poi denunciati dagli avversari politici.
Come già accaduto nella storia, i capi
cadono preda delle patologie presenti
nell’inconscio collettivo, ed interpretano i
deliri in esso diffusi.
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Educare i giovani al sentimento
Claudio Risé, da “Il Mattino di Napoli” del
lunedì, 26 ottobre 2009,
www.ilmattino.it
Un nuovo
insegnamento di «educazione
emotivo-sentimentale» (questa la proposta di
legge dalle deputate Giulia Cosenza e Flavia
Perina) nei già affollati programmi
dell’ansimante scuola italiana? Ebbene,
perché no? Di quest’educazione, infatti, i
ragazzi hanno grande bisogno, come tutti gli
adolescenti, e come dimostrano le cronache
quotidiane. Veri e propri diari della
mancanza di sentimenti e della cattiva
educazione emotiva (non solo degli studenti,
ma da qualcuno bisogna pur cominciare).
L’assenza di «educazione sentimentale» è
stata una della grandi lacune della scuola
moderna (non solo italiana) rispetto alle
accademie educative dell’Occidente, a
cominciare dall’Accademia di Platone, ad
Atene, nella quale all’amore e al sentimento
veniva prestata grande attenzione,
considerandoli «saperi» decisivi nello
sviluppo della vita e della personalità
umana. È solo dalla rivoluzione industriale
in poi che l’insegnamento si sposta sui
saperi utilitari, trascurando in modo sempre
più evidente quelli più sottili,
dell’«anima».
Ai nostri giorni poi «studiare il
sentimento» viene considerato una perdita di
tempo, se non una vera e propria
stupidaggine. Eppure, come i lettori di
Pensieri & passioni sanno bene, l’ignoranza
del mondo dei sentimenti e la cattiva
educazione emotiva è all’origine della
maggior parte non solo delle violenze, ma
anche delle disfunzioni della nostra
società; comprese quelle economiche, i
problemi sul lavoro, gli scorretti
comportamenti politici, e molte patologie
psichiche e fisiche. Tutto ciò per una
ragione molto semplice: un equilibrato
sviluppo del sentimento è la principale
condizione per l’equilibrio psicologico.
Quindi, come i greci sapevano molto bene,
per il pieno sviluppo della personalità
individuale, e di una società prospera e
felice.
La conoscenza dei sentimenti, e del loro
linguaggio e dinamiche è insomma al centro
del sapere umano, laddove il contare, il far
di calcolo, pur nella sua utilità, è
piuttosto alla periferia. Se sai contare, ma
non sai nulla del cuore, tuo e degli altri,
ciò non sarà molto utile né a te né alla
società. Non garantisce neppure che tu non
diventi un criminale, come molte cronache
illustrano frequentemente.
Bernie Madoff, che con la sua truffa
planetaria fu uno dei grandi corresponsabili
dell’ultima crisi economica, sapeva fare
benissimo i propri conti, ed era una persona
educata. Ma non aveva pietà per i sentimenti
degli altri; era solo un intelligente
criminale.
Se la proposta Cosenza-Perina ha un limite,
è piuttosto quello di avere una visione
«sentimentale» dei sentimenti, come se
riguardassero soprattutto gli affetti e la
sessualità, e non gli aspetti più profondi
della relazione con sé stessi, e con gli
altri.
Il sentimento non ispira solo il giovane
nella relazione con l’altro che ama, ma col
vecchio, con lo sconosciuto, lo straniero,
il bimbo, il malato. Insomma è la misura
dell’umanità della persona.
È dunque certamente vero che l’insegnamento
dell’educazione sentimentale correggerebbe
l’ipersessualizzazione dei rapporti tra
adolescenti, e della stessa immagine di sé,
specie tra le ragazze. Se però correttamente
svolto, i suoi risultati non si fermerebbero
qui, finendo con l’impregnare l’intero
modello di cultura e di sviluppo della
società, come accadde appunto con
l’Accademia di Platone (ma anche nella
società medioevale della Cavalleria e dei
Trovatori).
È quindi piuttosto limitativo fare
dell’educazione sentimentale solo
un’integrazione (o la sostituzione)
dell’educazione sessuale. Tuttavia da
qualche parte occorreva cominciare. Non c’è
più tempo da perdere.
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Figli e videogames? Una guida per i padri
(A
cura di Antonello Vanni, collaboratore della
Lista per il padre, e-mail:
listaperilpadre@alice.it)
I tuoi
figli vogliono continuamente l’ultimo
videogame in vendita? Passano tutto il loro
tempo incollati alla consolle? Hai vietato
loro di giocare e l’effetto è stato quello
di spingerli a traslocare dall’amico vicino
di casa? Hai dubbi sull’effetto diseducativo
di questi media? Hai l’impressione che
perdano tempo utile allo studio? Forse
questi consigli possono esserti utili…
Innanzitutto informati con attenzione sui
videogiochi che destano l’attenzione dei
tuoi figli: siti internet sul tema,
riviste, copertine dei giochi stessi, pareri
dei genitori dei loro amici… permettono di
farsi una prima idea sui contenuti del gioco
che i tuoi figli vorrebbero acquistare. Qual
è il tema trattato? Sono presenti scene di
eccessiva violenza o di pornografia che non
si addicono ai valori morali cui vuoi
educare i tuoi ragazzi? Il linguaggio dei
personaggi è accettabile o spinge a
comportamenti comunicativi che ritieni poco
educati? Sono presenti scene che spingono
all’uso di alcol o droghe? E questo gioco
per quali età sarà più adatto?
Un buon modo per valutare la validità di un
videogioco è quello di conoscere alcuni
sistemi di analisi e valutazione proposti da
enti come l’Entertainment Software Rating
Board (http://www.esrb.org/ratings/ratings_guide.jsp)
che offre anche una chiara spiegazione dei
descrittori di contenuto presenti sulle
confezioni dei giochi.
Gioca con i tuoi figli: questo non
solo è un modo per passare del tempo con
loro, ma ti dà anche la possibilità di
capire veramente la qualità dei videogiochi,
perché hanno tanto potere di attrazione, che
effetto hanno sui ragazzi, se determinano in
loro comportamenti negativi o, invece, se
possono essere utili alla loro maturazione
cognitiva. Ricordati anche che
molti di questi videogames sono costruiti
“per livelli” da raggiungere
obbligatoriamente prima di concludere la
sessione e “salvare” la partita: ecco perché
bisogna chiamarli centinaia di volte quando
la cena è pronta o bisogna insistere
lungamente per farli andare a dormire.
Mettiamo
ora che il videogame tanto desiderato sia in
sé accettabile: vorresti comunque
che i tuoi figli passassero meno tempo
davanti a uno schermo o a un pc. Che fare?
Stabilisci precocemente regole e limiti per
l’uso, anche perché è molto più
difficile farlo dopo, quando i figli sono
cresciuti e hanno passato ore e ore di gioco
con un joystick: fin da piccoli devono
sapere 1) che prima si fanno i compiti 2)
che prima si adempie ai propri impegni
quotidiani, che comprendono anche la cura
della propria persona, della preparazione
della cartella, del mantenimento di un
ordine sufficiente del proprio ambiente… 3)
che ci sono tempi stabiliti oltre i quali
non si deve andare. Solo a queste
condizioni si gioca.
A questo proposito tieni conto che
l’American Academy of Pediatrics consiglia:
di limitare il tempo davanti allo schermo a
meno di due ore al giorno e di non collocare
consolle nelle camere da letto dei figli
(fatto che li ridurrebbe fuori controllo
genitoriale e li spingerebbe a giocare fino
a tardi perdendo ore preziose per il
riposo). Ricordati infine di far
rispettare con fermezza queste regole,
magari spiegandole e ripetendole con
frequenza: il cedere o il manifestare
incoerenza è diseducativo e pone la figura
paterna come modello inconsistente, poco
credibile e non realmente interessato al
bene dei ragazzi.
Trova alternative valide: i
genitori che conoscono i loro figli, e ne
conoscono passioni e interessi, possono
proporre hobbies, sport, attività o
iniziative capaci di sostituire il
“parcheggio” dei videogiochi. Queste
alternative sono valide soprattutto se
condivise: diventano l’occasione per passare
più tempo insieme, dialogare, discutere
problemi e conoscersi autenticamente,
soprattutto laddove i figli stiano vivendo
il tortuoso percorso dell’adolescenza.
Mantieni un atteggiamento positivo e di
apertura rispetto alle novità, anche
tecnologiche: è impossibile
proteggere i figli in ogni situazione e da
tutti i pericoli, ma essere padri attenti e
informati, coinvolti come figure educative
capaci, è sicuramente un modo di guidare i
figli che garantisce loro una
crescita in maggiore serenità.
Per
approfondire questi argomenti si veda il
capitolo Le “nuove dipendenze”: tra
Internet, cellulari e videogames nel
libro: A. Vanni,
Adolescenti tra dipendenze e
libertà. Manuale di prevenzione per
genitori, educatori e insegnanti
(San Paolo, 2009,
www.antonello-vanni.it
). Segnaliamo poi il sito del Center on
Media and Child Health di Harvard (www.cmch.tv),
uno studio dell’American Academy of
Pediatrics sul tema “associazione tra
televisione, film, uso di videogames e
rendimento scolastico” (http://pediatrics.aappublications.org/cgi/content/abstract/118/4/e1061),
e le linee guide di questa Associazione
circa la necessità di limitare il tempo di
esposizione dei figli ai videogiochi:
http://www.sciencedaily.com/releases/2008/04/080416081631.htm.
Stampa, pubblica e diffondi il volantino
«Figli e videogames? Una guida per i padri»
in .pdf -
clicca qui
Comunicazione a cura della Lista Per Il
Padre, già promotrice del “Documento per
il padre”
http://www.claudio-rise.it/documento_per_il_padre.htm
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Quest’odio fratello della follia
Claudio Risé, da “Il Mattino di Napoli” del
lunedì, 19 ottobre 2009,
www.ilmattino.it
Cos’è che fa
crescere l’odio in una comunità, in una
nazione? È forse il caso di chiederselo in
un paese come il nostro dove in pochi mesi
si è passati dall’ossessivo martellamento
sulle ragazze frequentate dal Premier
Berlusconi, a inviti sul web di sparare allo
stesso, e infine a minacce di morte inviate
tramite stampa da una «organizzazione
combattente». L’odio nell’Italia di oggi non
è diretto solo contro Berlusconi, ma appare
anche all’interno dell’opposizione e nella
vita civile.
Il terreno di crescita dell’odio è infatti
diffuso nella società, fuori dalla politica:
è riconoscibile dalla frequente assenza di
uno sguardo umano verso gli altri, e dalla
violenza come stile di azione e di
relazione.
Qualche giorno fa due diciottenni in
motorino hanno strattonato una donna di
novant’anni per scipparle la borsa,
provocandone la caduta e la morte. È qui che
l’odio si sviluppa: quando l’essere umano
non è più riconosciuto come persona, ma solo
come strumento per realizzare i propri
desideri e le proprie passioni. Qualcuno cui
strappare dei soldi, un possibile oggetto
sessuale da stuprare, un avversario politico
da abbattere.
In ognuna di queste azioni, che i media ci
raccontano quotidianamente, non c’è rispetto
od empatia per la persona umana. I soldi, il
sesso, il potere, lo status: queste sono le
uniche passioni dei portatori d’odio, che
diventano tali proprio per la loro povertà
affettiva. L’altro, l’essere umano che
vorrebbero abbattere per ottenere ciò che
vogliono, è solo uno strumento; non è
«persona», non è oggetto di alcun
sentimento.
Questa caratteristica dell’odio collettivo,
diffuso nei diversi strati sociali, ci aiuta
a capirne un tratto che lo distingue
profondamente dalle avversioni personali,
presenti ad esempio nelle vicende familiari,
a volte con esplosioni anche violente.
L’odio personale (famigliare ad esempio), è
negativo, ma è pur sempre un sentimento,
appartenente ad una dinamica psichica
normale.
Le forme di odio impersonale, come queste,
diffuse nella collettività, denunciano
invece una netta rottura ed allontanamento
da ogni sentire, e un avvicinamento alla
zona ben più pericolosa della follia, della
psicosi, caratterizzata appunto da un
estraniamento dall’affetto, dal comune
sentire umano.
È proprio il loro carattere psicotico ad
assicurare a queste forme la loro forza, i
loro aspetti irrazionali, e la loro
pericolosità; ad esempio l’assenza del senso
del limite, che nasce sempre da una forma di
compassione, per sé e per gli altri. In
questi disturbi psichici invece non c’è
compassione, né pietà, perché non c’è la
capacità di sentimento. È sempre la forza
irrazionale della psicosi a far sì che
queste forme possano trasmettersi attraverso
una sorta di contagio diffuso nell’inconscio
collettivo, al di fuori da motivazioni e
stili di comunicazione razionali.
Nel secolo scorso le grandi avventure
totalitarie, comunismo e nazismo, si
svilupparono proprio attraverso la riduzione
dell’altro a «cosa» (che quindi poteva
essere abbattuta o rimossa non appena
diventava di ostacolo), e l’adozione della
violenza come stile d’azione. L’ideologia
servì ad amalgamare pulsioni diverse, unite
nell’odio per l’avversario e la brama di
potere.
Oggi Berlusconi è diventato oggetto
prediletto di questo odio, specie da quando
si rese noto che oltre al potere, allo
status, e al denaro (consolidati oggetti dei
più ricorrenti deliri psicotici), egli
disponeva anche del sesso, ben collaudata
miccia di molteplici follie collettive, tra
cui il nazismo.
Forse i sondaggi appoggiano il premier. Ma
la psicosi non li legge.
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Competere con tutti lascia soli
Claudio Risé, da “Il Mattino di Napoli” del
lunedì, 12 ottobre 2009,
www.ilmattino.it
Dietro ai
tanti malesseri di oggi; dietro alle
ragazzette vittime o delinquenti date in
forte crescita dai servizi sociali, ai padri
che abbandonano o vengono abbandonati, alle
madri prese da raptus omicidi; dietro a
gruppi sociali scollati tra loro e preda
dell’odio reciproco; dietro alle depressioni
coperte dalle droghe, sta una sola parola,
che descrive una condizione precisa e
concreta: solitudine. Quella di chi è in
famiglia, ma non sente su di sé uno sguardo
che sia attento e amoroso.
Ma anche la solitudine di chi abita un
territorio dove i legami sociali si sono
allentati, e la gente non ti guarda, non ti
vede se non per misurare il tuo successo
sociale, la tua capacità di spesa.
Infine la solitudine di chi non sente più la
solidarietà e l’affetto dei pari, la
compagnia di quelli che fanno il tuo stesso
lavoro, sui campi, in azienda, o nelle
professioni e nei servizi, perché questa
vicinanza è stata sopraffatta dalla
competizione, dal lasciarsi dietro il pari
grado per avvicinarsi a chi ha uno stato
superiore, e dall’ansiosa presa di distanza
da chi rimane indietro.
Queste dinamiche, lo sappiamo bene, sono
sempre esistite, e sono legate in parte
all’istinto di sopravvivenza, in parte a
quella che Nietzsche ha chiamato «volontà di
potenza». Quella spinta naturale per la
quale un ciuffo d’erba tende ad allargarsi
occupando lo spazio dei fili vicini.
Tuttavia nella storia e nell’indole umana è
presente una forza particolare, che non ha
la stessa evidenza nel mondo puramente
naturale: quella dell’amore. È solo l’amore,
quello cui si riferivano i fondatori della
psicoanalisi col nome di Eros, a contrastare
il vissuto inappagato e inquieto della
solitudine (quella cui si ribella anche il
primo uomo, Adamo, chiedendo al Signore una
compagnia, uno sguardo, una voce).
Fu l’amore, oltre che la ricerca di
alleanza, ad ispirare lungo la storia umana
la solidarietà, il rispecchiarsi nell’altro,
l’appartenenza. Sentimento complesso,
l’appartenere ad altri, ad una patria, una
classe, una comunità, una professione, arte
o mestiere. Tuttavia è proprio lì che nasce
l’identità, che non si costituisce
certamente solo con quattro dati anagrafici.
Ed è proprio l’identità, che rende meno
forte, o più accettabile, il morso della
solitudine. Come raccontano tante poesie, o
lettere di emigranti, anche italiani: non
sei veramente solo quando hai una Patria,
una terra di origine, un popolo cui
appartieni.
La famiglia, lo sguardo attento e amoroso
della donna, dell’uomo, dei figli, è
l’ultimo, importantissimo tratto di questo
filo affettivo che ci lega al resto
dell’umanità, indebolendo la solitudine e le
sue patologie. Così, almeno è stato, con
alterne vicende, nel corso del tempo.
Nell’epoca in cui viviamo la competizione
economica ha però assunto un’importanza
particolarmente vistosa, assicurando
contemporaneamente un grande sviluppo della
ricchezza (non altrettanto, pare, della
felicità). La spinta a prevalere, a vincere
e distaccarsi dall’altro ha così indebolito
quella a legarsi, a cercare la solidarietà,
l’essere insieme, l’amore appunto.
L’interesse alla contrapposizione delle
classi ha prevalso su quello della
solidarietà tra tutto il popolo, quello
della competizione tra i generi ha prevalso
sull’amore tra uomo e donna, quello dei
singoli territori su quello del benessere di
tutta una Nazione.
Questa competizione universale non poteva
restare esterna alla famiglia, oggi teatro
di conflitti plurimi: padre-madre,
genitori-figli, e quindi di nuove, profonde
solitudini. Che diventano rapidamente
terreno di crescita di ogni malessere e
devianza.
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La natura è cattiva?
Claudio Risé, da “Il Mattino di Napoli” del
lunedì, 5 ottobre 2009,
www.ilmattino.it
Di fronte alle
catastrofi naturali, maggiori o minori,
tutte dolorosissime, che hanno colpito la
terra negli ultimi giorni, Italia compresa,
si è letto e sentito spesso un avvertimento
inquietante: la natura è cattiva, la natura
è matrigna. Nulla di nuovo. Il grande
Giacomo Leopardi era dello stesso avviso, il
marchese De Sade, da cui prese nome la
perversione nota come sadismo, la pensava
così: la natura è cattiva, per vincerla
l’uomo deve essere più cattivo di lei. I
suoi insegnamenti, però non ci hanno portato
fortuna, o felicità.
Per questo sarebbe grave riproporli proprio
oggi, quando la noncuranza verso la natura e
i suoi misteriosi equilibri ci presenta il
suo conto, per noi fallimentare.
Uno degli aspetti più evidenti della crisi
contemporanea è, infatti, proprio il
fallimento del tentativo paranoico dell’uomo
di sottomettere la natura, fantasia maturata
nell’Illuminismo (di cui Sade fu bizzarro ma
significativo esponente), e nelle successive
correnti scientiste, all’alba della
modernità e della rivoluzione industriale.
Rivoluzionari e nuova borghesia pensarono
che decapitare la natura (sfruttandola a man
bassa, inquinandola, avvelenandola), non
sarebbe stato più difficile che decapitare
il Re di Francia, che disponeva pur sempre
di un esercito, mentre l’ambiente naturale
non aveva armi e difensori visibili.
Iniziarono così una serie di interventi
profondamente alteranti gli elementi
naturali (la terra, l’acqua, l’aria), i cui
effetti furono (per limitarci agli ultimi
anni) la crescita esponenziale dei tumori
per inquinamento, il riscaldamento
atmosferico, e il forte accorciamento della
vita media nelle regioni più affrettatamente
industrializzate, come la Russia sovietica.
Oggi, gli «attacchi della natura matrigna»,
come le bombe d’acqua che hanno sconvolto
pochi giorni fa l’entroterra di Messina,
sono solo il risultato dell’incuria e del
disprezzo che l’uomo ha mostrato verso
l’ambiente in cui abita, che lo nutre e lo
fa respirare.
Alla base di questo disprezzo c’è una
scissione psicologica, sviluppatasi nella
modernità fino ad arrivare a quelle
contemporanee malattie della passione
settimanalmente segnalate da questa rubrica,
e per certi versi annunciate e celebrate
proprio da Sade, con i suoi corpi sottomessi
al potere della mente, delle idee.
Il fatto è che la natura non è altro,
diverso da noi; noi stessi siamo, anche,
natura. La manipolazione e sottomissione dei
corpi, desiderata e praticata dalla
filosofia sadiana, è una delle forme della
manipolazione e sottomissione della natura
praticata dalla modernità. Lo comprese
perfettamente Pasolini, che denunciò la
«scomparsa delle lucciole» nella natura
avvelenata, e (nel suo Salò, o le 120
giornate di Sodoma), la manipolazione e
sfruttamento dei corpi da parte del potere
delle ideologie.
La natura è il corpo della terra vivente,
così come il nostro corpo è il luogo in cui
si sviluppa la natura umana, coi suoi
affetti, i suoi desideri, le sue
sensibilità. Che, certo, come quelle della
natura, possono essere distorte, manipolate,
però a prezzi altissimi, pagati da tutti.
Tutti i grandi disturbi psicologici di oggi,
dalle tossicomanie ai disturbi alimentari, a
quelli della libido e della sessualità
partono da una qualche violenza al corpo ed
ai suoi bisogni naturali: la fame, l’amore,
la ricerca di protezione. E si curano
ricostruendo quell’originario ambiente
naturale, che è stato devastato.
Uno sviluppo umano dominato da fantasie di
onnipotenza sulla materia ci ha reso
incapaci di dialogare col corpo della natura
e col nostro. Meglio smettere di voler
dominare l’una, e l’altro, e ricominciare
invece ad ascoltarli.
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L’infelicità femminile
Claudio Risé, da “Il Mattino di Napoli” del
lunedì, 28 settembre 2009,
www.ilmattino.it
L’infelicità
femminile è in aumento, in tutto il mondo.
Storie come quella di Erika, la giovane
donna che ha ucciso i suoi figli, e se
stessa, sono sempre più frequenti, non solo
in Italia. Queste vicende non rivelano solo
un interiore «male oscuro», ma una
condizione femminile vissuta sempre più
frequentemente come pesante, senza veri
piaceri e consolazioni.
Da quando e perché ciò accade? Secondo le
statistiche su opinioni e umori dei diversi
gruppi sociali (come il General Social
Survey americano, ed altri), tutto cominciò
nei primi anni 70.
In Europa è arrivato un po’ dopo. All’inizio
degli anni 70 si era ancora in piena euforia
femminista, e le donne, anche se non
felicissime, ancora sognavano un mondo
migliore. È quando è sembrato che l’avessero
conquistato che è cominciata la delusione.
Come ha scritto al mio blog una
corrispondente che non conosco, subito dopo
aver letto di Erika: «Non posso approvarla,
ma la capisco. Anch’io non ne posso più
dell’ufficio, i bambini cui badare, tutte le
cose cui star dietro……..è troppo pesante. E
tutto da sola».
Questo, e non qualcosa di oscuro e
misterioso, è all’origine della depressione
femminile contemporanea, diffusa in tutto il
mondo e tra tutte le donne. Un po’ meno, a
quanto pare, tra le afroamericane, come
dimostra la loro più nota rappresentante:
Michelle Obama. Che però un marito ce l’ha,
e di quelli che una mano finisce col dartela
(anche se nei loro siparietti mediatici
lasciano filtrare qualche accusa, e
corrispondenti ammissioni).
Le donne sono «stanche», come scriveva
Erika. Lo status di madre-lavoratrice sola
sembra rivelarsi psicologicamente più
pesante di quello della casalinga che si
muoveva all’interno dei limiti, ma anche
delle garanzie di una coppia stabile. In
queste difficoltà, la responsabilità dei
figli, affidati per solito alla madre dopo
la separazione, ha un ruolo molto
importante. «La cosa che nella vita ti
toglierà più felicità è avere figli», ha
scritto la docente universitaria Betsey
Stevenson, nel suo libro «Il paradosso del
declino della felicità femminile».
Anche nell’esperienza terapeutica appare con
grande evidenza il senso di fatica,
affollamento, impotenza delle donne sole
nell’educazione e allevamento dei figli
(salvo nei casi di grande abbondanza di
mezzi, e neppure sempre). È ancora
statisticamente raro, per fortuna, che ciò
sfoci nella loro soppressione. Tuttavia
accade, e i biglietti con le minacce
«piuttosto che lasciare i piccoli a lui, li
porto via con me» non rivelano
necessariamente follia, quanto piuttosto la
frustrazione di non avercela fatta da sole,
l’ammissione del bisogno dell’altro, di un
altro, vissuta però come debolezza
inaccettabile.
Sembra che sia questa durezza con se stesse,
questo voler essere sempre «brave»,
inappuntabili, per giunta anche belle, a
rendere infelici le donne emancipate (o
comunque superimpegnate). Anche, a quanto
pare, sul lavoro, dove la donna, soprattutto
se in carriera, richiede moltissimo a sé e
agli altri che lavorano con lei. Proprio la
difficoltà di adeguare le sue richieste alle
possibilità degli altri la rende a volte
impopolare; mentre la severità verso se
stessa mette a rischio la sua vita
affettiva, e le sue emozioni personali.
Difficile dire quanto questa elevata
richiesta sia da sempre un tratto della
personalità femminile, o quanto derivi
dall’aver adottato quello che credeva fosse
il modo maschile di stare nel mondo. Gli
uomini però sono anche abili (a volte fin
troppo) nell’indulgenza verso le proprie
inadeguatezze. Meglio che anche le donne se
ne concedano almeno un po’.
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Quando il consumatore è narcisista
Claudio Risé, da “Il Mattino di Napoli” del
lunedì, 21 settembre 2009,
www.ilmattino.it
È passato un
anno dalla dichiarazione ufficiale di inizio
della crisi economica, e ora nuove
autorevoli assicurazioni la danno per
finita, seppur con ferite che si
rimargineranno lentamente. Speriamo che sia
così. Rimane però un problema psicologico e
culturale (oltre che economico): abbiamo
imparato la lezione? Sapremo evitare quei
comportamenti che generarono le famose
«bolle» (da quella immobiliare a quella dei
«derivati»), il cui scoppio paralizzò poi
mercati, e produzione?
Non è un problema teorico, riservato alle
dispute degli economisti. È una necessità
pratica, per non ritrovarsi tra qualche anno
con un’altra generazione di giovani
dirigenti bruciata in tutte le capitali
economiche occidentali, masse di
risparmiatori rovinate da speculazioni
insensate, e eserciti di disoccupati
dovunque.
Ma è contemporaneamente una scelta
antropologica: quali sono i comportamenti
«virtuosi» in grado di assicurare sviluppo e
stabile benessere ai nostri paesi? Dobbiamo
sempre puntare alla propensione al consumo,
che si cerca di sollecitare ad ogni costo
(anche questa volta si è ripartiti così), o
è possibile cercare un modello più
equilibrato? Come ad esempio uno «sviluppo
sostenibile» che non bruci più risorse di
quante ce ne siano, e quindi non crei nuove
bolle, nuovi debiti che non verranno pagati
da chi li ha fatti, ma da altri: lavoratori
che perderanno il posto, risparmiatori che
rimarranno privi delle risorse accantonate?
La comunicazione politica non sembra molto
interessata alla questione. I governanti che
sollecitano per uscire dalla crisi la
ripresa dei consumi senza spiegare che tipo
di sviluppo abbiano in mente, fanno pensare
che il crac dello scorso anno non abbia
ancora prodotto tutti i suoi insegnamenti
per il futuro. Il buon cittadino, quello che
aiuta il benessere del proprio paese non può
essere ancora visto solo come un accanito e
imperturbabile consumatore, come è stato
finora. Deve essere anche portatore di una
ricerca di equilibrio tra produzione,
consumo, e risorse disponibili, tra
interesse personale e interesse collettivo.
L’attuale presidenza americana, iniziata nel
colmo della crisi, promette anche questo. Ma
perché ciò accada, è necessaria un’ampia
riflessione collettiva (non solo in America)
su cosa possa garantire uno stabile e giusto
sviluppo economico. I tentativi di mettere a
punto un nuovo «indice del benessere»,
accanto al vecchio Pil, fanno parte di
questa riflessione. Che deve però fare
ancora molta strada.
La questione ha, come tutte le sfide
antropologiche, risvolti psicologici
profondi. I grandi disagi psichici del
nostro tempo, vale a dire i disturbi
narcisistici nelle loro manifestazioni
dirette (euforiche, maniacali), e nelle loro
versioni depressive, affondano le radici in
questo modello economico-sociale.
L’«uomo consumatore», costantemente
sollecitato a «vivere al sopra dei propri
mezzi», è anche il nevrotico perfetto,
descritto dalla psicoanalisi classica
appunto come qualcuno che spende energie che
non possiede. Il suo individualismo
esasperato, che lo rende disattento e poco
interessato ai vissuti affettivi degli
altri, lo condanna a una serie di sconfitte
sul piano dei sentimenti (in famiglia, nelle
relazioni con l’altro sesso, nei rapporti
amicali), che distruggono continuamente
risorse sociali: ad esempio coi fallimenti
matrimoniali, le gravidanze giovanili,
l’abbandono degli anziani, le violenze ai
più deboli.
Le «bolle» economiche traducono sui vari
mercati la bolla psicologica su cui rotola
il fragile equilibrio del narcisista, l’uomo
ridotto a consumo ed immagine.
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Il corpo in
vendita dei giovani
Claudio Risé, da “Il Mattino di Napoli” del
lunedì, 14 settembre 2009,
www.ilmattino.it
Il rapporto
degli adolescenti con il proprio corpo
diventa sempre più fragile. Così, il reparto
di Pediatria e dell’Area Adolescenza
dell’Ospedale Fatebenefratelli di Milano ha
raccolto nel giro di un anno precisi
racconti di ragazzine che si erano lasciate
fotografare seminude, o avevano offerto
prestazioni sessuali nel bagno delle scuole,
in cambio di i-pod, scarpe o abiti firmati.
Ancora una volta il corpo viene ceduto in
cambio di accessori per l’immagine. Come mai
questo accade?
Evidentemente perché il corpo stesso, la sua
integrità e privatezza vengono da queste
ragazze considerati meno importanti di
simboli di status tipo l’i-pod, e gli
oggetti di abbigliamento firmati. Come se
per loro l’importanza del corpo vero e
proprio diminuisse, mentre aumenta quella di
ciò che lo copre, o attira su di esso lo
sguardo degli altri.
Un corpo dunque sempre più «immagine»,
virtuale, che sceglie anche il mondo
virtuale, la rete, come spazio prediletto
per esporsi. Infatti l’assessore alla Salute
del Comune di Milano, Giampaolo Landi, ha
dato notizia di questa inchiesta
dell’Ospedale Fatebenefratelli in una
lettera a tutte le famiglie della città, in
cui ha lanciato contemporaneamente una
campagna pubblica contro la
microprostituzione giovanile online. Secondo
l’amministratore milanese infatti, il
fenomeno sta dilagando in maniera
esponenziale, specialmente tra le
giovanissime studentesse che per pagarsi
piccole spese quotidiane si prostituiscono
su chat erotiche, spogliandosi ed esibendosi
davanti a webcam casalinghe per arrotondare
la paghetta.
In rete si trovano ormai molti casi di video
hard di ragazzine, non più fatti per scherzo
e destinati alla ristretta cerchia di amici,
bensì veri e propri filmati, creati
volontariamente per ricevere un compenso.
Per informare i genitori di tutto questo,
l’assessore alla salute ha scritto loro una
lettera aperta. Le ragioni di questa
tendenza dei giovani alla mercificazione (e
quindi alla svalutazione) del corpo, vissuto
appunto come «cosa», oggetto di scambio
mercenario, sono molteplici, e questa
rubrica cerca spesso di presentarle.
Particolarmente importante è però il
rapporto (apparentemente distante, ed invece
strettissimo) tra la svalutazione del corpo,
ed il degrado dell’ambiente naturale.
La terra su cui viviamo è simbolo del nostro
corpo; non solo nei nostri sogni (dove una
terra abbandonata segnala problemi anche
gravi nella relazione col corpo), ma nei
vissuti e nei comportamenti individuali e
collettivi.
Non stupisce dunque che non molto tempo
prima che venissero rese note queste
informazioni sui comportamenti
adolescenziali, sia stato pubblicizzato il
Rapporto annuale della Società Geografica
Italiana, con i suoi dati impressionanti su
una cementificazione che «aggredisce la
bellezza dei paesaggi sfigurandoli e
annullandone le caratteristiche identitarie
sotto una massa indifferenziata di elementi
artificiali anonimi e spesso volgari».
Sostituendo a «paesaggi» la parola «corpi»,
ed a «cementificazione» la parola
«consumismo», ci avviciniamo a capire cosa
sta succedendo.
Se il corpo vivente della Terra viene
ridotto a cosa, a superficie cementificata,
anche il corpo umano si percepirà come cosa,
il cui valore è certificato dal prezzo e
dagli oggetti che lo coprono.
Il corpo umano fa parte della natura
vivente, se questa scompare (come in Italia
sta per certi versi accadendo, ed i geografi
documentano), esso si sposta tra le cose,
diventa merce.
L’educazione dei giovani non è separabile
dalla cura e difesa del territorio naturale.
Essi sono il corpo vivente del Paese.
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Gli adolescenti e
la cultura sessuale
Claudio Risé, da “Il Mattino di Napoli” del
lunedì, 7 settembre 2009,
www.ilmattino.it
Adolescenze
turbate. Prima e dopo la ragazzina di
Scampia, ogni giorno della scorsa settimana
ha visto, in ogni parte d’Italia,
adolescenti appena uscite dall’infanzia
aggredite e violentate da coetanei, spesso
guidati da un capo branco poco più grande.
Il fenomeno, d’altra parte, da tempo si
impone all’attenzione delle famiglie, degli
educatori, della società.
Oggi chi entra nell’adolescenza è spesso
potenziale preda del «gruppo dei pari», da
cui si aspetterebbe protezione e amicizia.
La tendenza non risparmia neppure i giovani
maschi, che spesso diventano bersaglio
sessuale di gruppi di coetanei carnefici.
Carnefici occasionali o sistematici. Cosa si
agita dietro a questi fenomeni? Occorre fare
un passo indietro rispetto alla
rappresentazione della sessualità che il
sistema delle comunicazioni (a cominciare da
media e spettacoli) offre, e cui siamo
abituati. La sessualità è oggi
essenzialmente rappresentata come piacere,
bellezza e divertimento, e come misura del
successo personale. Questa presentazione è
però parziale, se non accompagnata da altre
informazioni, che di solito nessuno dà.
La prima è che la sessualità è la più forte
delle pulsioni che scuotono la psiche umana,
con conseguenze decisive sull’intera vita,
sia nel bene che nel male. Per questo lo
sviluppo sessuale andrebbe accompagnato da
un’attenta ed empatica informazione, che
aiuti la persona a contenere questa pulsione
e le sue manifestazioni nel quadro del
rispetto della persona: la propria, e quella
degli altri.
Così la spinta del giovane maschio alla
conquista ed al piacere, va riconosciuta
come espressione della sua forza vitale, ma
insieme ricondotta all’attenzione per
l’altro, la sua sensibilità ed i suoi
desideri, senza la quale non è che brutalità
e violenza, giustamente condannata dalla
società e dalla sua legge. Ed anche la
spinta ad essere ammirata e desiderata della
ragazza adolescente andrebbe accompagnata
con la consapevolezza della forza non sempre
controllata (certo colpevolmente) del
desiderio maschile, e quindi dei rischi cui
va incontro.
Tutto questo attento lavoro educativo però,
raramente viene svolto, sia a casa che a
scuola o negli altri luoghi di formazione, e
quasi sempre in modo insufficiente. È come
se, un secolo dopo l’inizio della
psicoanalisi e della sua scoperta della
forza della pulsione sessuale, parlarne sia
diventato tabù.
Certo, si parla di sesso dalla mattina alla
sera, e vi si dedica gran parte del sistema
delle comunicazioni, ma come se fosse solo
piacere ed immagine, non anche spinta da
educare e contenere; potenzialmente
devastante se non ricondotta a precisi
rituali di incontro e di corteggiamento (la
cultura popolare del sud Italia li conosce
ancora perfettamente, specialmente nei
piccoli centri).
Anche le periodiche campagne contro la
violenza maschile diventano retoriche se non
si confrontano con cosa la origina (appunto
la mancanza di una cultura sessuale
profonda), e come evitarla e contenerla.
Il rumore mediatico sulla sessualità è
accompagnato dal silenzio sulle sue
caratteristiche meno superficiali, e quindi
anche più delicate e difficili. Intanto, la
sessualità spettacolo copre la distruzione
della cultura sessuale che, nelle diverse
classi e regioni, «amministrava» il delicato
passaggio tra infanzia e adolescenza. A
questa cultura ed ai suoi rituali non viene
sostituito nulla, lasciando al caso (retto
dalla legge del più forte) l’incontro tra
adolescenti, ex bambini oggi portatori di
una sessualità caotica ed esigente.
Punire lo stupro è indispensabile, ma
insufficiente se non si cambia la cultura
che lo promuove.
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Iniziativa anno
scolastico 2009/2010. Padri: da settembre siate
presenti nella vita scolastica dei figli
Comunicazione a cura della Lista per il
padre, già promotrice del “Documento
per il padre“, e-mail:
listaperilpadre@alice.it
Figli e figlie
desiderano l’affetto e l’attenzione
premurosa della figura paterna: hanno
bisogno di padri capaci di essere buoni
modelli e di offrire validi suggerimenti per
il loro futuro. Ricerche e studi dicono che
la presenza del padre è insostituibile nel
preparare i giovani ad entrare con serenità
nella vita, infatti:
quando i padri sono presenti nella vita
scolastica dei figli i buoni risultati
aumentano mentre le difficoltà e i problemi
diminuiscono.
Lo sai che i figli con padri
“assenti”
riportano voti più bassi nei test di lettura
e matematica, vengono maggiormente bocciati
e abbandonano più spesso gli studi? E che
rientrano più frequentemente nel numero
degli studenti con problemi di comportamento
(dalla demotivazione ai vandalismi, dal
bullismo all’uso di droghe)?
Sai, invece, che la presenza del
padre favorisce nei figli
l’assunzione di comportamenti più
responsabili e rispettosi, uno sviluppo
significativo delle capacità linguistiche e
di abilità cognitive come il problem solving
o la concentrazione, e quindi il
conseguimento di maggiore successo
scolastico e più elevati livelli accademici?
Da dove cominciare?
Accompagna più spesso i tuoi figli a scuola,
dialoga e studia con loro quando puoi,
insegnagli a gestire il tempo per evitare
che lo perdano tra pc, tv e videogames, fai
capire l’importanza dell’attività fisica e
del riposo nei giusti orari serali, incontra
gli insegnanti e informati su programmi e
obiettivi prefissati, partecipa e collabora
alle attività proposte dalla scuola, conosci
gli altri genitori per dare voce alle vostre
preoccupazioni e aspettative educative.
Padre: sii più presente per il bene dei tuoi
figli.
Lista per il padre
Stampa, pubblica e diffondi
il volantino «Anno Scolastico 2009/2010:
“Padri: da settembre siate più presenti
nella vita scolastica dei vostri figli”» in
.pdf
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Leggi e comunica la tua
adesione al “Documento per il padre” -
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Per maggiori informazioni
scrivi a
listaperilpadre@alice.it
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Vacanze finite,
ora cambiamo tutto
Claudio Risé, da “Il Mattino di Napoli” del
lunedì, 31 agosto 2009,
www.ilmattino.it
Stavolta si
torna davvero. Nel giro di 15 giorni saremo
tutti ai nostri posti, giovani e adulti. Non
sarà proprio una passeggiata. Lunghe o
corte, riuscite o problematiche, le vacanze
ci hanno comunque abituato a produrre di
meno, a dedicarci a quello che vogliamo noi,
più che a quello che ci viene richiesto
dagli altri, a lasciare la mente più libera,
più disponibile a raccogliere l’intuizione o
il desiderio del momento. Adesso tutto
questo è finito. Come affrontare questo
cambiamento?
Far finta di nulla non serve. La fatica, il
disappunto, l’insicurezza, rifiutati dalla
coscienza, scivolerebbero nell’inconscio, e
da lì riapparirebbero sotto forma di brutti
sogni (nel caso migliore), o, più spesso, di
cattivo umore, depressioni, gastriti, ed
altro. Meglio dunque guardare in faccia la
realtà, compresa la nostra nostalgia del far
niente, e cercare il modo di stare il meglio
possibile. Come?
La risposta suggerita dall’osservazione
degli stati di malattia e disagio, o di
ritrovato benessere è: ritrovare la
passione. Il rientro dalle vacanze non si
risolve col riprendere silenziosamente il
proprio posto, cercando di farci notare il
meno possibile per diminuire le richieste
degli altri, capi, insegnanti o genitori. Il
modo giusto è, al contrario, quello di
alzare noi stessi l’ostacolo, proponendoci
obiettivi più interessanti, appassionanti,
per solito i più difficili. Gli obiettivi
cui di solito ci sottraiamo “per non aver
grane”, per non impegnarci.
Non è solo il ragazzino che, come dice
ancora qualche maestra ai genitori: potrebbe
dare di più, ma non si applica. Anche in
ogni adulto sonnecchia un ragazzino pigro,
raccontandosi di non voler far fatica, ma
che in realtà teme di incontrare energie
sconosciute, di cui in fondo ha paura, anche
perché le tiene sempre a distanza,
trattandole come una zona oscura e
misteriosa. E’ quella, invece, la zona delle
sue qualità profonde e delle sue possibili
passioni, su cui potrebbe fondare una vera
autostima, e progetti motivati.
Il rientro dalle vacanze, con la sua
naturale fatica a ricominciare tutto come
prima, ed anche con le preziose forze
accumulate durante il riposo estivo, è
allora il momento migliore per cambiare
tutto. E dunque per finirla con l’abituale
(e depressiva) politica del risparmio
energetico, e lasciare invece spazio alla
nostra capacità e voglia di scoprire e di
fare, insomma per accettare una buona volta
di appassionarci a ciò che facciamo.
Aprire la strada alla passione è anche
l’occasione opportuna per smontare le
collaudate difese di cui ci siamo convinti,
nel tempo, proprio per mettere invisibili
reti protettive tra noi e la realtà: la
supposta antipatia dei superiori e/o dei
colleghi, la scomodità dei luoghi, la noia
della giornata. Sono tutte perfezionatissime
costruzioni mentali che possono però
sciogliersi come neve al sole, se soltanto
diventiamo abbastanza coraggiosi da
lanciare, o raccogliere, un sorriso,
un’idea, un progetto. Potremmo allora
accorgerci con sorpresa che in fondo nessuno
ce l’ha con noi, che il solito ufficio o
aula può essere anche un veliero lanciato
nel mondo, che possiamo divertirci in ciò
che facciamo, anziché contare i minuti primi
della pausa, o del ritorno a casa.
Questa trasformazione però richiede un atto
di generosità da parte nostra, ci chiede di
esserci davvero, là dove siamo, al lavoro, a
scuola in famiglia. Non temiamo di
spenderci: è il modo migliore per
arricchirci. E il momento giusto per farlo è
proprio questo: quando vorremmo essere da
tutt’altra parte, ma non abbiamo scelta.
Siamo con le spalle al muro: profittiamone.
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Educare i figli
mettendo al centro i genitori
Claudio Risé, da “Il Mattino di Napoli” del
lunedì, 24 agosto 2009,
www.ilmattino.it
Dove abbiamo
sbagliato? E’ questa (anche quando non
pronunciata) la domanda più presente alla
mente dei genitori dei tantissimi ragazzi
che in tutto il mondo occidentale hanno
passato l’estate ubriacandosi e drogandosi,
evitando per di più ogni sport e disciplina
fisica. Molti di loro (sono i casi più
semplici anche se poi rimediare non è
facile) riconosceranno di aver mancato per
disinteresse e disattenzione.
Più in difficoltà sono però gli altri (la
maggioranza): i bravi genitori. Quelli
attenti al profitto scolastico, alla buona
salute, che suggeriscono ai figli consigli e
direttive positive. Ma che hanno ugualmente
vissuto vacanze inquiete, sapendoli tra un
festival hip hop ed uno reggae, tra fiumi di
droga birra e superalcolici, con altri
accanto a loro che stavano male.
Sarebbero tornati, ce l’avrebbero fatta?
Quali conseguenze, poi, avrebbero avuto,
queste vacanze scombinate, sulla scuola, il
lavoro per chi già ce l’ha o lo deve
trovare, gli affetti? Domande che nascono da
una crisi educativa presente in tutta la
nostra civiltà. Nella quale però si fa
strada un’intuizione che forse chiuderà
un’epoca di pedagogia ansiosa e
bimbocentrica, inaugurata negli anni dopo il
‘50 dai vendutissimi manuali del dottor
Spock sul bambino, e da allora mai davvero
abbandonata. La pedagogia che ha trasformato
il figlio, prima bambino poi adolescente, in
centro della vita dei genitori, fino a farne
la loro principale, costante,
preoccupazione. In questo modo ha scambiato
quel ragazzino/a curioso e allegro in un
ospite inquietante e imprevedibile.
Cosa combinerà, in quali pericoli si
metterà, che malattie prenderà: ecco le
domande che, se assillanti, trasformano quel
simpatico rompiscatole del figlio in una
preoccupazione ossessiva che distrugge il
tuo buonumore (e quindi finisce col viziare
anche il suo).
I genitori disperati raccontano ai terapeuti
che quei figli chiassosi e distruttivi,
incuranti di ogni regola e attenzione verso
gli altri, si credono di essere al centro
del mondo. Ma chi ha fatto loro credere di
essere al centro del mondo, se non proprio i
loro genitori (ma anche gli insegnanti,
psicologi, assistenti sociali)? Questo
incrementare l’egocentrismo prima infantile,
poi adolescenziale, ha finito col privare i
figli di un termine di paragone
indispensabile per il loro sviluppo: gli
adulti come “altro da sé”, con una loro vita
e loro interessi, in relazione e magari in
opposizione ai quali sviluppare i propri.
I ragazzi hanno così modellato una sorta di
Ego personale apparentemente autosufficiente
da quello degli adulti, in realtà
profondamente povero e vuoto. A volte poi
essi si ribellano a questo vuoto compiendo
gesti estremi, apparentemente di ricerca del
piacere, in realtà di autentica
autodistruzione, come nei rave di
ferragosto.
Anche il loro mondo di giovani appare come
autoreferenziale e chiuso, se non per quanto
riguarda i consumi (di droga, di musica, di
gadget e mode di vario tipo) attentamente
forniti da adulti, che lo trattano come un
mercato. In realtà è piuttosto un mondo
abbandonato a se stesso, da cui gli adulti
sono usciti, assecondando le pulsioni e
richieste più elementari dei ragazzi, spesso
per non affrontare la fatica della
contrapposizione, del fare ai ragazzi una
proposta diversa. Che tuttavia, anche per
prendere forma, presuppone che al centro
della vita degli adulti non ci siano i pur
importantissimi ed amati figli; ma loro, i
grandi, con le loro sicurezze e le loro
ricerche, le loro delusioni e le loro
passioni.
Solo genitori protagonisti della propria
vita consentiranno ai figli di riprendersi
la loro.
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Vacanza evento, o
affidamento alla vita
Claudio Risé, da “Il Mattino di Napoli” del
lunedì, 17 agosto 2009,
www.ilmattino.it
Per la maggior
parte delle persone un po’ di vacanza è già
trascorsa; ancora una manciata di giorni, e
si torna a casa. Come impiegare al meglio il
tempo che resta, evitando la «sindrome da
vacanza insoddisfacente» che perseguita al
ritorno una parte consistente di vacanzieri?
La proposta dello psicoterapeuta è banale,
ma precisa: non cercate di migliorare la
situazione, di lanciarvi in nuove
iniziative, tra le mille proposte del
mercato. Fermatevi, riposate, fate
finalmente vacanza. Una parola che fin
dall’origine latina rimanda a un tempo di
vuoto, di assenza, di impegni mancanti,
tolti dalla routine della vita quotidiana.
Mentre poi nel nostro modello di cultura,
sovrabbondante di oggetti, di impegni, di
consumi, di presenze, di attività, anche
questo periodo si è riempito di moltissime
cose: viaggi, sport, avventure sentimentali,
incontri di mille tipi.
Anche le vacanze dei cosiddetti Vip,
perlomeno come vengono raccontate,
assomigliano a delle corvée: incontri e
rotture sentimentali, viaggi, presenze “dove
non si può mancare”. Ansia e iperattività
proposte come modello contagioso anche al
comune mortale, che non ha nulla da
guadagnarci e tutto da perdere.
Questo ideale di vacanza come “sequenza di
eventi”, più o meno smaglianti e grandiosi,
trasforma la vacanza da vuoto (vacatio), se
non in un vero e proprio lavoro (come è per
molti personaggi dello spettacolo),
perlomeno in un’attivismo mai interrotto.
Così la vacanza si dilegua, e quando è
finita abbiamo l’impressione che non ci sia
neppure stata.
Ci si presenta allora alla ripresa del
lavoro, se non più stanchi, certamente
neppure riposati.
Il passaggio dall’impegno al riposo, dalla
programmazione alla vita giorno per giorno
non è avvenuto. In realtà non siamo mai
usciti dal tempo pieno e non abbiamo goduto
l’effetto rigenerante (anche se leggermente
straniante) del tempo vuoto, che è appunto
quello della vacanza.
Meglio profittare dei giorni che restano per
non lasciarci mancare l’indispensabile:
l’esperienza ormai inedita, e quindi
preziosa, del vuoto. La “vacuità” dei
buddisti, con la loro ripetuta pronuncia
dell’”Om”, l’”Amen” solenne e liberatorio
dei cristiani, l’uscita dall’ansia del fare
per affidarci (almeno per un po’) a quel
ciclo vitale che non siamo noi a controllare
e dirigere, ma in cui ci troviamo comunque.
E’ l’occasione per diminuire gli interventi
e le iniziative, e “lasciar fare” appunto
alla vita: la natura, il ritmo sonno-veglia,
quello della fame e del suo soddisfacimento.
Una vacanza dalle complicazioni, e un
ritorno all’esistenza semplice, elementare.
Rigenerante.
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Lo “sballo” come
modo di vita
(Intervista a Claudio Risé, di Enrico Lenzi,
da “Avvenire”, 12 agosto 2009,
www.avvenire.it)
«Se non si
prende atto della diffusione delle sostanze
stupefacenti in quasi la metà dei nostri
giovani, non si affronta realisticamente
quella che chiamiamo emergenza educativa».
Non usa giri di parole Claudio Risé,
psicoterapeuta e psicologo. «Non si possono
ignorare in questo dibattito i molti
problemi comportamentali e psichici che
riscontriamo in una fetta della popolazione
giovanile» aggiunge.
Nel mirino del psicoterapeuta vi è in
particolare la diffusione della cannabis,
«considerata una droga leggera, quasi
facesse meno male delle altre, mentre al
contrario la letteratura medica
internazionale dice con chiarezza le
devastazioni psicologiche e cerebrali che
genera». E cita indagini e studi
dell’Organizzazione mondiale della sanità,
che parlano «di un consumo di cannabis già
intorno ai tredici anni e comunque prima dei
quindici. Le ricerche psichiatriche hanno
dimostrato come l’assunzione a quell’età
aumenti fortemente il rischio, a partire dai
cinque anni successi, dello sviluppo di
gravi patologie psichiatriche: psicosi e
schizofrenia».
Con ripercussioni anche sulla
formazione di questi giovani?
«Certamente. Persone alterate psichicamente
non sono in grado di recepire in modo
efficace input valoriali e comportamentali.
Ecco perché è sempre più urgente lanciare
campagne informative sui reali pericoli di
queste sostanze. Come hanno fatto altri
Paesi, ma l’Italia non affronta la
questione».
Secondo le ricerche, nel
nostro Paese un terzo degli adolescenti
farebbe uso di cannabis. Numeri
impressionanti che, però, farebbero
immaginare una situazione sociale
decisamente più devastata rispetto a quella
che vediamo. Non c’è forse
dell’esagerazione?
«Anzi. In cronaca finiscono i casi estremi.
La quotidianità delle famiglie italiane è
fatta dai moltissimi casi nascosti, migliaia
di giovani che vivono il malessere
quotidiano, mollando gli studi, con pessime
relazioni familiari, comportamenti reattivi
alternati a depressione. Migliaia di
genitori e docenti possono raccontare le
loro storie».
Quale compito assegna alla
scuola?
«Quello di informare correttamente. Sfatando
il mito della droga leggera, diffondendo il
documento dell’Istituto superiore di sanità
intitolato: La cannabis non è una droga
leggera. Facendo conoscere le ricerche
delle grandi organizzazioni internazionali
della salute sulle conseguenze della
cannabis. Ci sono docenti che già si
impegnano, come ho riscontrato presentando
il mio libro
Cannabis. Come perdere la testa e a volte la
vita. Un testo con
centinaia di precisi riferimenti alle
ricerche disponibili».
A quale età ritiene che la
scuola debba iniziare ad affrontare la
questione?
«Viste le statistiche, si potrebbe iniziare
già nell’ultimo biennio delle elementari.
Del resto per questi ragazzini, il
cosiddetto “sballo” è dietro l’angolo. E con
lui anche il pericolo».
Eppure lo “sballo” viene
considerato quasi un elemento del
divertimento giovanile.
«Sbagliando. Forse un tempo lo “sballo” era
il rimediare una sbronza durante una serata.
Oggi è l’abitudine ad evitare
sistematicamente il confronto con la realtà,
abusando di sostanze intossicanti, che
alterano e creano dipendenza. I ragazzi di
Nettuno che hanno dato fuoco a una persona
hanno detto di ricercare “sensazioni sempre
più forti”. Questo è indotto dalle
alterazioni cerebrali per la dipendenza da
cannabis».
Dunque giovani incapaci di
frenare le proprie azioni, a causa della
droga. Ma così non si rischia di mitigare la
loro responsabilità negli atti compiuti?
«Come terapeuta non posso considerare loro,
malati, i primi responsabili. La principale
responsabilità è degli adulti, che non
forniscono una corretta informazione sui
rischi. Gli adulti devono spiegare e
trasmettere informazioni, norme e regole ai
giovani, i quali hanno una fisiologica
spinta trasgressiva, anche come confronto
tra il loro io in formazione, e il mondo
circostante».
Ritiene che gli adulti di
oggi siano in grado di affrontare questo
compito?
«Se lo si vuole fare non è così complicato.
Negli Stati Uniti, per esempio, dal 2000 è
stata fatta una forte campagna informativa
sull’uso della cannabis e in quasi un
decennio il suo consumo si è ridotto del
25%, abbassando anche quello dell’alcol e di
altre droghe. Come vede quando il mondo
degli adulti vuole, i risultati arrivano. Ma
in Italia non lo si fa: con Malta è ultima
in Europa sulla lotta alla droga».
Per quale motivo?
«Manca la capacità (e la passione) di
mettersi in discussione. Molti dei genitori
di oggi vengono dalle generazioni dagli anni
Sessanta in poi, e non hanno saputo rivedere
con occhio critico la loro giovinezza,
compreso gli spinelli e la cannabis. Sotto
questo profilo se di emergenza educativa
dobbiamo parlare, si potrebbe dire che
riguarda in primo luogo proprio il mondo
degli adulti».
Allora a chi, secondo lei,
spetta compiere il primo passo per invertire
la rotta?
«Di certo nelle famiglie e nella scuola oggi
cresce la consapevolezza dell’esistenza di
questo malessere e della necessità di
affrontarlo. Tra le parti in causa non
dimenticherei i mass-media, indispensabili
per una campagna informativa seria e
corretta, finora mai fatta, e i politici,
gli unici fra quelli dei grandi Paesi a
sottrarsi all’impegno di informare i
cittadini su questi rischi».
Enrico Lenzi
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Il Superenalotto e
l’isola del tesoro
Claudio Risé, da “Il Mattino di Napoli” del
lunedì, 10 agosto 2009,
www.ilmattino.it
Pensatori
autorevoli, statistici e matematici hanno
anche recentemente spiegato perché giocare
alle lotterie, come il Superenalotto, sia
del tutto irrazionale e privo di senso,
visto che le probabilità di vincita sono
grottescamente vicine allo zero. Dunque
persone e popoli dediti a questi giochi,
come gli italiani, sensibili da sempre a
queste passioni, rivelerebbero in questo
modo un lato infantile, un poco lodevole
legame col pensiero magico. Ma siamo sicuri
che sia davvero così?
La frequentazione attenta di qualsiasi
botteghino dove si vendano biglietti delle
magalotterie ci fornisce informazioni
diverse. L’atmosfera è positiva, piuttosto
elettrica, ma cordiale. Già lì, mentre paga,
la gente ha l’aria di divertirsi, cosa non
frequentissima nell’attuale società di
massa, e comunque indice di salute mentale.
I posti malsani sono quelli dove la gente è
spinta a soffrire, non quelli dove si
diverte. Piacere, e tormento, segnano la
linea divisoria tra salute psichica, e
malattia.
Qui invece, mentre esco e il gestore sta
abbassando la saracinesca, arriva trafelata
una giovane donna in bicicletta e chiede
autoironica: «Come, già chiuso? Anche
stavolta non diventerò ricca…»? Il fatto è
che anche lei, come tutti gli altri, ha già
cominciato a sognare. Per questo investe
qualche spicciolo nella giocata, per questo
sorride, sperando che il tabaccaio le prenda
il foglietto che ha preparato.
Il grande popolo dell’Enalotto compie
insomma, quando può e si ricorda, la
fondamentale operazione terapeutica di dare
spazio all’immaginazione, che è poi la
bombola d’ossigeno della psiche, la lampada
magica che, se strofinata, lascia uscire il
suo genio benefico. Fumoso, ma pronto ad
ascoltare i nostri desideri.
Il costo della giocata, con la sua minima
speranza di vincita, rappresenta il rito di
ingresso per autorizzarsi a sognare: quali
desideri realizzare, quali regali fare,
quali oggetti belli concedersi. Se lo scopo
è quello di immaginare, e non veramente
quello di vincere, perché però pagare una
tassa agli organizzatori delle lotterie, e
allo Stato; perché non sognare per conto
proprio, senza pagare balzelli di sorta?
Innanzitutto, per fortuna, se una persona
sta bene non si limita a sognare con le
lotterie, ma coltiva anche sogni più
personali, intimi e profondi, meno monetari.
Ciò che però le grandi lotterie forniscono è
la possibilità di inserire i propri sogni
personali in un grande movimento di
immaginazioni e speranze collettive, col
risultato di rafforzarli con le emozioni di
tutti gli altri che partecipano al rito.
L’operazione psicologica non si svolge più
all’interno del conscio e inconscio
personale, ma tra questo ed il grande ed
impetuoso fiume dell’inconscio collettivo:
quello delle speranze (e dei timori)
condivisi con molti altri. È una variante
moderna dei grandi «misteri» dell’antichità,
nei quali i gruppi si esaltavano
collettivamente nell’incontro con gli Dei,
spesso rappresentativi della Fortuna, o del
Destino.
In questo modo l’Enalotto, o la Sisal,
svolgono la funzione sociale di organizzare
con profitto un bisogno psicologico e
affettivo specifico dell’essere umano.
Certo, come ogni passione, anche questa può
alimentare dipendenza patologica, in questo
caso dal gioco. Non è però la lotteria a
generare dipendenza; essa viene piuttosto
utilizzata da nuclei di fissazioni psichiche
ossessive che in assenza di questi giochi,
si rivolgerebbero ad altri riti.
Nell’attesa dell’estrazione, a volte poi
dimenticata, si viva il gioco per quello che
è: la frequentazione di quell’«isola del
tesoro» che è l’immaginazione umana.
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Tornano gli schiaffi ai figli
Claudio Risé, da “Il Mattino di Napoli” del
lunedì, 3 agosto 2009,
www.ilmattino.it
Si torna a
parlare di schiaffi nell’educazione.
L’occasione è l’iniziativa di un nuovo
referendum, in Nuova Zelanda, per abrogare
quello di due anni fa che aveva appunto
proibito le botte. Ci si chiede se sia
sensato mettere in forse il divieto di
punizioni corporali verso i minori. È questo
un terreno sul quale l’esperienza
psicoterapeutica ha però qualcosa da dire.
Le storie che raccontano i pazienti sono
infatti più sfaccettate della naturale
ripugnanza verso la violenza ai bambini.
Sono molte, infatti, le persone che
raccontano di rapporti coi genitori dove
l’ultima parola era sempre lo schiaffo (o
peggio). Quando in queste punizioni c’era
compiacimento da parte dei grandi, le ferite
sono rimaste sull’anima di chi le ha
ricevute.
La conseguenza più grave e frequente è
probabilmente questa: chi subisce da piccolo
atti di sadismo, presentati come giusta
conseguenza di qualche trasgressione,
finisce spesso col capovolgere il proprio
rapporto col piacere. Capita allora che da
grande sia spinto a ricercare attraverso la
punizione quel godimento che provava il
genitore che lo castigava «per il suo bene»,
e che il bambino inconsciamente intuiva (e a
cui partecipava). Come si vede, si tratta di
un danno psicologico e affettivo piuttosto
grave, e non semplice da trasformare.
Dalle storie di chi soffre emerge però anche
un’altra realtà. Spesso il bambino ha
vissuto come crudele e violento non lo
schiaffo, ma la freddezza, non
l’aggressività fisica, ma la distanza. Una
delle prime intuizioni della psicoanalisi,
del resto, fu proprio la constatazione che
nell’aggressività c’è anche uno slancio
affettivo, un «andare verso l’altro» che è
parte integrante dell’esperienza dell’amore.
Da allora, l’esperienza clinica, in tutto il
mondo, ha confermato che un’educazione
distante e compassata è vissuta come molto
più crudele dell’altra, magari troppo
gridata e incontinente. I film di Ingmar
Bergman (come la gran parte della produzione
artistica del Nord Europa), descrivono
perfettamente siffatte situazioni.
Questi risultati dell’osservazione
psicologica non sono, in fondo,
sorprendenti. La prima esigenza del bambino
è infatti quella di ricevere amore,
attenzione, calore. Non ha poi tanta
importanza che questo venga offerto in modo
educato, corretto, oppure emotivamente
sovrabbondante. Il fatto decisivo è che
l’amore ci sia.
La distanza fisica, la freddezza emotiva, la
voce che non si alza, la mano che non tocca,
non stringe, e si tiene invece alla larga,
come tutto il corpo dell’adulto, è vissuta
dal bambino come un rifiuto, un abbandono.
Le conseguenze in questo caso possono essere
ancora più gravi, ed arrivare fino alla
scissione della personalità.
Tutto ciò spiega perché spesso l’ex bambino
affettuosamente e frequentemente percosso
non abbia un ricordo spiacevole di quell’esperienza,
ma la consideri anzi una manifestazione di
affetto e di attenzione preziosa, che è
pronto a ripetere con i suoi propri figli.
Allora, che fare con i nostri figli?
Scapaccioni o parole? Come al solito, non si
può contrapporre ideologicamente l’uno
all’altro. L’educazione è il luogo dello
sviluppo affettivo, istintuale e cognitivo;
la «non violenza» non c’entra, conta la
crescita equilibrata della personalità del
bambino. Che ha bisogno di affetto,
manifestato anche col contatto fisico:
carezza, ma anche scapaccione, se viene
naturale, di slancio, accompagnato da un «ti
voglio bene!».
Attenzione, poi a non voler spiegare tutto:
un gesto affettivo, come la carezza (e lo
scapaccione), è più eloquente di infiniti, e
snervanti, discorsi. Gesto e parola vanno
assieme.
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La
droga e il declino
Claudio Risé, da “Avvenire”, 31 luglio 2009,
www.avvenire.it
L’Italia non è
in declino, ha rassicurato il ministro
dell’Economia. Una valutazione che fa
piacere. Per dare piena fiducia, tuttavia,
essa va incrociata anche con dati non
specificamente economici, considerati
ovunque significativi del livello di
sviluppo e di dinamismo di un Paese.
Tra questi, molto importanti quelli relativi
al consumo di droghe. Un Paese drogato si
sviluppa meno, e in modo meno solido. Non
solo per i costi sanitari altissimi indotti
a medio e lungo termine dalla fetta di
popolazione intossicata; ma per la minor
vitalità che l’uso di droghe produce sia sul
piano dell’iniziativa (anche economica) che
su quello cognitivo (ricerca e innovazione)
e affettivo (stabilità delle relazioni,
estraneità alle devianze). Molti dei guai
del capitalismo più recente, da aziende
pessimamente dirette negli anni ’70
all’ultima crisi economica, hanno tra le
loro caratteristiche l’uso di droga da parte
di alcuni fra i loro protagonisti.
Inquieta, dunque, che anche l’ultimo
World Drug Report dell’Onu segnali il
continuo aumento dell’uso di droghe in
Italia, arrivando a dedicare un apposito
paragrafo al fenomeno (specificatamente
italiano) del raddoppio nell’uso di cannabis
e suoi derivati. La droga più usata nel
mondo, il cui costo non diminuisce ma
cresce, il trampolino di lancio verso tutte
le altre droghe. Alcol compreso, recente
piaga giovanile, di cui ci si è finalmente
accorti negli ultimi mesi.
«Non è simpatica la posizione italiana
rispetto agli altri Paesi europei per quanto
riguarda l’uso di cannabis – ha affermato
Antonio Costa, direttore dell’Ufficio delle
Nazioni Unite per il contrasto alla droga –.
L’Italia è l’unico Stato che mostra dati in
crescita».
Il rapporto dell’Onu infatti, dopo aver
segnalato la netta diminuzione in atto
nell’assunzione di cannabis nei grandi Paesi
sviluppati (in testa i giovani inglesi fra i
16 e i 24 anni con un meno 37% nell’ultimo
decennio), e l’inizio di diminuzione nei
Paesi dell’Est (Repubblica Ceca, Slovacchia
e Polonia) che avevano preoccupato negli
ultimi anni, presenta il caso italiano: «La
situazione è diversa in Italia, dove il
tasso di consumo di cannabis tra la
popolazione dai 16 ai 59 anni è più che
raddoppiato negli ultimi anni, passando dal
7,1% nel 2003 al 14% nel 2007. L’Italia è
dunque diventata il maggiore mercato europeo
della cannabis, con circa 5,7 milioni di
utilizzatori nel 2007, su un totale di circa
30 milioni di utenti di cannabis nell’intera
Europa. Questo riflette, tra l’altro,
l’ampia disponibilità di erba di cannabis
proveniente dall’Albania e dall’Olanda, e la
crescente produzione domestica dal Sud
Italia».
Sono dati che, sommati alla continua
crescita del consumo di cannabis nei Paesi
poveri e in via di decollo, e al progressivo
disinteresse per questa e per le altre
droghe negli Stati a più forte sviluppo
industriale e scientifico, gettano un’ombra
pesante sulla qualità e solidità dello
sviluppo nel nostro Paese. E accompagnano
anche gli aspetti più poveri e scomposti
della sua scena politica.
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Dialogo e norme contro la droga
Claudio Risé, da “Il Mattino di Napoli” del
lunedì, 27 luglio 2009,
www.ilmattino.it
Come fare
quando (come in Italia) oltre il 40 per
cento dei giovani tra i tredici e i vent’anni
assume sostanze psicoattive, dall’alcol a
ogni tipo di droga, senza dimenticare il
crocevia obbligato dell’onnipresente
spinello? Emanare ordinanze e perseguire chi
gliele vende (come fa il Comune di Milano),
vietare l’alcol ai neopatentati, sottoporli
ai narcotest (come prevedono le nuove norme
sulle patenti), moltiplicare i controlli?
Oppure dialogare coi ragazzi, ascoltarli? E
se loro non parlano?
Se ne discute in questi giorni, mentre le
cronache e i dati statistici presentano una
gioventù sempre più spesso alterata e fuori
controllo, scolasticamente e socialmente in
difficoltà. Il dibattito è però falsato dai
condizionamenti ideologici. Chi approva i
controlli, viene etichettato come «falco», e
accusato di non voler dialogare. È anche
vero, d’altra parte, che la retorica opposta
della «tolleranza zero» considera il dialogo
come sinonimo di debolezza, e di perdita di
tempo. La verità è come sempre meno
unilaterale.
Le principali potenze industriali, dagli
Stati Uniti alla Francia all’Inghilterra,
hanno affrontato ormai da tempo la tendenza
dei ragazzi a rifugiarsi nelle droghe,
tipico problema della postmodernità. Lo
hanno già fatto non perché fossero in
condizioni peggiori delle nostre, ma perché
sono più attenti, concreti, e meno
ideologici. Si sono così accorti che è
indispensabile tutto: informazione, dialogo,
controlli e divieti.
Da noi invece l’Istituto superiore di sanità
ha prodotto fin dall’inizio del millennio un
documento intitolato «La Cannabis non è una
droga leggera», e ancora oggi media,
politici ed anche ministri continuano a
parlare di hashish e marijuana (i derivati
della cannabis) come se invece lo fossero.
Preferiscono usare la droga come strumento
di propaganda politica, piuttosto che come
un’emergenza nazionale, che deve essere
affrontata unitariamente, da tutti.
L’informazione è la prima necessità. In
internet, sul sito della Casa Bianca, è
perfettamente descritto come le varie droghe
danneggino le diverse aree cerebrali. Da noi
invece si giudicano ipotesi acquisizioni
scientifiche ormai stabilite da anni: la
pericolosità altissima (anche se su zone
cerebrali diverse) di ogni droga; la
relazione tra depressioni non riconosciute e
l’uso di sostanze; la loro induzione di
patologie psichiche gravi (forme paranoidi,
psicosi, schizofrenie); i danni sempre
prodotti sul piano cognitivo: memoria, sfera
degli interessi, volontà. E gli altri danni
fisici: polmoni, genitali, fegato, cuore.
Assurdo quindi parlare di droghe, senza
fornire prima ai nostri figli le
informazioni sui rischi che corrono, con la
relativa documentazione scientifica. Per
farlo, però, gli adulti devono informarsi a
loro volta. La maggior parte dei genitori, e
degli educatori (come anche dei politici),
infatti, non li conosce.
Raccolte le informazioni, occorrono norme e
sanzioni. Perché? Adulti che, di fronte ad
un fenomeno come l’intossicazione di
un’intera generazione, non legiferano con
ordinanze e misure idonee, non sono
credibili. Evidentemente non vogliono
assumersi responsabilità: o perché non
ritengono il fenomeno davvero grave, o
perché sono deboli. In entrambi i casi, il
dialogo non parte: se non sei convinto di
quel che dici, o se non sai cosa dirgli,
perché il ragazzo dovrebbe ascoltarti?
Norme e divieti, con le relative
informazioni, sono dunque tra le premesse
del dialogo, che è un confronto tra le
esperienze del giovane e le conoscenze
dell’adulto. Se non hai informazioni
precise, tradotte in norme, nessun ragazzo
ti ascolterà. Lo si può anche capire.
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Aborto e futuro: la crisi del dono
(Di
Lucetta Scaraffia, da “L’Osservatore
Romano”, 24 luglio 2009,
www.vatican.va)
Due notizie di
questi giorni - la promessa di Obama di
impegnarsi per ridurre il numero di aborti
negli Stati Uniti e l’approvazione a larga
maggioranza nella Camera dei deputati
italiana di una mozione da presentare
all’Assemblea generale delle Nazioni Unite
contro l’aborto come strumento di controllo
demografico - sembrano indicare che si sta
chiudendo una fase storica iniziata negli
anni Settanta, quando si diffuse l’opinione
che l’aborto andava garantito come diritto
di libertà delle donne, e doveva quindi
essere considerato una possibilità positiva
nell’esercizio di un diritto individuale.
Sull’eco di questa convinzione - affermatasi
grazie alla propaganda ideologica radicale e
femminista - l’aborto è stato diffuso come
mezzo di controllo delle nascite nei Paesi
del Terzo mondo anche da agenzie
internazionali, e propagandato come
strumento per assicurare la libertà delle
donne persino quando viene imposto dallo
Stato. Oggi, la crisi demografica e le voci
di protesta che si sono levate soprattutto
da parte della Chiesa cattolica - che sempre
si è battuta perché nelle conferenze
mondiali l’aborto non venisse considerato
ufficialmente un metodo di contraccezione e
un segno di liberazione delle donne - stanno
provocando un ripensamento sulla questione,
che coinvolge anche il femminismo.
Del resto, è ormai evidente che non si è
realizzato neppure quello che veniva
sbandierato come un buon motivo a sostegno
della legalizzazione dell’aborto, e cioè la
sicurezza che in questo modo il ricorso
all’interruzione di gravidanza sarebbe
diminuito fino a sparire, anche grazie alla
libera diffusione degli anticoncezionali.
Non solo gli aborti continuano a essere
praticati, anche nei Paesi dove è larga
l’informazione sugli anticoncezionali, ma il
fenomeno coinvolge fasce di età sempre più
basse.
Perché le nostre società non riescono a
debellare questo male? Sarebbe il momento di
porsi davvero questa domanda, e di cercare
delle risposte convincenti e non
ideologiche. A questo proposito, un aiuto a
capire viene dall’ultimo libro dello
psicanalista Claudio Risé (La
crisi del dono. La nascita e il no alla vita,
Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009, pagine
160, euro 12), secondo il quale “l’aborto
non nasce solo dalla malvagità o distrazione
individuale, o dall’opportunismo di gruppi
politici inconsapevoli o irresponsabili.
Esso - sottolinea lo studioso - affonda le
sue radici in un terreno psicologico,
cognitivo e affettivo molto più vasto, ed è
alimentato dalla maggiore tentazione
regressiva da sempre presente nella psiche
umana: quella di uccidere il nuovo, lo
sviluppo, il cambiamento, appena comincia a
prendere forma. Prima che nasca, e ti
costringa a cambiare con lui”.
Con un percorso di lunga durata, che parte
dai miti dell’età greco-romana per arrivare
alla tradizione giudaico-cristiana, l’autore
riscopre il significato della nascita nelle
tradizioni religiose, e cioè un significato
di rinnovamento e di rinascita, a cui si
oppone spesso la paura: “Uccidere il
nascente, fermare il tempo, è naturalmente
anche un modo di pensare inconsciamente di
vincere la nostra morte, fermando il tempo
nel quale essa è iscritta”.
Così uccidono i bambini appena nati
Crono-Saturno (che paga questa pulsione
negativa con la malinconia e il pessimismo)
ed Erode, entrambi per mantenere il potere
che ritengono minacciato, ma anche Medea,
che si sente onnipotente: perché, sempre,
“la nascita di un nuovo essere umano produce
nel mondo una scissione fra adesione e
opposizione alla trasformazione”. E infatti
Gesù, che crede e vuole la trasformazione,
accoglie con gioia e affetto i bambini, gli
annunciatori del nuovo mondo.
Il modello culturale della moderna società
occidentale, dove l’aborto è diventato un
diritto, è fondato sul controllo delle
situazioni e sul possesso di persone e cose,
e guarda con diffidenza l’affidarsi e
l’accogliere, cioè il dono. Molto spesso si
rinuncia al bambino che nasce per avere,
“divorare, incorporare, altro: denaro,
comodità, carriera, status, divertimenti”.
Del resto, non è la prima volta - scrive
Risé - che “l’uomo costruisce idoli
materiali, per sottrarsi al dono di sé, che
ha la sua immagine vivente nel figlio, nel
bimbo che nasce”; ma poi, sempre, spinto
dall’infelicità e dalla solitudine, ha
riaperto il cuore all’accoglienza.
Speriamo che le notizie ricordate all’inizio
abbiano seguito positivo e siano davvero i
primi segnali di una inversione di tendenza:
verso una apertura al dono, al bimbo che
nasce. E quindi alla speranza del futuro.
Lucetta
Scaraffia
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Zero in condotta al «10» politico
(Di
Stefano Andrini, da “Bologna Sette”, 19
luglio 2009,
www.bo7.it)
Risé: «Così si
cancella il principio di autorità»
«Così si
mina alla base il principio d’autorità», lo
afferma Claudio Risé, psicoterapeuta e
docente di Psicologia dell’educazione alla
Facoltà di Medicina e Chirurgia
dell’Università di Milano Bicocca,
commentando la vicenda delle «Longhena» di
Bologna dove 24 maestre, per protestare
contro la reintroduzione del voto decimale,
hanno dato il 10 in pagella a tutti gli
alunni.
«Il punto pregiudiziale», sottolinea Risé,
«è l’immagine che le maestre danno di sé, e
dell’autorità in generale, nel momento in
cui, di fronte ai bambini, prendono una
posizione contraria all’autorità cui sono
sottoposte per legge. Un intervento di
questo tipo mina alla base il loro rapporto
coi bambini. È come se dicessero loro:
“L’autorità non vale nulla. Vi dimostriamo
che si può fare il contrario”.
Questo messaggio, inviato a chi hanno il
compito e il dovere di educare, passa una
consegna molto precisa: “Ciò che vi diciamo
è in ogni momento opinabile e potete fare
esattamente il contrario, così come facciamo
noi nei confronti del ministro”. In questo
modo si incrina alla base qualsiasi processo
educativo, che richiede fiducia totale da
parte dei bambini ed un riconoscimento del
principio d’autorità.
Casi come questo», aggiunge Risé,
«dimostrano che il principio d’autorità è il
grande disperso della scuola italiana. E
trascina nella sua caduta una serie di altri
principi come quelli ad esempio di
legittimità e responsabilità. Se si può fare
il contrario di ciò che l’autorità chiede,
come fanno i bambini a sapere a chi devono
ubbidire?
La maestra è titolata a chiedere cose ai
bambini in quanto dipende da un’istituzione,
il ministero della Pubblica istruzione, a
cui ne è affidata l’educazione. Ma se fa il
contrario di ciò che dice il ministero,
perché il bambino deve riconoscerla come
soggetto educatore? Da dove deriva la sua
legittimità nel chiedere ai bimbi quello che
chiede? E ancora, guardando al principio di
responsabilità: le maestre sono responsabili
nei confronti di qualcuno o fanno quello che
passa loro per la testa? E se lo sono, nei
confronti di chi lo sono, se non
dell’autorità da cui dipendono?
Partendo da un episodio di questo genere
possiamo avviare un’ampia riflessione, in
cui rintracciamo una serie di manifestazioni
e di episodi anche di cronaca: il tipico
smarrimento dell’adolescente, che non sa più
a chi dar retta, se al dj, al barista, alla
maestra o al preside, deriva anche da
questo.
Per quanto riguarda le famiglie», conclude
Risé, «devono essere consapevoli che gli
insegnanti sono al loro servizio, al
servizio dell’educazione dei loro bambini. E
che hanno una possibilità diretta di
intervento nella scuola attraverso la
politica. Se sosterranno, unite, la
posizione del ministero, le maestre, che al
ministero sono sottoposte, saranno costrette
a cambiare atteggiamento.
Le famiglie quindi hanno potere contrattuale
attraverso l’azione politica: possono
mobilitarsi, ricorrere al ministero,
organizzare manifestazioni e lo devono fare
nell’interesse dei loro bimbi».
Stefano Andrini
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All’educazione servono dighe simboliche
Claudio Risé, da “Avvenire”, 21 luglio 2009,
www.avvenire.it
L’ordinanza
del sindaco di Milano che vieta la vendita
di alcolici ai minori di 16 anni è una
misura giusta. Malgrado il dilagare
dell’alcolismo tra i più giovani, in Italia
non era ancora stata adottata (al di fuori
della provincia autonoma di Bolzano, e, più
recentemente, di Monza); è dunque anche
coraggiosa e contagiosa, come confermano,
per un verso, certe trasversali irritazioni
politiche e, per l’altro, l’avvio di
analoghe e altrettanto trasversali
iniziative.
A uno sguardo più ampio appare però
un’assunzione di responsabilità perfino
ovvia: nessuna istituzione pubblica può
accettare che i giovani si autodistruggano,
senza far nulla. Misure simili sono infatti
già state varate direttamente dallo Stato
perfino in Francia, Paese dove la lobby dei
produttori di alcolici è tradizionalmente
fortissima. In Usa sono attive fin
dall’inizio del millennio, con risultati
eccellenti sia sulla diminuzione dei
consumi, che delle patologie correlate;
ottenuti anche per le grandi campagne di
informazione sui danni della sostanza-base
dello ’sballo’, anche alcolico: la cannabis
e i suoi derivati, hashish e marijuana.
La salute psicologica e fisica dei giovani
occidentali è oggi infatti messa a rischio
da diversi mix di sostanze (cannabis sempre
presente, alcol, anfetamine, cocaina),
assunte per fuggire dalla realtà e dalle
loro responsabilità nel mondo: la
poliassunzione di diverse droghe è la
regola.
Di fronte alla crescente popolarità tra i
ragazzi di uno ’sballo’ che distrugge le
loro capacità cognitive e affettive, la
presa di posizione da parte del mondo degli
adulti è dunque un atto dovuto, e
indispensabile perché i giovani possano
impegnarsi per la loro salute, e non per la
propria distruzione. Letizia Moratti lo sa
bene, anche per il suo pluridecennale
impegno personale nella fondazione e
sviluppo di San Patrignano, fra le maggiori
comunità di recupero del mondo. I sindaci, i
governanti, i capi delle strutture
educative, devono perciò assumersi la
responsabilità di dire: noi non vogliamo che
vi distruggiate e faremo quanto possiamo
perché ciò non avvenga.
Chi detiene poteri decisionali pubblici, per
essere credibile, non può però limitarsi a
dichiarazioni di intenzioni, ma deve
accompagnarle con delibere, ordinanze,
leggi. È stato detto (don Gino Rigoldi) che
si tratta di un «gesto simbolico», dove
simbolico sembra sinonimo di «inutile». Ma
ogni norma ha innanzitutto un valore
simbolico: essa indica la posizione presa
sulla questione dalla comunità, attraverso
le delibere dei suoi rappresentanti. Senza
questa prima assunzione di responsabilità, e
orientamento, non si dà nessun sviluppo
educativo (è qui che nasce l’«emergenza
educativa »).
Poi le norme vanno applicate, fatte
rispettare, e non è mai una passeggiata.
Ogni genitore, ogni educatore conosce il
delicatissimo processo di ascolto,
attenzione, contrattazione che la norma
mette in moto, prima di arrivare alla
sanzione. Per poter ottenere qualcosa però,
almeno deve esserci la norma, accompagnata
da una sanzione.
Questa, come dimostra il documentatissimo
fallimento di ogni educazione permissiva,
non è un atto di sadismo, o di arroganza: è
invece un atto d’amore. C’è più amore in un
‘no’, anche dolente, sempre faticoso, ma
franco e aperto alla speranza, che un ‘ni’
ambiguo, che non chiarisce affatto da che
parte tu, adulto, realmente stia. A quel ‘no’,
certo a forte vocazione simbolica, come
sempre il ‘no’ del padre (che non è un
carceriere ma, per necessità, un
legislatore), il ragazzo potrà aggrapparsi
quando potrà e vorrà, come ad una mano
pronta a tirarlo fuori dalla palude dello
sballo (apparentemente euforica ma
profondamente depressiva), per restituirlo
al rispetto di sé e all’avventura della
propria vita.
Claudio Risé
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Come salvare i «ragazzi né-né»
Claudio Risé, da “Il Mattino di Napoli” del
lunedì, 20 luglio 2009,
www.ilmattino.it
Basta con i
piagnistei. Le «colpe della società» siamo
noi stessi a fabbricarcele, uno per uno. Il
«non cercate scuse» che Barack Obama ha
rivolto ai giovani neri, invitandoli a
smetterla di sognare di essere rapper o
campioni di basket, per diventare invece
«scienziati, ingegneri, dottori, insegnanti,
giudici della Corte suprema e presidenti
degli Stati Uniti» era diretto - ha poi
spiegato - a tutti: bianchi e neri, giovani
e adulti. E vale non solo per gli Usa, ma
per tutto l’Occidente.
Il grande problema in questa parte del mondo
è infatti il calo delle aspettative, delle
ambizioni, della voglia di impegnarsi. Anche
il far soldi (e distruggere ricchezza
sociale) con le truffe finanziarie che hanno
provocato l’ultima crisi economica, o il
peso assunto dal narcotraffico e dal consumo
di droghe su cui esso prospera, sono altri
volti dello stesso problema: il disincanto
dell’Occidente e la caduta delle speranze e
delle ambizioni dei suoi giovani.
Quest’anno i media spagnoli li hanno
soprannominati la «generazione né-né», né
studio né lavoro. In Italia sono circa un
milione i giovani in età lavorativa che non
cercano un lavoro, né sono disposti a
studiare per qualificarsi meglio. Due anni
fa il ministro Padoa Schioppa aveva
liquidato l’intero problema parlando di «bamboccioni»
che non volevano crescere, uscire di casa ed
assumersi le proprie responsabilità. Le cose
sono molto più complesse. Tra l’altro, come
ha ricordato Obama, l’atteggiamento
rinunciatario dei figli dipende anche da
quello dei loro genitori: «I genitori devono
assumersi le loro responsabilità, mettendo
da parte i videogiochi e mandando i figli a
letto presto».
La parola chiave in tutta questa faccenda è
infatti: responsabilità. I figli non si
prendono le loro, né come studenti né come
lavoratori, perché i padri non gli hanno
insegnato come si fa, rinunciando per primi
a prendersi le responsabilità poco
gratificanti del genitore-educatore. Così
come gli insegnanti non si sono assunte le
loro, e molti continuano a non volerlo fare,
come le maestre di Bologna che hanno
promosso gli allievi col «dieci politico»
generalizzato, pur di non assumersi la
responsabilità, richiesta dal ministero, di
valutarli coi voti numerici.
Dietro a questa mancata assunzione di
responsabilità sta (come l’osservazione
clinica dimostra) il fondo depressivo della
cultura del narcisismo. «I ragazzi né-né
sono anche figli delle famiglie che non li
spronano», ricorda il ministro per la
gioventù Giorgia Meloni. Genitori e maestri
sono troppo depressi per reggere il
confronto ed il conflitto provocato dal
«no». La bassa autostima dell’adulto
narcisista non regge siffatta prova.
Questo opportunismo impedisce però di
trasmettere ai giovani, assieme ai no, anche
l’energia e la forza che ogni giusto
sacrificio sprigiona. La vita e lo sviluppo
psicologico non sono infatti il risultato di
continue acquisizioni, ma anche di rinunce,
di limiti imposti alle proprie pulsioni, al
proprio egoismo, alla propria prepotenza, in
nome di uno sviluppo, di un «diventare
altro» (e meglio), che rafforza ed orienta
il senso della nostra vita. È questo, in
fondo, il processo educativo, ed è proprio
dallo smarrimento di questa consapevolezza
che nasce quella «emergenza educativa» che
genera gran parte dei problemi attuali anche
nel nostro paese; da quelli che chiamiamo
impropriamente «morali» a quelli economici,
a quelli funzionali, dei servizi.
Occorre assumerci le nostre responsabilità
di adulti per aiutare i giovani a sperare, e
a volere. Obama esprime un’esigenza e un
pensiero ormai sempre più diffuso in
Occidente.
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La
crisi della “società del possesso” e la
rinascita dell’umano
(Intervista a Claudio Risé, a cura di
Antonello Vanni, da “Il Sussidiario”, 13
luglio 2009,
www.ilsussidiario.net)
Oggi il mondo
ha perso il gusto ad un reale rinnovamento,
perché questo implica un dono di sé
all’altro, ed una messa in discussione
dell’Ego, e di ciò che si “possiede”. Quali
sono le conseguenze nella nostra società di
un tale atteggiamento caratterizzato da
chiusura, difficoltà di relazione e scarsa
lungimiranza?
Ne discutiamo con Claudio Risé, psicanalista
e scrittore, che ha appena pubblicato il
libro
La crisi del dono. La nascita e
il no alla vita (San Paolo
Ed., 2009), un’opera che tratta i temi della
nascita e della necessaria rinascita e
trasformazione nel corso della vita
dell’uomo, condizioni che portano ad un
autentico rinnovamento e sviluppo nel mondo
stesso.
Prof. Risé, la prima domanda
sorge spontanea: esiste una relazione tra
l’importante crisi economica che stiamo
vivendo e il carattere di una società, come
la nostra, che nel suo nuovo libro lei ha
definito “società del possesso”? Quali sono
le vie di uscita da questa stagnazione?
La società del possesso produce fatalmente
crisi, proprio perché in essa importanti
risorse, prodotte dalla genialità umana,
dallo sviluppo economico, dalla ricerca
scientifica e tecnologica, vengono
continuamente sequestrate dalle categorie
più avide, che finiscono col distruggerle in
un folle gioco alla moltiplicazione dei
guadagni e dei patrimoni individuali.
L’attuale crisi è nata dalla distruzione di
enormi ricchezze, ad opera dall’alleanza tra
l’avidità di risparmiatori convinti di poter
aumentare a dismisura i propri patrimoni sia
immobiliari che mobiliari, e fasce di
finanza spregiudicata che lo lasciava
credere possibile, per amministrarne le
risorse.
Questa distruzione di energie nuove ha
riprodotto, in campo finanziario ed
economico, quella distruzione di vita nuova
in nome della difesa e incremento degli
interessi e possessi individuali, che io
pongo nel mio libro alla base dell’attuale
“crisi del dono”, e delle pratiche e
legislazioni abortiste.
Da tutto ciò si esce tutelando lo sviluppo
della nuova vita (nuove idee, visioni,
saperi e tecniche), rispetto alla sua
riduzione materialistica in possessi e
guadagni immediati.
Nelle sue pagine è tracciato
un itinerario che esamina le immagini
riguardanti la nascita, accolta o rifiutata,
presenti nell’inconscio, nel mito, e nella
tradizione ebraico cristiana. Si tratta di
un’impostazione piuttosto inusuale,
soprattutto per quei lettori interessati a
comprendere con immediatezza e concretezza i
fenomeni della società in cui viviamo.
Questo studio cosa ci spiega dell’oggi? E
cosa ci insegna?
L’inconscio collettivo, espresso (come ha
mostrato Carl Gustav Jung e la sua scuola)
nei miti e nei cicli leggendari delle varie
culture, come anche nella storia delle
religioni, mostra gli aspetti invarianti,
archetipici, della psiche umana. Per questo,
come osservava la frase di Pasolini che
riporto in esergo, non c’è niente di più
concreto e attuale del mito: parlando di
mille anni fa, svela con sorprendente
precisione l’animo dell’uomo di oggi.
D’altra parte, l’inconscio collettivo
registra anche (e anche questo Jung l’ha
visto) i mutamenti manifestatisi nello
psichismo umano dopo l’avvenimento
cristiano, e la modifica da esso consentita
e richiesta nei rapporti personali, nel
sentimento di amore per l’altro, e di
offerta di sé.
Il rinnovamento antropologico portato dal
cristianesimo ha al proprio centro una
nascita ed un dono, quello di Dio fatto
uomo, destinato a provocare il rinnovamento
del mondo, e di ogni singolo uomo, nella sua
vita personale. Da allora in poi ogni uomo,
ed ogni società, può scegliere tra il
rinnovamento e la trasformazione di sé (la
rinascita che Gesù indica a Nicodemo), o la
difesa dell’esistente. Questa seconda
soluzione, l’osservazione clinica lo mostra
bene, innesca in realtà un processo
regressivo, e di distruzione di vita.
Parlare di rinnovamento e
rinascita significa parlare anche di
bambini. Lei cita in esergo un passaggio di
Elie Wiesel: “Hai paura di diventare grande?
Sì, paura di diventare grande in un mondo
che a dispetto delle sue magniloquenti
dichiarazioni, non ama i bambini; ne fa
piuttosto i bersagli del suo dispetto, della
sua mancanza di fiducia in se stesso, della
sua vendetta”.
Effettivamente lo stesso Wiesel,
accompagnando Barak Obama nella visita di
Buchenwald (5 giugno 2009), ha affermato che
nonostante gli orrori della guerra il mondo
non ha ancora imparato a garantire la
dignità della vita umana. Condivide queste
parole di Wiesel?
Assolutamente. La riduzione dell’essere
umano ad oggetto, e l’annichilimento della
sua dignità, continua ad essere la grande
tentazione cui l’uomo è sottoposto, e spesso
soggiace.
Le categorie linguistiche e retoriche del
“politicamente corretto” sono funzionali
alla copertura e al mascheramento di questa
realtà drammatica. L’uomo è pronto ad
uccidere l’altro uomo, il bambino che nasce,
le idee, la personalità, o il carattere di
un’altra persona (come quotidianamente
accade nella lotta politica), pur di non
cambiare, per affermare quello che ritiene
il proprio interesse.
Trattando il tema della
relazione tra uomini e donne Lei afferma che
il bambino che nasce è una figura decisiva
per lo sviluppo pieno dell’amore nella
coppia. In che senso?
L’amore tra i due richiede sempre l’apertura
ad un “terzo” per dispiegarsi completamente.
Dal punto di vista trascendente si tratta,
naturalmente, di Dio, che istituisce l’amore
stesso, con il suo amore creativo, a cui
occorre restare aperti, e rivolti. Nella
dinamica della coppia il terzo è però anche
il bambino (i bambini), e può estendersi ai
figli simbolici della coppia: le idee, le
iniziative, le opere.
Da quanto Lei dice nella sua
opera il processo di secolarizzazione ha
avuto un ruolo negativo nella relazione
d’amore tra l’uomo e la donna, e in
particolare sul matrimonio. Una domanda
provocatoria: in un mondo senza Dio non è
davvero possibile l’amore tra gli individui?
Il fatto è che, per fortuna, non basta
negarlo, per fare sparire Dio. Molti atei
fanno in realtà riferimento ad un principio
superiore, di bene, che interiormente è
vissuto come la personalità religiosa vive
Dio.
Certo quando la negazione diventa sistemica,
come è accaduto nei totalitarismi comunista
e nazista, l’amore tra le persone tende a
diventare problematico, e ad essere
sostituito dall’obbedienza al Partito. Ciò
continua ancora oggi, per certi versi, nelle
sottoculture politiche che fanno riferimento
a quelle realtà.
Secondo quanto Lei riporta
nel libro
La crisi del dono, molte donne,
che diedero vita al movimento femminista
negli anni ’70, si stanno oggi accorgendo
della necessità di una rinnovata relazione
tra uomo e donna. Non solo: anche il
movimento degli uomini, presente in diverse
forme anche in Italia, si sarebbe messo alla
ricerca di una nuova visione. Quali sono i
motivi di queste tendenze? E quali i
possibili esiti?
Sia il disincanto femminista, che documento
attraverso una serie di testi e posizioni
note e autorevoli, sia il movimento degli
uomini, cui ho sempre dedicato molta
attenzione, sono realtà ormai affermatesi
fin dagli anni ‘90. Per cui più che di
tendenze parlerei di trasformazioni in corso
da tempo, anche se meno visibili anche per
via del prevalente silenzio loro riservato
dalle comunicazioni di massa. Che
preferiscono il mostro (o la star) in prima
pagina, piuttosto che l’informazione sulla
sottile e profonda trasformazione delle
coscienze, inquietante anche per gli stessi
operatori della comunicazione di massa, in
gran parte devoti proprio a quella società
secolarizzata del possesso, di cui appunto
stiamo parlando.
In un suo precedente libro
Felicità è donarsi. Contro la cultura
del narcisismo e per la scoperta dell’altro
(Sperling & Kupfer, 2004) ha osservato che
le principali vittime della società del
possesso sono i giovani “costantemente
impauriti dalla rappresentazione del mondo
come penuria” sottolineata spesso dal
sistema mediatico. Quali consigli darebbe a
questi giovani, che non di rado esprimono le
loro paure anche nei temi svolti nelle aule
scolastiche?
“Non abbiate paura”, come non a caso hanno
più volte ripetuto gli ultimi due Papi. La
sete di possesso si nutre della cultura
(assai diffusa anche in ambienti cattolici,
perché d’“effetto”) che sottolinea il
bisogno rispetto al dono, la penuria
rispetto alle risorse, la paura rispetto
alla fiducia, il malessere rispetto al
piacere.
Gesù è grato e felice che il vaso con l’olio
prezioso venga versato ai suoi piedi, è il
dono che aumenta le nostre risorse, è
spargere il vaso che ne assicura il continuo
riempimento. Siate generosi: ogni piacere
profondo comincia, e continua, nel dono.
Non mancano comunque i
giovani che si impegnano con convinzione per
difendere una visione della vita portatrice
di rinnovamento, dignità e felicità. Basta
pensare a tutti coloro che si danno da fare
nell’ambito dei movimenti pro-life. A tutti
questi giovani quale strada suggerisce per
una migliore riuscita nei loro traguardi?
Mi sembrano già sulla strada, magari più di
me! La difesa della vita è una strada, che
sprigiona potenti forze di rinnovamento. Da
nutrire sempre, con la devozione all’amore,
ed alla bellezza.
Antonello
Vanni
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Criminali molto perbene
Claudio Risé, da “Il Mattino di Napoli” del
lunedì, 13 luglio 2009,
www.ilmattino.it
Come mai i
delinquenti seriali, fino a quando vengono
scoperti, sono ritenuti bravissimi ragazzi?
C’è qualcosa di sbagliato nel nostro modo di
giudicare gli altri? Ce lo si chiede anche
in questi giorni, dopo che la polizia ha
arrestato, con prove pesanti come il Dna, il
presunto stupratore di molte giovani donne,
braccate nei loro garage condominiali, nei
quartieri della cintura attorno a Roma.
Anch’egli - a sentire conoscenti e vicini -
un «bravo ragazzo», disponibile gentile,
ammodo. Perfino impegnato socialmente,
dirigente di sezione in un partito
parlamentare dell’opposizione.
È vero che da molto giovane, tredici anni
fa, aveva già tentato di stuprare una
vicina, minacciandola con un coltello; e il
giudice l’aveva assolto, perché in quel
momento «incapace di intendere e di volere».
Da allora però non era accaduto più nulla di
strano.
Impiegato amministrativo, un vero uomo
d’ordine, tanto che la fidanzata l’aveva
lasciato perché non aveva mai voglia di far
nulla di speciale, e finiva che si vedevano
poco. Un appartamentino Ikea, impersonale,
come quello del protagonista di Fight Club
(film cult di qualche anno fa) che però lì
butta in aria il suo profilo di «uomo
d’ordine» per fondare un movimento di club
maschili di boxe, e finisce col trovare se
stesso. Mentre l’impiegato romano non ha
fatto nulla di strano, e si è davvero perso.
Naturalmente, questi personaggi
irreprensibili celano poi nei loro sportelli
le loro passioni proibite: in questo caso
filmini su stupri e violenze. Quello è il
ritratto di Dorian Gray nascosto nella
soffitta, che la polizia trova nella sue
perquisizioni.
Il profilo pubblico è un altro:
irreprensibile, ordinato, e quindi
socialmente apprezzato. È però corretta
questa valutazione positiva? O qualcosa non
torna, visto che con ordine e
irreprensibilità si presentano anche
criminali tra i più pericolosi, come quelli
seriali?
L’apparenza ordinata e nelle regole è una
specie di parola d’ordine («sono bravo, da
me non devi temere nulla»), che fa sì che
chi la pronuncia venga accettato, mentre chi
offre di sé un’immagine aggressiva o caotica
sia guardato con sospetto. Ha senso. Però
proprio la storia dei delinquenti seriali
ricorda anche altro.
La perfetta irreprensibilità, l’ ordine
senza sbavature, non è nella natura umana.
La psicologia parla di «Ombra», o di
pulsioni aggressive e distruttive, la Chiesa
di peccato originale, le religioni e
filosofie orientali di karma: ogni visione
profonda della personalità umana constata
che in ognuno di noi c’è l’ordine e il
disordine, l’irreprensibilità e la devianza,
e l’equilibrio consiste appunto nel
riconoscere entrambi, e dosarli in modo
costruttivo, personalmente e socialmente
proficuo.
L’aggressività e l’eros (che Freud collegava
strettamente), una volta riconosciuti e
legittimati daranno allora slancio alle
nostre passioni, che verranno poi
organizzate e trasformate in opere e stile
di vita dalla razionalità e moralità (il
«logos» secondo Jung).
Quando invece l’aggressività e la pulsione
sessuale vengono negate, o perché troppo
forti, o per strutture psicologiche
moralistico-ossessive, o per entrambe le
cose, l’individuo si trasforma nel «bravo
ragazzo» senza ombre. La società e i vicini
sono contenti, ma dovrebbero preoccuparsi
perché, se rimossa, l’ombra si popola di
fantasmi pericolosi.
Il vicino che fa bisboccia non lascia
dormire, ma appunto, almeno non gira per i
garage a stuprare ragazze.
Meglio accettare la visibile «Ombra»
dell’altro (e la nostra), che aiutarlo a
renderla invisibile, e quindi
incontrollabile. Moralismi e perbenismi
generano mostri.
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Quelle vittorie in nome di Dio
Claudio Risé, da “Il Mattino di Napoli” del
lunedì, 6 luglio 2009,
www.ilmattino.it
Federcalcio in
campo contro Dio? Forse non è proprio così,
ma gli assomiglia molto. La Fifa, la
Federcalcio mondiale, nella persona del suo
padre-padrone Joseph «Sepp» Blatter, ha
infatti inviato un ammonimento alla
nazionale brasiliana, cinque volte campione
del mondo, chiedendole di smetterla di
ringraziare Dio sul campo di calcio per le
proprie vittorie. Come aveva appunto fatto
dopo aver battuto gli Stati Uniti nella
finale della Confederations Cup, ripresa
dalle televisioni mondiali.
Secondo la Fifa l’intensa preghiera degli
atleti brasiliani, disposti a cerchio al
centro del campo, abbracciati gli uni agli
altri, il capo chinato verso la terra, era
esagerata. Molti però dissentono. «Se
pregare Dio è esagerato - ha detto il
difensore della Juventus Nicola Legrottaglie
- mi domando allora quali siano i gesti
condivisibili». Tanto più, osservano altri,
che nei campi di calcio avvengono
aggressioni e insulti di ogni genere, sulle
quali la Fifa di rado interviene. Del resto
a ragione: è pur sempre un gioco, con le sue
inevitabili durezze.
Allora, però, perché vietare un momento di
ringraziamento a Dio per la vittoria
ottenuta, un gesto iscritto nella storia
delle gare sportive in ogni tempo e in ogni
cultura? Se non si censurano le bestemmie,
come si può vietare la lode a Dio da parte
dei vincitori? Che senso ha oscurare la fede
degli atleti, visto che moltissimi di loro
affermano pubblicamente di trarre proprio da
lì la loro forza, come Kakà che se lo fa
scrivere sulle magliette?
Non sono questioni banali, né per gli
appassionati di calcio, né per l’intera
società, visto le grandi passioni che il
pallone suscita e moltiplica con la sua
capacità di aggregare masse, atleti,
speranze.
Forse, per dare più efficacia ai loro
interventi contro le pratiche illegali che
spesso crescono all’ombra di questo sport di
massa, le autorità calcistiche potrebbero
invece chiedersi anche quali sono i gesti
virtuosi, positivi, che compaiono sui campi
di calcio. Allora però, perché deplorare un
gesto di devozione, a fine partita?
L’ha spiegato, a suo modo, il dirigente
della Federcalcio danese, che ha sollecitato
il divieto dalla Fifa. «Nel calcio - ha
detto - non c’è posto per la religione.
Mescolare le cose in quel modo è stato come
dar vita a un evento religioso». Il calcio,
però, è (anche) appunto un evento religioso.
Non solo perché i campi dove lo si giocava
erano considerati «spazi sacri» (su essi
verranno poi iniziati i giochi Olimpici, dal
nome della montagna ritenuta sede degli
dei), né perché oggi Berlusconi dichiara il
calcio «la sua religione laica». Ma perché
(come descriveva il filosofo John Dewey,
fondatore della psicopedagogia
anglosassone), lo sport di squadra come la
religione sono fondati sulla comunione, sul
mettersi insieme, sull’unire profondamente
capacità, intuizioni, sentimenti
individuali. Religione, del resto, significa
appunto lego insieme, unisco.
La spinta alla comunione e all’eccellenza
per ottenere la vittoria è nel Dna del
calcio, e la popolarità di cui oggi questo
sport gode la rafforza ulteriormente.
Giustamente la Fifa non fece nulla contro
gli egiziani che invocarono Allah, nella
Confederations Cup, dopo la vittoria contro
l’Italia. Ognuno ringrazia il suo Dio. Lo
stesso rispetto, però, meritano i giocatori
brasiliani ed i moltissimi calciatori e
tifosi che vedono nella passione sportiva un
momento di comunione, e la possibilità di
dare il meglio di sé a lode del Signore,
magari ricevendo in premio la vittoria.
Inutile deplorare: il calcio, come ogni
grande passione, è anche comunione. A suo
modo religiosa.
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Quelle vittorie in nome di Dio
Claudio Risé, da “Il Mattino di Napoli” del
lunedì, 6 luglio 2009,
www.ilmattino.it
Federcalcio in
campo contro Dio? Forse non è proprio così,
ma gli assomiglia molto. La Fifa, la
Federcalcio mondiale, nella persona del suo
padre-padrone Joseph «Sepp» Blatter, ha
infatti inviato un ammonimento alla
nazionale brasiliana, cinque volte campione
del mondo, chiedendole di smetterla di
ringraziare Dio sul campo di calcio per le
proprie vittorie. Come aveva appunto fatto
dopo aver battuto gli Stati Uniti nella
finale della Confederations Cup, ripresa
dalle televisioni mondiali.
Secondo la Fifa l’intensa preghiera degli
atleti brasiliani, disposti a cerchio al
centro del campo, abbracciati gli uni agli
altri, il capo chinato verso la terra, era
esagerata. Molti però dissentono. «Se
pregare Dio è esagerato - ha detto il
difensore della Juventus Nicola Legrottaglie
- mi domando allora quali siano i gesti
condivisibili». Tanto più, osservano altri,
che nei campi di calcio avvengono
aggressioni e insulti di ogni genere, sulle
quali la Fifa di rado interviene. Del resto
a ragione: è pur sempre un gioco, con le sue
inevitabili durezze.
Allora, però, perché vietare un momento di
ringraziamento a Dio per la vittoria
ottenuta, un gesto iscritto nella storia
delle gare sportive in ogni tempo e in ogni
cultura? Se non si censurano le bestemmie,
come si può vietare la lode a Dio da parte
dei vincitori? Che senso ha oscurare la fede
degli atleti, visto che moltissimi di loro
affermano pubblicamente di trarre proprio da
lì la loro forza, come Kakà che se lo fa
scrivere sulle magliette?
Non sono questioni banali, né per gli
appassionati di calcio, né per l’intera
società, visto le grandi passioni che il
pallone suscita e moltiplica con la sua
capacità di aggregare masse, atleti,
speranze.
Forse, per dare più efficacia ai loro
interventi contro le pratiche illegali che
spesso crescono all’ombra di questo sport di
massa, le autorità calcistiche potrebbero
invece chiedersi anche quali sono i gesti
virtuosi, positivi, che compaiono sui campi
di calcio. Allora però, perché deplorare un
gesto di devozione, a fine partita?
L’ha spiegato, a suo modo, il dirigente
della Federcalcio danese, che ha sollecitato
il divieto dalla Fifa. «Nel calcio - ha
detto - non c’è posto per la religione.
Mescolare le cose in quel modo è stato come
dar vita a un evento religioso». Il calcio,
però, è (anche) appunto un evento religioso.
Non solo perché i campi dove lo si giocava
erano considerati «spazi sacri» (su essi
verranno poi iniziati i giochi Olimpici, dal
nome della montagna ritenuta sede degli
dei), né perché oggi Berlusconi dichiara il
calcio «la sua religione laica». Ma perché
(come descriveva il filosofo John Dewey,
fondatore della psicopedagogia
anglosassone), lo sport di squadra come la
religione sono fondati sulla comunione, sul
mettersi insieme, sull’unire profondamente
capacità, intuizioni, sentimenti
individuali. Religione, del resto, significa
appunto lego insieme, unisco.
La spinta alla comunione e all’eccellenza
per ottenere la vittoria è nel Dna del
calcio, e la popolarità di cui oggi questo
sport gode la rafforza ulteriormente.
Giustamente la Fifa non fece nulla contro
gli egiziani che invocarono Allah, nella
Confederations Cup, dopo la vittoria contro
l’Italia. Ognuno ringrazia il suo Dio. Lo
stesso rispetto, però, meritano i giocatori
brasiliani ed i moltissimi calciatori e
tifosi che vedono nella passione sportiva un
momento di comunione, e la possibilità di
dare il meglio di sé a lode del Signore,
magari ricevendo in premio la vittoria.
Inutile deplorare: il calcio, come ogni
grande passione, è anche comunione. A suo
modo religiosa.
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Tempo di voti
Claudio Risé, da “Il Mattino di Napoli” del
lunedì, 29 giugno 2009,
www.ilmattino.it
Tempo di voti,
di promozioni e bocciature. Per gli
studenti, giudicati dai professori, ed anche
per gli insegnanti, promossi o bocciati dai
ragazzi. Con il giudizio poi esposto in
bacheca, prof e studenti accanto, nell’atrio
della scuola. È accaduto in qualche liceo
italiano, tra i quali il famoso Berchet di
Milano, dove studiò Luchino Visconti e
insegnò don Luigi Giussani. Un’idea certo
innovativa. Ma serve davvero alla scuola
italiana e a chi la frequenta? Conviene
rifletterci. Le posizioni più popolari
diventano infatti, rapidamente, norma.
Vediamo allora con calma. Innanzitutto la
bontà delle idee si giudica dalla loro
aderenza alla realtà. A scuola, in
particolare, la personalità adolescente
dovrebbe essere addestrata a riconoscere le
cose come davvero sono e stanno. La scuola
può davvero aiutare i ragazzi a distinguere
tra realismo (descrizione di ciò che c’è) e
velleitarismo (scambiare per reale ciò che
ci piacerebbe fosse).
Da questo punto di vista la promozione e
bocciatura dei professori, con relativa
pubblicità, sembra invece un’operazione del
tutto velleitaria. I regolamenti vigenti
nella scuola italiana prevedono forse che
gli studenti votino, ed eventualmente
boccino, i professori? Nient’affatto. Sono i
professori che, dopo aver insegnato, votano,
promuovono ed eventualmente bocciano gli
studenti. Allora, però, per quale ragione
far credere ai ragazzi che il gioco di
promuovere o bocciare i professori sia
seppur lontanamente paragonabile alle
votazioni (reali) che loro ricevono dagli
insegnanti, tanto da pubblicarlo addirittura
nelle bacheche pubbliche, che sono un po’ la
Gazzetta ufficiale della scuola? Perché non
aiutarli a capire anche la natura
compensatoria della loro improvvisata boria
professorale, con la quale distribuiscono
voti e debiti a chi nella realtà li vota e
li rimanda a settembre, addestrandoli invece
a riconoscere e governare in se stessi
l’antico vizio umano, quello di ritorcere
contro gli altri le angherie che si ritiene
di aver ricevuto?
Si tratta, per giunta, di un vizio altamente
diseducativo, perché a somma zero: finché
trasferisci sugli altri ciò che non vorresti
ricevere non cresci. Quindi,
sostanzialmente, non impari. O almeno non
impari a vivere, ciò che invece dovrebbe
accadere, appunto, a scuola.
La votazione dei professori, virtuale ma
pubblicizzata perché politicamente corretta,
è quindi altamente diseducativa, perché
traveste la realtà, e confonde idee e
identità dei giovani, che invece vanno a
scuola proprio per imparare a chiarirsele.
Il problema della valutazione degli
insegnanti esiste, ed è giusto che gli
studenti vi concorrano, come già accade
(molto opportunamente) all’università ed in
altri Paesi, riempiendo moduli che chiedono
il loro parere sulla chiarezza espositiva,
contatto umano, metodo d’insegnamento, ed
altro. Questi moduli sono però destinati ai
dirigenti scolastici, non alla pubblica, e
piuttosto intimidatoria, affissione.
Certo, questo conferma una differenza: la
valutazione dei professori viene proclamata
in bacheca, è ufficiale, quella degli
studenti no. Infatti, la scuola serve anche
ai ragazzi per allenarsi a vivere
un’esperienza che ripeteranno poi per tutta
la vita: i rapporti non paritari,
gerarchici, o comunque caratterizzati dal
fatto che l’altro sa cose che tu non sai ed
ha poteri che tu non hai. Sarà così con il
capo in azienda, con il pubblico ufficiale,
con il medico.
Fantasticare un universo di pari, quando
siamo tutti diversi, non ci addestra alla
realtà, non ci rende flessibili (parola
chiave soprattutto nella postmodernità),
soltanto presuntuosi.
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Le
pillole del sesso, e le età della vita
Claudio Risé, da “Il Mattino di Napoli” del
lunedì, 22 giugno 2009,
www.ilmattino.it
Cambiano i
comportamenti sessuali, e con loro le
ossessioni che accompagnano Eros (da sempre
dio visionario e facile alle allucinazioni).
Fino a ieri la più frequente era
l’ossessione dell’impotenza. Oggi, dopo la
scoperta del Viagra, l’idea fissa è
diventata quella della prestazione. Il
fenomeno, dicono le statistiche, non conosce
distinzioni d’età: i ragazzi consumano i
farmaci contro la disfunzione erettile con
lo stesso entusiasmo degli anziani. Qui,
però, cominciano i problemi.
Tutta la questione della sessualità è anche
oggi, nel terzo millennio, più spinosa di
quanto sembri, malgrado le semplificazioni
pubblicitarie da una parte e l’aria
sessualmente scanzonata della comunicazione
di massa dall’altra. Contrariamente
all’apparente leggerezza erotica, infatti,
sono ancora moltissimi coloro che guardano
alle pillole blu e gialle con diffidenza, e
che preferiscono aspettarsi l’arrivo della
soddisfazione sessuale da un improvviso
sblocco psicologico, piuttosto che servirsi
anche, in assenza di patologie cardiache o
renali, di questi preparati di provata
efficacia.
Questa diffidenza non deve stupire. Chi
soffre di non far bene l’amore porta spesso
dentro di sé un compagno segreto che (per
ragioni per ognuno diverse) non vuole
accettare di godere sessualmente.
L’amante problematico è dunque, per solito,
ambiguo: non è contento, ma insieme teme di
abbattere quella potente difesa contro
l’altro rappresentata dalla sua difficile
sessualità. D’altra parte anche molti
terapeuti sono restii a condividere con un
preparato chimico il merito di una
guarigione (in questo campo, e anche in
altri, come i disturbi del sonno o le
depressioni).
Alle loro diffidenze si può rispondere che
anche se è vero che la disfunzione erettile
è, nella grande maggioranza dei casi, di
origine soprattutto psicologica, non c’è
dubbio che la sicurezza fornita da un
rapporto riuscito aiuti grandemente a
superarla. A questo scopo, appunto, le
pillole del sesso sono assai utili, anche se
il quadro di ansia e di scarsa fiducia nel
proprio corpo che accompagna una sessualità
problematica merita, per solito, anche uno
sguardo e un trattamento psicologico.
Tra ambivalenze, insufficiente informazione,
e il persistere di quel timore sacro che da
sempre, in ogni tempo ed in ogni cultura,
accompagna le manifestazioni della
sessualità umana, le persone comunque si
arrangiano, e consumano le pillole del sesso
in modo perfino selvaggio (per esempio
rifornendosi anche via internet, da
venditori del tutto incontrollati).
Nella sola Milano, nel 2008, si sono spesi
per questi farmaci 10 milioni di euro. In
cima alla classifica sono gli anziani, sopra
i sessanta, mentre aumenta velocemente anche
l’utilizzo tra i giovani, e giovanissimi.
Per spiegare il consumo tra gli anziani
(anche quelli che si trovano nelle case e
ricoveri che li accolgono), qualcuno parla
di «fantasie di immortalità». Mi sembra sia
piuttosto il contrario: l’anziano sente
vicina la morte e tiene a godere prima di
incontrarla. Inoltre spesso i rapporti, gli
interessi e le soddisfazioni si sono
rarefatti, ed egli conta su quel piacere
elementare assicurato da una sessualità ben
funzionante.
Nel giovane, invece, il supporto chimico
rischia di togliere di mezzo quel mondo di
tremori, insicurezze e scoperte che è
tuttavia indispensabile a un’autentica
formazione sentimentale e umana. Il giovane
a prestazione garantita perde in profondità
e sentimento. Rischia di annoiarsi o
diventare ossessivo.
Agli adolescenti la pillola contro le loro
ansie potrebbe così rubare un patrimonio
scomodo, ma prezioso.
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La
vacanza tra egoismo e socialità
Claudio Risé, da “Il Mattino di Napoli” del
lunedì, 15 giugno 2009,
www.ilmattino.it
È ora di
pensare alle vacanze. Non per farle subito,
ma almeno per rallegrarsi immaginandole, e
soprattutto per cercare di renderle
piacevoli, e adatte a noi. Infatti, come
viene poi raccontato allo psicologo, le
vacanze si rivelano spesso più difficili e
faticose del lavoro. Attenzione, dunque, a
farle riuscire bene, per ricavarne energia e
benessere, ed evitare di ritornare confusi,
e stanchi. Il primo «compito delle vacanze»
diventa allora quello di capire di cosa
abbiamo bisogno. La cosa non è poi
semplicissima.
La vacanza, infatti, è anche un momento
molto personale. Ognuno ha propri bisogni,
fantasie, esigenze da soddisfare del tutto
individuali. Per alcuni, ad esempio, la
vacanza è un fatto soprattutto sociale, per
molti altri, di natura più introversa, è il
momento in cui lasciare finalmente libero il
solitario «esploratore del mondo» che
portano dentro di sé. Comunque, nella
società dei consumi, la vacanza è anche un
prodotto, un «pacchetto vacanze», dove i
bisogni o gusti individuali sono scavalcati
dall’immaginario di massa, con cui devi
identificarti, e dentro cui devi stare, se
non vuoi rischiare la solitudine e
l’isolamento.
A questa prima contraddizione, tra il
bisogno personale e la vacanza
preconfezionata, se ne sovrappone un’altra,
più affettiva: le aspettative familiari, o
del gruppo. Tranne il sempre più numeroso
«popolo dei single», che gode qui di
maggiore libertà (ma ha altri problemi), la
maggior parte delle persone deve
confrontarsi, sulle vacanze, con la propria
famiglia.
I coniugi, i figli, i genitori, gli amici:
ognuno ha aspettative e richieste sulle
«tue» vacanze con loro. D’altra parte anche
tu hai una tua immagine ideale, un tuo
archetipo di vacanza, che non è il caso di
tradire troppo, per non trovarsi poi preda
della «sindrome della vacanza sbagliata».
Proprio il terreno, in sé piacevole, della
vacanza rischia così di generare uno
spiacevole conflitto con gli altri, intesi
come «sistema» di comunicazione e consumo, o
come i propri cari. Tuttavia non bisogna
disperarsi (ma neppure far finta di niente,
come se il problema non ci fosse). Infatti
proprio il conflitto tra la «tua» personale
vacanza, e quella proposta dagli altri,
dalla pubblicità alle persone che ami, offre
infatti l’opportunità di un confronto
delicato, ma fondamentale per l’equilibrio e
benessere psicologico: ciò che si deve agli
altri, e ciò che si deve a se stessi; e fino
dove ci si può spingere nella (sempre
necessaria) mediazione tra le due esigenze.
Dalla corretta conduzione di questo
confronto (che banalmente sembra quello tra
egoismo e altruismo), dipende la maggiore o
minore felicità nostra, e di chi ci sta
intorno.
La questione delle vacanze è forse quella
dove questo conflitto si presenta in modo
più evidente. Da una parte, infatti, proprio
il bisogno che tutti hanno di svago e riposo
mostra bene come questo periodo sia un
nutrimento essenziale per la famiglia, per
la coppia, per la comunità amicale. Però è
anche vero che la persona che ha dedicato
per tutto l’anno le sue energie
all’attenzione agli altri, abbia a volte un
bisogno incomprimibile (e spesso ancora
inconscio), di incontro con se stesso e col
mondo, a cui sarebbe meglio dare ascolto. I
pellegrini che ancora oggi (anzi oggi più di
prima) affollano le strade del «cammino di
San Giacomo» di Compostella, rispondono in
gran parte proprio a questa esigenza. Quella
di darsi il tempo, e un luogo, per cercare
se stessi.
Noi, e gli altri. Vacanza è nutrire
entrambi. Assieme, o in tempi diversi. Dalla
riuscita di quest’equazione dipende il
successo della vacanza.
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Le
alternative allo sballo dei ragazzi
Claudio Risé, da “Il Mattino di Napoli” del
lunedì, 8 giugno 2009,
www.ilmattino.it
Questa sarà
una settimana di passione per molte famiglie
italiane. Per le elezioni? No, quelle
appassioneranno alcuni, ma non tutti (e
forse è un errore). Tutti, o quasi, saranno
però coinvolti dall’ormai prossima fine
delle scuole. Un evento che richiede a
famiglie e ragazzi un bilancio, e un
programma. Il bilancio di ciò che a scuola è
avvenuto, di cosa i ragazzi hanno imparato.
Il programma dei prossimi, lunghi mesi di
vacanza, da rendere meno dannosi e più
fecondi possibile.
Nessuna delle due operazioni è semplice.
Entrambe, infatti, devono vedersela con la
condizione giovanile: oggi, come sempre, un
intrico di contraddizioni. Il giovane ha un
bisogno vitale di essere formato, ed un
altrettanto vitale bisogno di ribellarsi al
tentativo di formarlo (e formarsi).
L’adolescenza è contemporaneamente il luogo
della massima passività, plasticità, e della
massima anarchia. Guai se non fosse così. Se
vince la passività, e il giovane diventa
succube degli educatori, la sua
intelligenza, originalità, e vitalità stessa
tendono a spegnersi. Si hanno così quei
ragazzi magari anche diligenti, ma sempre
meno originali, e tendenzialmente depressi,
che rischiano poi di sviluppare negli anni
successivi, intorno al difficile passaggio
dei vent’anni, problemi psicologici, e a
volte cognitivi assai delicati.
Se però vince la ribellione e la tendenza a
rifiutare ogni regola, il rischio è
altrettanto grave. Il giovane non impara
nulla, neppure su di sé, non sviluppa
nessuna competenza e concentrazione. Si
abitua così a bilanciare la scarsa stima di
sé con un ribellismo generico, attraverso il
quale rovescia sugli altri e sul mondo
problemi e mancate assunzioni di
responsabilità che, invece, sono
innanzitutto le sue.
La difficile esperienza della scuola
dovrebbe abituarlo a respirare coi suoi
polmoni, ad interrogarsi sulle proprie idee
e capacità, fornendogli dei metodi di auto
conoscenza e sviluppo, e nutrendolo con le
grandi immagini del cammino umano: l’arte,
il pensiero, la scienza.
Questo lavoro, difficile da sempre, oggi
deve confrontarsi con nuove criticità. Da
una parte i ragazzi, bombardati da immagini
di vita “facile” e di scarso impegno,
sviluppano forti difficoltà di
concentrazione e progettazione di un
realistico avvenire. Dall’altra gli
insegnanti, formati all’interno di una
cultura “debole”, edonistica ed ideologica
insieme, faticano a ritrovare quelli
strumenti emotivi e cognitivi (passioni,
narrazioni “esemplari”) che motivano i
ragazzi ad una vera esperienza educativa.
Il risultato è, come si scoprirà fra pochi
giorni, che molti ragazzi hanno imparato
poco, e dovranno ristudiare le materie, a
volte ripetere l’anno. La maggiore chiarezza
adottata dal Ministro Gelmini toglie di
mezzo inutili illusioni (che non fanno che
rinviare il problema), ma pone con evidenza
la sfida della verità: non hai studiato;
perché? Dalla verità almeno si può ripartire
per un progetto diverso, mentre
nell’ambiguità non si fa che sprofondare; ma
non è semplice.
E le vacanze? Come evitare che diventino
solo tempo perso, o addirittura regressione,
abitudini distruttive, confusione mentale?
Innanzitutto tenendo lontano quello che è
già stato il maggior ostacolo durante la
scuola: la pseudo cultura dello “sballo”,
dell’aggirare la realtà e le sue prove (ma
anche le informazioni e insegnamenti che ci
fornisce), alterando la mente con sostanze,
spinelli ed alcol in primis, e le altre
droghe subito dopo. Esperienze di viaggio,
di lavoro, di sport, anche il riposo, tutto
sarà utile, se riusciamo a convincerli ad
amare davvero se stessi. Anche perché noi li
amiamo.
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L’identità nel cognome
Claudio Risé, da “Il Mattino di Napoli” del
lunedì, 1 giugno 2009,
www.ilmattino.it
Sta per essere
varata la nuova legge sul cognome dei figli.
Il cognome del padre, a quanto pare, verrà
affiancato, o preceduto, da quello della
madre. Le dispute su quale debba venir prima
sono ridicole, ma il problema c’è.
L’identità sociale dei figli, definita dal
cognome, non può rimandare soltanto al padre
in una società, la nostra, nella quale la
madre ha un ruolo sociale spesso autonomo e
si occupa dei figli generalmente più del
padre durante l’infanzia, ma spesso anche
dopo.
Lo sbiadimento della figura paterna sta
generando enormi problemi nelle società
occidentali. La principale è la maggiore
fragilità dei figli nell’affrontare le
sconfitte e dolori della vita, a cui la
crescente «maternalizzazione»
dell’educazione non prepara in modo
adeguato.
Negli Stati Uniti, dove gli uffici del
censimento curano anche questi aspetti
statistici «politicamente scorretti», il
drappello di testa dei comportamenti più
gravemente devianti (suicidi, tossicomanie,
comportamenti antisociali, psicopatologie
gravi), è sempre guidato da persone
cresciute in famiglie in cui il padre era
assente; o perché se n’era andato, o perché
ne era stato espulso. L’assenza paterna non
determina di per sé una devianza o grave
patologia, ma di sicuro ne aumenta il
rischio.
È anche in questo sfondo problematico che si
colloca la questione del doppio cognome dei
figli, non riconducibile dunque solo
all’aspetto positivo dell’affermazione della
donna nella società occidentale
contemporanea. Questa legge non può allora
limitarsi ad affermare la rivincita della
donna-madre dalla precedente ingiusta
esclusione (le vendette realizzate per legge
hanno il fiato corto), quanto fare davvero
l’interesse dei figli che quel cognome
porteranno. Non serve un regolamento di
conti e di potere tra le donne e gli uomini
di oggi, magari in nome di quelle di ieri,
bensì tutelare l’equilibrio e lo sviluppo
della società di domani.
Certo, la Comunità europea chiede
l’equiparazione tra uomini e donne e
l’abolizione delle pratiche discriminatorie,
ma quella del cognome non è solo una
questione giuridica. Nell’aspetto
apparentemente formale (ma fortemente
simbolico, e dunque profondo) del cognome, è
in gioco l’equilibrio e la spinta vitale
delle future generazioni, che poggiano sulla
positività del loro rapporto sia con la
linea materna, femminile, che con quella
paterna, maschile. Allo sguardo giuridico va
affiancata una visione che affronti il
significato del cognome nella storia
personale.
Dal punto di vista psicologico ogni
individuo sviluppa, nei confronti del
cognome, riferimenti diversi. Alla nascita,
in una situazione di presenza di entrambi i
genitori, può essere giusto che «per legge»
al figlio si dia i cognomi di entrambi i
genitori. Spesso però, durante lo sviluppo
del figlio e della storia familiare,
emergono fattori che modificano la posizione
di partenza. È nota la vicenda di Leonardo
Mondadori (ma non fu il solo) che scelse di
chiamarsi col cognome della madre,
coincidente con i suoi interessi culturali e
professionali, piuttosto che con quello del
padre, peraltro degnissima persona.
In altri casi il nucleo dell’identità
personale è invece modellato sul nome del
padre, e della famiglia paterna. In altri
ancora (ma sicuramente non in tutti),
entrambi i cognomi hanno invece uguale
rilevanza nel definire ed aiutare lo
sviluppo dell’identità personale.
In una società davvero democratica e libera,
il meglio sarebbe che ogni persona, alla sua
maggiore età, o successivamente, potesse
scegliere qual è il suo nome: della madre,
del padre, o di entrambi.
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L’amicizia ci salverà
Claudio Risé, da “Il Mattino di Napoli” del
lunedì, 25 maggio 2009,
www.ilmattino.it
Non usciremo
dai guai in cui ci ha cacciato la passione
per la competizione sfrenata se non
ritrovando il gusto dell’amicizia, del fare
insieme, dei punti che uniscono rispetto a
quelli che dividono. Lo ha ricordato il
presidente americano Obama ai giovani
cattolici dell’Università di Notre Dame,
impegnandosi quindi ad aiutare le donne a
non abortire. Allo stesso modo, però, la
pensano milioni di giovani che si incontrano
nelle «communities» della rete per fare
amicizia, scambiarsi pareri, e magari anche
cambiare idea.
Il vecchio stile intollerante si sta
sfaldando: anche chiunque abbia un blog di
dibattito se ne accorge. Certo, ci sono
sempre i reduci degli anni 70 che mandano
messaggi tipo «morirete tutti» accompagnati
da insulti irripetibili (magari in nome del
pacifismo, o della «non violenza» che
giurano viene loro ispirata dall’amato
spinello quotidiano), ma sono in netta
diminuzione, e palesemente vecchi. La
maggior parte chiede, comunica e cerca,
speranze. Preferisce verificare se puoi
essergli amico, piuttosto che sparare al
nemico. Riconosce in se stesso il bisogno di
affetto, e maneggia il conflitto per
sbarazzarsene, con evidente fastidio.
È da quasi mezzo secolo, dal tempo dei
«figli dei fiori», degli hippy che dicevano
che «tutto è amore», che non si vedeva
niente del genere.
Nello studio dello psicoanalista, appare un
fenomeno parallelo. Il delirio di
onnipotenza che aveva ispirato fenomeni solo
apparentemente opposti, come il terrorismo
politico e la pirateria finanziaria,
entrambi fondati sulla legge del più forte e
sul disprezzo dell’altro, è entrato
finalmente in una crisi profonda.
L’individuo «imperiale», protagonista degli
anni dell’intolleranza politica e insieme
della più plateale ostentazione della
ricchezza, o dell’immagine di potenza, ha
perso vigore, credibilità, e forza. I suoi
figli hanno progetti più a misura d’uomo, e
delle risorse oggi effettivamente a
disposizione. Hanno imparato che non si può
fare quasi nulla da soli, e ancor meno alle
spalle degli altri. Sentono il bisogno di
ricostruire una rete affettiva, e si servono
di quella di Internet per ampliarla e
tenerla in vita.
Dal punto di vista clinico, è come se una
coscienza collettiva tendenzialmente
paranoica stesse lasciando finalmente spazio
all’ascolto dell’altro, a una visione
relazionale. D’altra parte, quest’anno i
bambini nati nell’anno in cui veniva
abbattuto il muro di Berlino compiono vent’anni.
È finita l’epoca della chiusura e della
contrapposizione, ma anche quella della
conquista senza regole e principi che si
cercò di affermare subito dopo. Occorre
ascolto e rispetto.
I ventenni nati con le rovine del muro di
Berlino cercano innanzitutto amici, mentre i
loro padri in questi vent’anni avevano
cercato soprattutto clienti. Le due cose,
naturalmente, non sono in opposizione. I
clienti serviranno anche alle nuove
generazioni, consapevoli però che, per
trovarli, bisogna intanto avere buoni amici.
Le coppie di amici fondatori di Google (Page
e Brin), di Facebook (Zuckerberg e Moskovitz),
e le compagnie amicali di tante altre
avventure economiche di oggi sono lì a
provarlo. È dal calore e dall’allegria
dell’amicizia che nascono le idee, le
iniziative, i clienti, e alla fine anche il
denaro. Un circuito che ha rovesciato quello
prediletto dalla generazione precedente (a
cui dobbiamo la più smodata crisi
finanziaria dopo il ‘29), che metteva al
primo posto l’Io individuale, la sua
competizione con il resto del mondo, la
vittoria, e il guadagno, sempre strettamente
personale, come risultante finale.
Ora invece prima di tutto l’amicizia. Il
resto verrà.
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Il
bisogno di storie, e di passioni
Claudio Risé, da “Il Mattino di Napoli” del
lunedì, 18 maggio 2009,
www.ilmattino.it
Si accusa il
nostro tempo di essere pericolosamente
inclinato verso lo spettacolo: politica,
sport, perfino la cultura e la scienza
tenderebbero alla spettacolarità, agli
effetti speciali piuttosto che ai contenuti.
Questo fenomeno, si dice, avrebbe effetti
pericolosi sulle qualità personali di
individui e comunità, spingendoli a
banalizzarsi, a diventare leggeri e
inconsistenti. La «società liquida» sarebbe
anche una società piuttosto stupida. Quanto
c’è di vero in queste critiche? Sarebbe
ridicolo contestare la spettacolarità del
nostro tempo.
Ma è davvero una novità? Durante tutta la
storia dell’impero romano, o anche del
Medioevo, periodi storici per nulla banali,
che segnarono interi secoli, l’elemento
spettacolare non mancò mai. I grandi leader
erano quelli che sapevano organizzare gli
spettacoli più appassionanti, magari in
silenzio, come le Crociate immaginate nei
chiostri da Bernardo di Chiaravalle. Le
vicende private appassionarono sempre, da
quelle belliche di Cesare, a quelle
sentimentali di Antonio e Cleopatra, a
quelle sante di Francesco d’Assisi.
La storia è sempre stata fatta dai creatori
di storie, personaggi che avevano forti
passioni, e che su quelle costruivano la
propria vita. Attorno a quelle vicende,
esemplari o anche disgraziate, come quella
di Riccardo «cuor di leone» (il cui riscatto
costò un sacco di soldi all’Inghilterra), si
raccoglieva il consenso degli individui e
dei popoli, mossi proprio dalle passioni dei
loro capi più fantasiosi. Senza narrazioni,
personali o collettive, non si muove niente,
non nascono società, scoperte, ricchezze,
arti.
È vero che nel ’800 e ’900 le storie e le
passioni degli uomini sembrarono lasciare il
passo a battaglie ideologiche, dove i
programmi delle idee ebbero più importanza
della vicenda umana di chi li proponeva.
Lenin e Hitler, all’inizio, erano noti (e
solo in parte) soltanto a piccoli gruppi,
eppure comunismo e nazismo incendiarono il
mondo. Questo però non fa altro che
confermare il carattere molto più sano delle
storie e delle passioni umane, rispetto a
quelle di carattere ideologico, che finirono
coi grandi totalitarismi del secolo scorso,
e milioni di morti.
Le grandi storie personali, però, non sono
mai convenzionali, politicamente corrette.
Il presidente degli Stati Uniti, Barack
Obama, ha sofferto della mancata relazione
con un padre tutt’altro che esemplare. San
Carlo fu fatto arcivescovo di Milano che era
ancora un ragazzo, e, essendo un principe
Borromeo, entrò in città con gran pompa di
carrozze e servitori. Poi si rivelò come
grandissimo santo e ispirò l’austero
Congresso di Trento, dove il cattolicesimo
rinacque, tra la sorpresa generale.
L’idea del leader irreprensibile e senza
peccato è relativamente recente: prende
forma infatti nel ’800, un secolo noioso ed
ipocrita, alla fine del quale la
psicoanalisi nasce, a Vienna e poi a Zurigo,
proprio per curare le nevrosi procurate dal
perbenismo dell’epoca, che annega subito
dopo nelle follie sanguinarie dei
totalitarismi, anch’essi intrisi del
moralismo ottocentesco.
La bizzarria e il disordine privato così
frequenti nei leader storici non ha
d’altronde niente di strano. Sofferenze,
eccessi e imprudenze (quelle di Obama come
quelle di Mc Cain) sono ingredienti costanti
della passione, la materia prima delle
storie, delle narrazioni personali che
interessano e muovono i popoli, da sempre,
da molto prima delle televisioni, i reality
e il sistema mediatico.
I leader dunque mostrino pure le loro
passioni. Sta poi a genitori e insegnanti
far capire la differenza tra storie, e
storielle.
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Bisogno di gentilezza
Claudio Risé, da
“Il Mattino di Napoli” del lunedì, 11 maggio 2009,
www.ilmattino.it
Nei discorsi pubblici su «cosa
ci vorrebbe» si vola alto, si parla di bisogno di civiltà,
umanità, accoglienza. Tutto vero naturalmente, ma a molti sembra
spesso vago. Le civiltà sono molte e diverse; le idee
sull’«umano» anche; l’accoglienza forse dovrebbe essere
reciproca, l’autoctono deve accogliere lo straniero, ma anche
questo ultimo deve accogliere chi è già lì, le sue idee, norme e
costumi.
C’è però un bisogno più semplice, elementare, condiviso da
tutti: quello di gentilezza.
Basta ascoltare le vecchie canzoni, e confrontarle con gran
parte dei rap di oggi, per capire che è in atto un indurimento
dell’esistenza. La vita appare intrisa di un’aggressività
esagerata, a volte caricaturale. Che i giovani per primi
denunciano, anche se spesso proprio loro vi indulgono (come il
gruppo tedesco di Kannibal Instinct). Anche i media,
amplificando ogni cosa, danno però molto più spazio ai gesti di
aggressività che a quelli di gentilezza.
Fin da prima della crisi, ormai da molti anni nessuno dice più a
una donna: «Ti amo», oppure: «Buon compleanno!», comprandosi una
pagina di quotidiano. Mentre giornali e televisioni divulgano e
amplificano accuse coniugali, privatissimi retroscena
sentimentali, notizie e commenti rancorosi, dove ogni gentilezza
è assente.
La mancanza di gentilezza continua poi nei gesti quotidiani di
tutti, nel fare la spesa, nel modo di rivolgersi al cliente, al
venditore, al fornitore. Migliaia di durezze, di sguardi
taglienti, di commenti secchi, hanno nel corso degli anni preso
il posto dei sorrisi, delle battute cordiali, delle occhiate
sorridenti. Gli italiani, grandi e apprezzati protagonisti del
sorriso e della battuta, non sorridono quasi più, e negli
incontri di ogni giorno si tengono molto sulle loro. I soldi non
c’entrano: tutto ciò è cominciato in anni di benessere senza
precedenti, e da allora non si è più arrestato.
Tanta durezza non è affatto naturale. Anche se la vita non è
un’infinita festa da ballo, e anzi proprio per questo, ogni
società si è sempre impegnata ad accompagnare i suoi riti e
momenti sociali con forme e modi di scambio più piacevoli, e
meno distruttivi possibile. L’essere umano non regge una vita
quotidiana incessantemente competitiva, sgradevole, dove l’altro
che incontri non solo non ti ama (non è suo compito), ma ti
attacca. Non ce la fa.
Dietro la moltiplicazione di disagi come gli attacchi d’ansia,
quelli di panico, le diverse forme di fobia sociale (i ragazzi
che non escono dalla propria camera, gli adulti asserragliati
nel proprio tinello, o nel locale-cantina degli attrezzi), c’è
anche questo: la fatica di vivere una socialità ostile, non
amichevole, diffidente e chiusa.
La modernità ricca e sviluppata deve porsi il problema di come
recuperare la gentilezza quotidiana delle società più povere e
tecnicamente arretrate che l’hanno preceduta. Si tratta di
un’operazione ormai indispensabile. Non per superiori ragioni
morali, o dettami politici, ma perché la socialità senza
gentilezza non funziona, si inceppa, crea problemi (e costi,
anche sociali) infiniti. Il tranviere perennemente arrabbiato
(come quelli di molte grandi città), che riparte senza badare
alla vecchietta che sta ancora scendendo, diffonde aggressività
e malessere, anche se è sindacalmente tutelato. Altrettanto,
naturalmente, vale per l’industriale o il politico arrogante che
non si fa carico dei bisogni dei dipendenti, e dei cittadini.
Basta poco.
Un po’ di gentilezza: un sorriso, uno sguardo di simpatia, una
mano tesa. Coloro che faranno spontaneamente questi gesti,
saranno i protagonisti di domani.
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La nascita ci chiede di
cambiare
Susanna Dolci intervista Claudio Risé su “La
crisi del dono. La nascita e il no alla vita“,
per “il Fondo Magazine” di Miro
Renzaglia,
www.mirorenzaglia.org
È,
Claudio Risé, uno degli
psicanalisti italiani di ampia fama
nazionale ed internazionale. Docente di
Scienze Sociali alle Università di
Trieste-Gorizia, Insubria (Varese) e Bicocca
(Milano), da oltre trent’anni studia l’uomo
e la donna ovvero il maschile ed il
femminile, nelle loro molteplici
sfaccettature. La vita, la famiglia e la
genitorialità con particolare attenzione
alla figura paterna intesa come assenza o
come “mestiere” difficile.
I suoi numerosi libri sono stati tradotti in
molti paesi europei ed in Brasile. Un spazio
internet a disposizione del suo pubblico:
www.claudio-rise.it.
Esce in questi giorni per le Edizioni San
Paolo
La crisi del dono. La nascita e
il no alla vita. È questo
suo nuovo andare in riflessione, una discesa
verso le «radici del pensiero che rifiuta la
nascita». Un’attenzione di saggia misura
sull’aborto inteso come quotidianità di
azione da cronaca e da statistica, di
battaglia politica, di leggi, di polemica,
di giudizi positivi e negativi, di “crimine”
addirittura, di orrori legalizzati od
illegali e di tanto altro da aggiungere. O
da sottrarre… Dipende, sempre, dai punti di
vista. Ma il libro non è solo questo… ed è
già molto.
“La
crisi del dono” è una
sorta di Summa che non tralascia
nulla perché niente vuole lasciare nel
silenzio. Tutti gli attori legati alla
venuta al mondo vengono chiamati in causa.
Siano essi uomini, donne, bambini stessi e
dunque padri, madri e figli, miti e
mitologie, cambiamento e rinnovamenti, sacro
e profano. Spetta, alfine ed in piena
libertà, ad ogni singolo lettore decidere a
quale cammino interpretativo accingersi. Che
oscilla, in presenza, dagli albori temporali
come il classico pendolo foucaultiano o la
inimitabile quanto terribile spada di
Damocle. Tutto sempre e come eterna scelta
tra la vita e la morte. Un sentito
ringraziamento a Claudio Risé per la sua
piena e gentile disponibilità alla
realizzazione dell’intervista che segue,
nonostante i suoi molteplici impegni.
È stato appena editato dalle
Edizioni San Paolo. È il suo “La crisi del
dono. La nascita ed il no alla vita”. Lei ci
parla di: Mito, Nascita, Figlicidio, Figli,
Uomo, Donna, Aborto… E tanto ancora… Se
dovesse definire il centro di questo libro,
cosa direbbe?
È un libro sulla nascita, come evento
fisico, psichico e simbolico, sul suo
significato e sulle resistenze che suscita.
Molto spesso non la vogliamo (non solo
quella fisica), perché ci chiede sempre di
cambiare, trasformarci, ri/nascere.
Cos’è veramente l’aborto?
La scelta di evitare una nuova nascita
sopprimendo il nascituro. Al di là delle
considerazioni morali (non spetta a me
giudicare), è una scelta fortemente
conservatrice, contro il cambiamento. Dal
punto di vista psicologico esprime
un’avversione al futuro, alla trasformazione
che regge il mondo, cui oppone il potere
dell’Io individuale, quello che decide,
appunto, l’aborto.
Tra abortire e dare in
adozione c’è da sempre in mezzo una montagna
invalicabile? Perché?
È invece valicabile; molti la attraversano.
Occorre rinunciare al possesso del figlio.
Che del resto nessuno ha, perché il figlio
appartiene a se stesso. E, per la persona
religiosa, a Dio.
Com’è il mondo in cui
viviamo? Cito alcuni termini ricorrenti nei
suoi studi e libri: neopaganesimo,
narcisismo, droghe, guerra, terrorismo,
scontro di etnie ma anche felicità come dono
di sé, l’altro. Incubi quotidiani, difetti e
pregi di questa nostra esile esistenza. Come
affrontare al meglio o meno peggio tutto
ciò?
Io racconto solo la psiche delle persone che
vedo, la quale a sua volta parla del mondo
in cui vivono. Un buon metodo per star bene,
conosciuto da sempre, potrebbe essere quello
di cercare di essere se stessi, senza
continuamente conformarsi, o dipendere
dall’approvazione degli altri. Ha dei
prezzi, ma ci si guadagna il vivere la
propria vita, e non quella altrui, o del
sistema di comunicazione dominante.
Uomo? Uomo selvatico? O
Maschio? Identità maschile tra essere io
e/od altro da proprio sé medesimo? Tra Don
Giovanni e Padre?
Consiglio di evitare ogni etichetta,
comprese quelle sopra elencate (anche se
prese dai miei libri) ed ascoltare chi si è.
Che è sempre dentro, non fuori di noi.
La Donna? Mi verrebbe di
aggiungere “è mobile….” ma forse è meglio
“selvatica”? E d’ingegno? A metà tra forza e
mistero dell’eterno archetipo dell’essere
femminile? La Grande Madre, terribile eppur
generosa?
Idem. Ognuna scopra se stessa, e la
interpreti. Il resto riguarda le altre, non
te.
Lei parla della figura del
Padre come dono, assenza e mestiere? Chi è
un padre?
Un uomo che genera con una donna un figlio,
lo protegge e aiuta a crescere quando è
piccolo, e poi a diventare se stesso quando
è più grande. Una figura elementare, che la
natura conosce da sempre.
La natura intesa come mondo
selvatico? Ancora respira nel suo esistere?
Sì. Tra le prime leggi firmate dal nuovo
Presidente degli Stati Uniti ce n’è una che
estende enormemente le aree vincolate a
Wilderness, cioè destinate a rimanere
incontaminate, già molto estese in quel
Paese. E’ una questione di grande attualità,
e futuro. Ma naturalmente la Wilderness
è ovunque, a cominciare da dentro di noi.
Anche qui, si tratta di ascoltarla, e
onorarla. E goderla.
Dove vanno i giovani?
Bisognerebbe chiederlo a loro. Io sono
vecchissimo.
La comunità vivente ha ancora
un suo specifico perché ben definito? È
ancora dono e sacrificio?
Senza l’uno, e l’altro, non esiste comunità.
Al massimo società, associazioni, club etc.
Famiglia vs. divorzio. Anche
qui quali i pregi, le colpe e loro effetti
collaterali.
La famiglia può fallire, così come un bimbo
può essere soppresso. Basta si sappia che è
un disastro, e non si spacci divorzio ed
aborto per cose da niente.
A conclusione. Siamo ancora
in grado di trasformarci e rinnovarci? O
restiamo in una immobile opposizione che
nega l’anelito alla vita?
Non siamo noi a scegliere. È la natura a
determinare che tutto, nell’essere umano,
cambia continuamente nel corso della vita,
le sue cellule, i suoi neuroni, i suoi
sentimenti, il mondo intorno a lui. Certo
possiamo optare per la sclerosi,
mummificarci a vent’anni; molti lo fanno.
Sono di solito pazzi, e piuttosto infelici,
ma si può fare anche così. Però è meglio
seguire, con spirito di avventura e
divertimento, il misterioso e sorprendente
itinerario che la vita ci propone.
Susanna Dolci, per il “Fondo
Magazine di Miro Renzaglia“
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Epidemie e psicosi
Claudio Risé, da “Il
Mattino di Napoli” del lunedì, 4 maggio 2009,
www.ilmattino.it
I colpiti dal
virus dell’influenza messicana sono pochi, ma
quelli che si ammalano del timore di prenderla
sono molti di più. Questa particolare forma di
paura ossessiva si nutre, come quasi tutti i
disagi psichici, di fatti reali, presenti nella
vita quotidiana di ogni persona. Il primo è la
ri-scoperta, con l’epidemia, che il controllo
che possiamo esercitare sulla nostra vita è
limitato, tanto che un elemento invisibile come
un virus può metterla a rischio: non tutti lo
accettano.
Le personalità ossessive non sopportano di non
essere i «padroni» della propria vita. Che viene
così spesa nello sforzo titanico di diventarlo,
evitando ogni «variabile autonoma»
dell’esistenza. Cioè quasi tutto, e molte cose
piacevoli: passioni, sorprese, avventure.
Dietro il timore delle epidemie globali però ci
sono anche altri fatti, magari non conosciuti
lucidamente, che l’inconscio collettivo però
percepisce, generando paure. Uno dei più
importanti, in questo campo, è che la scienza
medica ha perso da tempo la guerra contro
batteri, virus e parassiti. La sconfitta fu
riconosciuta ufficialmente in un articolo di
Laurie Garrett, massima esperta delle «epidemie
prossime venture», sulla rivista Foreign Affairs,
vicina al Dipartimento di Stato americano. La
guerra s’era proposta di distruggere le malattie
infettive entro la fine del secolo scorso.
Armati di vaccini, antibiotici, e antimalarici
si credeva di far scomparire le malattie
infettive entro la fine del millennio. Non si
riuscì, perché si supponeva che il nemico
(batteri, virus e parassiti), rimanesse fermo, e
che lo si potesse «sequestrare» geograficamente.
Invece i microbi sono in costante evoluzione
biologica.
Il massiccio uso di antibiotici ha «selezionato»
germi capaci di resistervi. Molti agenti
patogeni sono «intelligenti», dotati di un
corredo che in condizioni di pericolo li fa
mutare, e consente loro di perlustrare il
territorio in cui si trovano alla ricerca del
materiale genetico necessario per resistere ai
farmaci e ai disinfettanti. Questi microbi
sapienti ormai «crescono sul sapone, nuotano
nella candeggina, e se ne infischiano di
cannonate di penicillina». Non solo i microbi
cambiano, ma nel mondo globale non si può
chiuderli dentro un confine.
La globalizzazione produce, oltre a continui
movimenti di merci e denaro, anche spostamenti
quotidiani di milioni di persone che vanno da un
paese all’altro, dalla campagna alla città, dal
sud al nord, dai paesi poveri a quelli ricchi.
Assieme agli uomini viaggia un esercito
impressionante, ancora in gran parte
sconosciuto, di microbi, batteri e virus.
Negli Stati Uniti ogni anno decine di migliaia
di persone muoiono per infezioni sconosciute. I
nuovi microbi, ha spiegato la dottoressa Ruth
Berkelmann del C.d.c. di Atlanta, c’entrano con
molti decessi in banali operazioni, e con
diverse infezioni contratte negli ospedali. Un
problema che, a giudicare dalle statistiche, è
importante anche in Italia.
Questo è il terreno sommerso che alimenta, oggi,
le psicosi delle epidemie. L’ossessivo, come il
paranoico, intuisce nei suoi deliri anche i
«nemici reali», e li confonde con quelli
immaginari, prodotti dalla propria psiche a
seconda della storia. Come sempre la terapia
migliore è quella della verità.
Parlare dei limiti della scienza rispetto alla
natura vivente (cui batteri e virus
appartengono), può aiutare molto di più che
esaltarne l’immaginaria onnipotenza. Dopo tutto
anche l’uomo è natura, come i virus. Siamo
fratelli, cerchiamo di andare d’accordo.
Evitando la psicosi, ad esempio, le difese
immunitarie salgono.
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La globalizzazione e le domande
di senso
Claudio Risé, da “Il Mattino di Napoli”
del lunedì, 27 aprile 2009,
www.ilmattino.it
Molti (la
maggioranza dei commentatori) pensavano che la
globalizzazione avrebbe provocato la fine delle
varie religioni. L’interesse per i guadagni
fatti sui liberi mercati, e la moltiplicazione
dei beni di consumo, si diceva, avrebbe
rapidamente rimpiazzato quello per le antiche
divinità e fedi diffuse nelle varie parti del
globo. Economia, tecnologia e scienza sarebbero
state le nuove religioni. È successo il
contrario. «Dio è tornato», è il titolo del
libro più venduto negli Usa.
Gli autori (Miklethwait e Wooldridge), capi
redattori di un giornale con i piedi ben
piantati per terra come l’Economist ripercorrono
le tappe e le ragioni di questo «ritorno di
Dio», avvenuto praticamente in tutte le regioni
del mondo, comprese quelle precedentemente
governate da regimi rigidamente atei, come la
Russia. Dove un sondaggio del 2006 ha accertato
che l’84% delle popolazione russa crede in Dio,
e soltanto il 16% si considera atea.
D’altra parte, lo stesso Putin non si toglie mai
dal petto la croce del suo battesimo, ha una
piccola cappella accanto al proprio ufficio al
Cremlino, e va regolarmente in Chiesa. E
Gorbaciov, l’uomo che pose fine all’Unione
sovietica, dopo aver pregato per più di mezz’ora
sulla tomba di San Francesco, dichiarò che la
vita di San Francesco aveva avuto un ruolo
fondamentale nella sua vita. Per non parlare
degli Sati Uniti, dove George Bush apriva ogni
Consiglio dei ministri con una preghiera, e lo
stesso Barack Obama presentò sé stesso al
Partito democratico come «leader cristiano», e
nella sua autobiografia ricorda il predicatore
che lo «condusse a Dio».
Come mai gli avvenimenti hanno preso questa
piega inaspettata per gli esperti, a cominciare
da Henry Kissinger che nelle quasi mille pagine
sul mondo contemporaneo (in: Diplomacy del
1996), non prestò alcuna attenzione alla
religione? Il fatto è che politologi e
economisti per solito tendono a considerare gli
uomini soprattutto dal punto di vista del potere
e del guadagno: gli argomenti che non hanno a
che fare con queste due passioni non vengono
quindi presi in considerazione.
Le persone però, in tutto il mondo, non hanno
solo questi interessi. Si pongono anche domande
apparentemente più stravaganti, meno concrete,
che compaiono spesso, infatti, negli studi degli
analisti, nei confessionali dei preti, e in
genere si sentono rivolgere le persone che si
dedicano alle varie «professioni di aiuto».
Domande, ad esempio, come: «Chi sono io? Da cosa
si riconosce una vita davvero riuscita? Come non
aver paura della morte? Che valore ha il mio
modo di vivere rispetto a quello di qualcuno
cresciuto dall’altra parte del mondo»? Ma questi
sono gli interrogativi cui, da sempre, in tutto
il mondo, rispondono le diverse religioni.
La globalizzazione ha reso queste domande molto
più frequenti, contrariamente alle previsioni
dei politologi e come invece la psicoanalisi
aveva previsto. L’identità personale e di
gruppo, infatti, durante il processo di
mondializzazione è diventata più fluida e
incerta, aumentando le insicurezze e le paure e
dando concretezza al: chi sono io?, e a tutta la
sfera etica, su cui si fondano valori più
stabili e un’autostima personale più salda.
Le risposte suggerite dalla politica, vale a
dire una generica «tolleranza» da una parte, o
dall’altra la rivendicazione della propria
superiorità, sono sembrate troppo ideologiche,
non veramente convincenti rispetto alla
sensibilità semplice ma profonda, dell’uomo
della strada. Che si sente più forte ed insieme
tranquillo e dunque più in grado di vivere con
altri, anche diversi, se con lui c’è Dio.
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La crisi del dono. La nascita e il
no alla vita
E’ uscito il nuovo
libro di Claudio Risé: La crisi del dono. La nascita e il no
alla vita (San Paolo Edizioni, 2009)
(Dalla quarta di
copertina)
Sconfiggere l’aborto e i suoi orrori, legalizzati o illegali,
significa prendersi la responsabilità di rifiutare la tentazione
regressiva ed onnipotente, della conservazione dell’esistente,
aprendosi al nuovo che ogni giorno nasce e ci chiede accoglienza
ed amore.
Significa accettare di donarci a lui, al bimbo che viene nel
mondo, anziché sacrificarlo al nostro piacere, ma soprattutto al
nostro, soltanto immaginato, potere sulla realtà, che invece
nella sua incessante trasformazione, ci oltrepassa e ci
trascende, in ogni momento.
Queste pagine sono state scritte per favorire un’apertura al
cambiamento, che aiuti ognuno di noi a rifiutare la nostra
(spesso inconscia) consuetudine abortiva nei confronti della
vita e della sua continua trasformazione.
(Dalla Premessa)
L’aborto non è solo materia di cronaca quotidiana, e di
battaglia politica. Esso non inizia, come è noto, con le leggi
che lo legalizzano, così come non era un delitto “come un altro”
quando era considerato un crimine. La polemica politica
sull’aborto è quindi giusta, ma quasi sempre inadeguata. Perché
lo considera soprattutto come un fare male, un malaffare, senza
indagare la sua natura in quanto malessere, essere nel male, in
una situazione di forte disordine e disagio. Per la precisione
in quella patologia che porta a rifiutare uno dei tratti più
caratteristici della vita umana: il continuo cambiamento, e la
sua continua trasformazione, in incessante sviluppo, dalla
nascita fino alla morte.
Questo tratto dinamico della vita dell’uomo è particolarmente
difficile da accettare nel disagio psichico forse più diffuso
oggi: le nevrosi e psicosi ossessive, accompagnate dalle
fantasie di controllo totale della realtà, e nutrite dalla
celebrazione acritica dell’onnipotenza tecnoscientifica svolta
dalla comunicazione di massa.
Il momento dell’esistenza più rappresentativo dell’irruzione del
cambiamento, dell’avvento del nuovo, è quello della nascita. Ed
è appunto contro la nascita, per impedirne la realizzazione, che
si compie e legittima l’aborto, così come le troppo trascurate
forme di infanticidio, banalizzate in classificazioni e diagnosi
riduttive.
Nel dibattito sull’aborto come evento individuale,
rappresentativo o no della libertà e dei diritti di chi lo
compie, viene inoltre oscurato il significato che
l’autorizzazione alla soppressione del bambino ha per la
società: tema invece che i materiali dell’inconscio collettivo
(scritture religiose, leggende, miti), hanno ripetutamente
affrontato, proprio perché centrale per la comunità, oltre che
nell’esistenza individuale.
L’esperienza religiosa, e la norma che essa ispira, si avvicina
più del dibattito politico e di costume all’“essenza” delle
diverse forme di soppressione della nuova vita. Riferendosi
direttamente alla legge naturale di accoglimento e difesa della
vita, la religione infatti si svincola dalle contingenze delle
polemiche storico-sociali, e coglie con stabile profondità le
radici antivitali dell’azione contro il bimbo, così come le
conseguenze mortifere generate anche in chi lo compie, e nella
comunità in cui esso avviene. La piena comprensione del dramma
dell’aborto, e della vicenda di uccisione del figlio, del nuovo
essere umano che in esso si compie, ci chiede tuttavia un
ulteriore profondo sforzo per svincolarci dagli aspetti
strumentali della polemica politica, e dall’effetto fatalmente
banalizzante della comunicazione mediatica. È necessario allora
ricollocare questa tragedia, con la sua forza lacerante e il suo
preciso profilo psicologico, lungo tutta la storia della psiche
umana, e nelle più profonde narrazioni che la rappresentano. […]
Quello che segue è dunque soprattutto il tentativo di delineare
una prospettiva finora solo a tratti visibile nella lotta
antiabortista, pur appassionata e sacrosanta. Che tuttavia, non
approfondendo lo sfondo più ampio delle sue ragioni, rischia di
indebolire i propri forti argomenti.
L’aborto non nasce solo dalla malvagità o distrazione
individuale, o dall’opportunismo di gruppi politici
inconsapevoli o irresponsabili. Esso affonda le sue radici in un
terreno psicologico, cognitivo ed affettivo molto più vasto, ed
è alimentato dalla maggiore tentazione regressiva da sempre
presente nella psiche umana: quella di uccidere il nuovo, lo
sviluppo, il cambiamento, appena comincia a prendere forma.
Prima che nasca, e ti costringa a cambiare con lui. [continua]
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La natura, grande educatrice
Claudio Risé, da “Il
Mattino di Napoli” del lunedì, 20 aprile 2009,
www.ilmattino.it
Distrarsi
insegna a concentrarsi. Il bambino che ha
girovagato per prati, spiagge e boschi, sarà poi
capace di prestare attenzione all’argomento che
la maestra gli propone, molto più di quello che
ha passato la sua infanzia tra giochi e attività
didattiche intellettualmente stimolanti, e aule
scolastiche. Lo stanno scoprendo gli studiosi
impegnati a indagare la diffusione fra i bimbi
occidentali dell’Adhd (la sindrome di deficit
dell’attenzione e di iperattività). Ma perché
ciò accade?
Sembra che avesse ragione il filosofo e pedagogo
William James, nelle sue riflessioni
sull’attenzione diretta, e quella che egli
chiamò la «fascinazione», l’attenzione
involontaria, sollecitata in particolare dai
grandi spazi e ambienti naturali. Studi recenti
hanno dimostrato che l’attenzione diretta, come
quella per uno specifico oggetto di studio,
risulta più facile ed efficace nelle persone che
hanno sperimentato, specialmente nell’infanzia,
situazioni di fascinazione, di attenzione
indiretta. Come quelle appunto da cui si lascia
catturare un bambino a spasso nella natura,
quando si appassiona a un dato tipo di albero, a
una foglia, a un insetto che si muove sulla
spiaggia o a un masso che devia un torrentello.
Il bimbo che spontaneamente impara a leggere con
attenzione nel grande libro della natura aperto
dinanzi a lui sarà poi molto più in grado di
concentrarsi sull’argomento proposto a scuola
dal maestro. Come se le organizzazioni neuronali
coinvolte nell’attenzione del «nature boy», del
bimbetto selvatico, fossero più fresche, più
elastiche, meno logore e più libere di quelle
già sollecitate da concentrazioni e attenzioni
forzate e già predisposte. Comprese, in
particolare, quelle sollecitate da
un’esposizione troppo precoce alla tv.
Queste scoperte sono molto interessanti perché
dimostrerebbero che il famoso «deficit
dell’attenzione» che affligge i nostri bimbi e
nipoti è in realtà figlio di un altro deficit:
quello di ambienti naturali, indispensabili per
lo sviluppo dell’attenzione indiretta, di quel
lasciarsi affascinare nei luoghi dove maturano
gli interessi e la capacità di concentrazione
del bambino.
Si tratta, del resto, di una situazione ormai
sperimentata: i bambini stanno meglio là dove la
natura è più presente. Tanto che negli Stati
Uniti il Nature-Deficit Disorder, la sindrome da
mancanza di natura (è stato così chiamato, nei
suoi libri e rubriche sui media, dallo
psicopedagogo Richard Louv), è un malessere
comunemente riconosciuto anche se non
clinicamente classificato. Dovunque poi, anche
in Italia, sappiamo che le forme patologiche più
diffuse, come le tossicodipendenze, si curano
meglio dove è più forte il contatto con la
natura.
Ambientalisti radicali e sportivi appassionati
alla Wilderness o natura incontaminata (amata
dal fondatore della psicologia analitica Carl
Gustav Jung), sostengono da sempre che l’uomo,
in quanto essere vivente ha un bisogno vitale di
contatto diretto con le forme della natura: i
boschi, i corsi d’acqua, i prati, gli animali.
L’analista sa poi che oggi i disagi psichici più
diffusi si formano in situazioni dove manca un
contatto diretto con il mondo vivente,
costantemente sostituito da prodotti «culturali»
o dalla tecnologia. I disturbi di personalità e
dell’umore, quelli alimentari, tutte le forme di
dipendenza (da sostanze, affettive, sessuali) si
aggravano in ambienti artificiali. Mentre la
natura vivente li cura.
Le ricerche americane, canadesi e svedesi sull’Adhd
confermano dunque altre intuizioni, antiche e
moderne. Chi sa perdersi nella natura troverà
poi sé stesso. Fin da bambino.
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La solitudine
globale, e le sue stragi
Claudio Risé, da “Il Mattino di Napoli” del
lunedì, 6 aprile 2009,
www.ilmattino.it
L’ultima strage
in cronaca, l’immigrato asiatico che a
Binghamton, New York, ha ucciso 13 persone,
ferite quattro, e poi si è tolto la vita,
affonda le sue radici nel sentimento più diffuso
nel mondo globale: la solitudine. È infatti
questo il dato comune, sempre presente in queste
stragi impersonali, spesso contro sconosciuti:
l’attacco violento agli altri, con i quali non
riesci a comunicare. Li uccidi, perché non sei
mai riuscito ad incontrarli. E questo ti
impedisce di vivere. Senza l’altro, infatti, la
vita dell’uomo perde di senso.
Il lavoro perso, come in altri casi lo scacco
scolastico, o la delusione sentimentale, sono
solo l’ultima goccia che scatena la disperazione
finale. Sotto, c’è il fallimento dell’incontro
con gli altri, la solitudine vissuta come
condanna ad una vita impossibile, perché priva
di quel calore affettivo che è indispensabile
nutrimento di ogni esistenza umana.
Quando la psicoanalisi dice che l’Eros, la
spinta verso l’altro, è la più potente delle
passioni non sta parlando solo della sessualità.
Anche Freud lo intuiva quando diceva che lo
stesso Eros ispira anche la guerra e la morte,
forma rovesciata di incontro con l’altro, quando
quello amoroso non è possibile.
Abbiamo bisogno di abbracciare l’altro, di
venirne abbracciati. Quando questo incontro
affettivo, umano, personale e sociale non si
realizza, la personalità si ammala, il rapporto
con la vita diventa difficile, e la fantasia
della morte, data a sé e/o agli altri, viene
vista a volte come unica prospettiva di uscita,
oltre che come regolamento di conti con
un’esistenza vissuta come troppo crudele.
La durezza e la violenza di queste ribellioni
alla solitudine personale ci spiegano, anche,
perché giovani e giovanissimi oggi sentano
invece così importante il contatto con altri,
l’amicizia, e qualsiasi forma di
socializzazione, da Facebook, a YouTube, alle
mille tribù della rete, a tutte le mode, che
sono contemporaneamente fonti di aggregazioni
giovanili.
Si dice spesso che questi ragazzi non sanno
stare soli, non reggono la solitudine: è vero, e
queste stesse stragi, spesso compiute da
giovani, precipitati appunto nella solitudine,
lo dimostrano. Forse però, liquidando la
questione in questo modo, noi ci riferiamo ad
un’idea romantica e non attuale della
solitudine, che non tiene conto di cosa
significhi essere soli nel mondo globalizzato di
oggi. Un mondo in cui gran parte delle
appartenenze che hanno sempre rappresentato la
rete di salvataggio dell’essere umano in
difficoltà (la famiglia, l’etnia di origine, la
cultura e solidarietà della classe di
provenienza, la religione), sono state
violentemente attaccate dai modelli dominanti,
ed hanno finito per entrare in profonde crisi e
trasformazioni. Il solitario novecentesco poteva
sempre rifugiarsi in una di queste reti, oggi
chi si ritrova solo ha di fronte a sé un mondo
che percepisce come impersonale e privo di reale
interesse affettivo.
Per questo i giovani sono così attenti a
stabilire e rafforzare i loro luoghi e modi
d’incontro, reali e virtuali. Per questo chi
scivola invece fuori da ogni rete di
comunicazione, entra in zone di angoscia
intollerabili, come dimostrano le storie di gran
parte di questi stragisti suicidi.
L’individuo del mondo globalizzato, anche sotto
l’effetto degli idoli collettivi (il successo,
la ricchezza facile, l’immagine) tende a vivere
«al di sopra» delle proprie capacità e mezzi
affettivi. In particolare non considera la forza
del proprio bisogno d’amore, dell’altro. Quando
si accorge di non poterne fare a meno, a volte
pensa che sia troppo tardi, e non accetta più la
vita.
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Il
buon cittadino si forma a teatro
Claudio Risé, da “Il Mattino di Napoli”
del lunedì, 30 marzo 2009,
www.ilmattino.it
Scrittori e
politici discutono se lo Stato debba aiutare i
teatri pubblici, o concentrarsi su scuola e
università. Il dibattito rivela come si rischi
di smarrire il significato formativo della
rappresentazione teatrale. La cultura
occidentale e la democrazia nascono ad Atene con
il teatro e la tragedia, e così continuano, fino
a Peter Brook. Gli statisti, da Elisabetta I a
Charles De Gaulle, sostennero il teatro perché
consapevoli che una nazione ha bisogno di
palcoscenici quanto di scuole.
Nelle aule si imparano nozioni, leggi, fatti. A
teatro, davanti a un palcoscenico, si
condividono emozioni, si partecipa a storie,
individuali e collettive. Il fondatore della
pedagogia americana, John Dewey, diceva che ci
sono due modi di apprendere qualcosa. Il più
noto è quello di trasmettere nozioni:
insegnarle, diffonderle, con la scuola, giornali
o libri. Il modo più profondo però è quello di
condividerle, partecipando assieme a un evento
significativo: un rito, o una rappresentazione.
Mentre il primo modo fornisce la trasmissione di
fatti o notizie, il secondo (la «comunione»)
consente a chi partecipa di approfondire vissuti
e sentimenti sulla vita e l’essere umano,
indispensabili per la formazione dell’identità
della persona.
Tutto ciò è importante, ma potrebbe non
interessare allo Stato, in particolare a quello
moderno, dove gli interessi economici prevalgono
sugli aspetti profondi dell’esistenza. C’è però
ancora un altro fatto, decisivo. Tra le emozioni
condivise offerte da una buona rappresentazione
teatrale ci sono quelle che riguardano la
comunità, e la propria identità di membro di
quella comunità. L’identità sociale di una
persona, infatti, non si forma (o solo in minima
parte) studiando educazione civica; perché non è
un fatto intellettuale. Per riconoscersi come
partecipante di una comunità e dei suoi
principi, l’individuo ha bisogno di condividere
con gli altri le emozioni e le narrazioni sulle
origini, la formazione, i valori di quel gruppo,
di quella nazione, di quello Stato.
L’identità sociale nasce dalla comunione
affettiva con gli altri, creata dalla
rappresentazione di una storia condivisa. Ecco
perché ai grandi protagonisti della storia e
della politica il teatro è sempre interessato:
perché è lì, e non a scuola, che si forma, con
convinzione e profondità, il buon cittadino, il
difensore del debole, il rispettoso della legge.
È diversa la forza di qualcosa che ti è entrata
dentro attraverso un’emozione condivisa con
quella particolare comunità che si forma ad ogni
rappresentazione teatrale, dinanzi alla messa in
scena di un testo, rispetto a qualcosa che hai
appreso da un libro.
È proprio per questo, del resto, che forze
politiche attente (come il Pdl) organizzano i
propri convegni, i propri eventi fondativi,
badando con accuratezza a tutti gli aspetti
teatrali: composizione del palcoscenico,
organizzazione, scansione degli eventi, dei
testi, e degli aspetti musicali, e spettacolari.
Anche l’identità sociale di aderente ad un
partito infatti nasce, o si rafforza,
partecipando a quel particolare tipo di
rappresentazione teatrale che è il convegno di
una formazione politica, consapevole
dell’importanza della «comunione» nei principali
aspetti della vita sociale.
(Queste righe potrebbero nascondere un conflitto
di interessi: sono infatti presidente del
Piccolo Teatro di Milano, carica compensata con
circa seicento euro l’anno. Assicuro i lettori
che sia l’articolo che quest’attività sono
riconducibili solo all’interesse a una buona
funzionalità sociale e all’importanza in essa di
teatri amministrati come si deve).
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Meno depressi, se la vita è una lotta
Claudio
Risé, da “Il Mattino di Napoli” del lunedì, 23
marzo 2009,
www.ilmattino.it
Negli studi
degli analisti le depressioni non stanno più
aumentando, per la prima volta da anni. Lo
stesso, sembra, per le forme di panico, le crisi
gravi d’ansia. Se si eccettua il girone
infernale dell’adolescenza, che ha i suoi
specifici guai, dalla droga alla scuola esigente
ma inefficiente, ai traumi post-separazione,
sembrerebbe quasi che la gente stia un po’
meglio. Come mai? Si direbbe che anche questo è
uno dei tanti effetti della crisi sulla psiche
individuale e collettiva.
Le paure reali, infatti, cacciano quelle
immaginarie. Il posto di lavoro incerto, il
benessere in discussione, i risparmi decimati,
tolgono vigore alla sindrome dell’automobilista
terrorizzato, quello che non riesce più a far
partire la macchina perché teme lo scontro, e
svuotano la noia da week end, quando non si sa
cosa fare.
Di fronte al coraggio col quale pazienti fino a
poco fa sfiniti reagiscono a situazioni davvero
problematiche, il terapeuta è preso da un
dubbio. E se l’essere umano avesse proprio
bisogno di lottare? Se a logorarlo non fosse la
fatica, quello che ci siamo abituati a definire
stress (e che vediamo ormai dappertutto), ma
proprio l’immaginaria sicurezza nella quale
abitualmente ci culliamo, garantiti da una
visione della vita tranquilla e ripetitiva, che
in fondo ci annoia? Se si seguono queste domande
poco usuali, si possono scoprire diverse cose.
Per esempio: quello stesso automobilista
terrorizzato viene colto dall’ansia, in genere,
quando deve avviare la macchina per spostarsi
dal solito parcheggio ad una meta altrettanto
abituale e prestabilita. Oppure: il depresso
cronico non lo era affatto fino a quando la
mamma non gli proibì improvvisamente le uscite
con gli scout, fonte frequente di raffreddori e
sbucciature. Tutte nate da prove e sfide reali,
che mettendo sotto sforzo il ragazzo,
allontanavano qualsiasi fantasia depressiva.
Seguendo queste osservazioni, si intravedono
possibili risposte ad altri interrogativi. Come
mai i ragazzi albanesi che attraversavano il
canale d’Otranto su impensabili carrette non
erano mai depressi, e i nostri figli con
motorino garantito a quindici, e spesso
l’automobile a venti, invece sì? Incrociando
casistiche personalmente raccolte, dati
sociologici, osservazioni empiriche, si notano
verità seminascoste. Non è la maggiore agiatezza
in sé che toglie vigore e vitalità psicologica,
quanto l’abitudine a contarci come un dato
acquisito, e non qualcosa da riconquistare
continuamente.
Fino a pochi decenni fa, nell’educazione
borghese, si insisteva molto sul fatto che non
era il patrimonio accumulato dai padri a
decidere dello status dei figli, quanto la loro
personale capacità di guadagno e affermazione.
Le ricchezze più recenti hanno meno insistito su
questo punto. I padri, orgogliosi dei risultati
raggiunti, li hanno spesso presentati ai figli
come parti ormai acquisite della loro identità.
Le sentenze della magistratura che obbligavano i
genitori al mantenimento dei figli,
indipendentemente dall’età e impegno, hanno
fatto il resto. In questo modo si sono
spalancate le porte alle depressioni, e
all’ansia. Perché se è tutto già stabilito e
assicurato, non ha più alcun interesse: la
depressione è alle porte. Oppure, l’inconscio
percepisce comunque la precarietà di questo
quadretto tranquillizzante, anche se viene
taciuta: e allora si sviluppa il panico.
Le energie di cui la psiche umana dispone per
fronteggiare le difficoltà, se non utilizzate,
si ritorcono contro di noi, e diventano
malattie. Che diminuiscono, a volte scompaiono,
nei momenti davvero duri. Scomodi, ma
terapeuticamente fecondi.
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Il carattere solido degli italiani
Claudio
Risé, da “Il Mattino di Napoli” del lunedì, 16
marzo 2009,
www.ilmattino.it
L’Italia regge
la bufera meglio degli altri Paesi: l’ha
confermato anche il Censis, con il suo
segretario generale, Giuseppe De Rita,
insospettabile di simpatie governative. Il che
significa che, a far meglio, sono soprattutto
gli italiani, e alcune loro caratteristiche
innate, e spesso criticate.
Quali sono le qualità-difetti, che hanno
protetto l’italiano, in questa come in altre
precedenti crisi? La prima, che emerge da tutti
i dati a disposizione, è che non è semplice
dargliela a bere.
L’italiano si convince, ma fino a un certo
punto. È questo che spiega, più di ogni altra
cosa, il fatto che di «titoli tossici», i famosi
«derivati» che hanno inguaiato mezzo mondo, qui
ne siano stati venduti pochini. E solo a enti
burocratici: comuni, enti previdenziali; quasi
nulla a individui paganti di tasca loro, i quali
non hanno abboccato.
Le banche e le finanziarie che cercavano di
venderli, i titoli tossici, c’erano anche qui
(ma comunque meno numerose e convinte che negli
altri paesi). Le promesse mirabolanti dei
prospetti pubblicitari, delle campagne a
pagamento, sono circolate anche da noi. Il
pubblico, però, non c’è caduto. È un’indicazione
interessante. Può darsi che ogni tanto qualcuno
di noi ci provi a vendere i Faraglioni a un
turista sprovveduto, ma mai a un italiano. Siamo
ancora troppo vicini a una secolare povertà, ai
sacrifici delle precedenti generazioni nel
costruire un benessere, alle difficoltà di uno
sviluppo non sostenuto da giacimenti di materie
prime o da ricchezze accumulate nei secoli, per
buttare i soldi in scommesse finanziarie.
Infatti non l’ha fatto quasi nessuno.
È la forza di un popolo, e di una psicologia
individuale e collettiva, che non è ancora
identificata nella ricchezza, e quindi non cade
nella sua principale trappola: credere che
riprodurre e moltiplicare il denaro sia facile.
L’italiano sa che non lo è. Ciò lo rende meno
veloce nel cogliere le onde dell’espansione:
l’Inghilterra post Thatcher si è sviluppata
enormemente di più che l’Italia dell’ultimo
quindicennio; ma dopo è caduta molto più
rovinosamente. Qui ci si entusiasma di meno, si
dubita di più, si procede con cautela. Qualcuno
dice che siamo cinici: di certo non siamo
boccaloni. Una caratteristica che rallenta le
corse, ma evita alcuni precipizi.
Poi c’è il legame con la terra, che è anche
simbolo del rapporto con la «base di realtà»,
con il mondo delle cose esistenti, non di quelle
immaginate o sperate. Per gli italiani la terra
è molto importante: chi poteva se ne è tenuta
almeno un po’; quasi tutti gli altri sperano di
comprarsene forse un pezzetto, e lo preferiscono
a qualsiasi titolo, o obbligazione. Per certi
versi è normale in un popolo che, ancora un
secolo fa, era composto nella sua maggioranza di
contadini. Ma è anche il segno di uno sviluppo
che non ha tagliato le radici. E quindi, per
quanto forte, non ha fatto perdere la testa a
troppi.
Del rapporto con la terra fa parte anche la
proprietà della casa (poggiata appunto sulla
terra), che in Italia è straordinariamente
diffusa; anche perché moltissimi la casa se la
sono costruita con le loro mani.
Un Paese di ex contadini (con forti speranze di
ridiventarlo), e un presente di muratori a tempo
pieno o per diletto, è difficile da sradicare
con droghe di tipo finanziario. Non ci crede,
non le prende. Infatti non le ha prese.
Poi (o prima ancora) c’è la famiglia. Un
collante di affetti, solidarietà, e progetti
condivisi che nei momenti di difficoltà si
ricompatta, fa cassa comune, aiuta e consiglia
molto più efficacemente di tanti «personal
banker». Ecco perché l’Italia tiene.
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La crisi economico-sociale e le virtù dell’etica
Claudio
Risé, da “Il Mattino di Napoli” del lunedì, 2
marzo 2009,
www.ilmattino.it
L’etica non
sarà nei prossimi anni solo una parola alla
moda. Diventerà anche uno dei principali criteri
di orientamento nella politica economica, negli
investimenti, nei comportamenti individuali e
collettivi. Basta contare quante volte i
riferimenti all’etica compaiono nei discorsi del
nuovo presidente degli Stati Uniti. Non si
tratta di idealismo, o non solo. Il fatto è che
non ci sono più soldi, e l’immoralità costa
molto. Mentre con la virtù si risparmia, e alla
lunga si guadagna.
Non a caso l’attuale crisi ha svelato
comportamenti poco virtuosi, spesso truffaldini.
Dai bonus milionari ai dirigenti, anche quando
facevano perdere alle aziende un sacco di soldi,
alle vere e proprie truffe, con miliardi che
andavano a finire in ville, yachts da sogno e
aerei privati, anziché nelle Borse come veniva
detto agli investitori.
Come sempre accade, questo fiume di risorse
dirottate nei divertimenti di pochi (di scarsa
produttività sociale), anziché nell’istruzione e
formazione di molti, ad esempio con il
miglioramento della ricerca e i servizi, ha
finito con l’arrestare lo sviluppo. In parte
perché non c’erano più fondi disponibili, spesi
invece per divertimenti privati, costi
d’«immagine», e vizi dispendiosi. In parte però,
anche perché non c’erano idee, ricerche e nuove
culture, mai nate perché nessuno si era più
preoccupato di promuoverle e finanziarle.
Le idee, infatti, come i brevetti, i nuovi
processi tecnologici (ma anche quelli
finanziari) costano: per averle bisogna
investirci. È banale, ma investendo
nell’immagine e nelle dissolutezze private non
rimangono più non solo risorse economiche, ma
neppure energie morali e intellettuali per lo
sviluppo collettivo.
Dalla rovina del primo impero «globale», quello
romano, fino a oggi, questo stesso processo si è
prodotto più volte: le energie o vanno nei
piaceri individuali, o vanno nello sviluppo
sociale. Le possibilità di sopravvivenza del
sistema capitalista non sono legate alla sua
ricchezza, che è stata spesa e in gran parte
perduta, e deve venire ricostituita stampando
nuova moneta; ma alla sua virtù, al suo grado di
corruzione forse minore di quello delle potenti
dittature tuttora fiorenti nel mondo.
Se le nostre virtù ancora esistono, e si
rafforzano (ossigenando quindi anche le nostre
intelligenze), la crisi verrà superata.
Altrimenti anche il capitalismo nella sua forma
attuale finirà, come i sistemi politico sociali
che l’hanno preceduto.
La passione per l’etica, tuttavia, è molto
diversa dal moralismo, che fiorisce anche in
persone corrotte. Il moralista condanna i vizi
privati degli altri, che spesso rispecchiano
propri aspetti inaccettabili e inconfessati,
anche a se stesso. Caratteristica del moralista,
è, ad esempio, l’apparente disprezzo per i
ricchi: sintomo frequente della propria
inconfessata avidità.
La personalità etica invece non si interessa
delle debolezze individuali, sapendo che ben
pochi ne sono privi, ma è fortemente interessata
all’interesse pubblico, che condiziona la
felicità, o il malessere, di tutti quanti. A chi
possiede un temperamento etico (che spesso non
nasce da una particolare formazione
intellettuale, ma è istintivo), è del tutto
chiaro che la felicità e il benessere dipendono
dal giusto equilibrio tra il piacere individuale
e il benessere fisico e affettivo delle persone
che gli stanno intorno.
Etica è la persona che cerca di non mettere in
pericolo l’unità familiare, sapendo che
distruggerebbe risorse, anche economiche,
creando molto malessere. Di queste persone,
negli anni a venire, ce ne saranno sempre di
più. Anche perché sono finiti i soldi.
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Sanremo, e gli ex gay
Claudio
Risé, da “Il Mattino di Napoli” del lunedì, 2
febbraio 2009,
www.ilmattino.it
C’è un aspetto
inquietante nella rissa sulla canzone di Povia
per Sanremo, dedicata a Luca, che era gay, e ora
non lo è più, e gli va bene così. Preoccupa la
richiesta di proibire che si parli di gay che
vogliono cambiare il proprio orientamento, e lo
fanno. Narrare il percorso contrario, da etero a
omosessuale, è invece visto come atto
liberatorio, come viene detto con i premi al
film Brokeback Mountain e a narrazioni simili,
in libri, o film. Ma non c’è qui una (nuova)
discriminazione?
La persona discriminata, quella di cui non si
può parlare (perché la sua esistenza rompe gli
schemi), in questo caso non è più il gay, ma
l’ex, quello che ha cambiato il proprio
orientamento sessuale. Eppure queste persone
esistono, e il mettere il silenziatore alle loro
storie priva anche le altre di una parte di
libertà, se non altro di informazione.
La richiesta di togliere la canzone dal
festival, quindi, mette in pericolo proprio ciò
che dice di difendere: la libertà sessuale, di
cui la libertà di parlare senza pregiudizi della
sessualità è parte integrante.
Freud, fondatore della psicoanalisi, ricordava
che «le pulsioni non sono né buone, né cattive»,
e come tali vanno trattate. In una società
aperta il problema non è che sessualità hai.
Però come la vivi, come ti trovi con un certo
orientamento sessuale sì, può essere un
problema. Tanto è vero che l’Organizzazione
mondiale della sanità riconosce nel suo manuale
diagnostico che l’«orientamento sessuale
indesiderato» è un disagio psicologico, e chi ne
soffre va aiutato a superarlo, se lo chiede.
Si sa che in terapia vengono spesso persone che
vivono la loro affettività e/o sessualità con le
donne, ma non ne sono soddisfatti. Il terapeuta
accoglie questo disagio, spesso copertura di
un’omosessualità latente, che viene così
riconosciuta. Accade però anche il contrario,
che cioè si presentino persone con comportamenti
o fantasie omosessuali, ma che ne sono
disturbate. Per varie ragioni. A volte questo
orientamento è nato con un abuso, da cui la
persona vuole ora liberarsi; a volte si è
formato in mode e comportamenti collettivi
seguiti nell’adolescenza; a volte, semplicemente
ci si è innamorati di una persona dell’altro
sesso.
Il solito Freud, ad esempio, riteneva che la
bisessualità fosse comune; e che ognuno poi si
orientasse sulla base delle proprie esperienze
affettive precoci, e dei propri obiettivi. In
tutte le culture e società, del resto, gli
orientamenti sessuali non vengono considerati
come unici, e stabili per tutta la vita.
La parola omosessuale nasce solo nel 1860, sotto
la passione classificatoria del positivismo, e
solo più tardi ancora si scopre
l’«eterosessuale». È il Novecento (l’epoca dei
regimi totalitari), che mette i cittadini in una
casella sessuale specifica, e chiede che ci
rimangano. Sono Hitler e Stalin che mandano gli
omosessuali nei campi di sterminio, e nei gulag.
L’eurodeputato Vittorio Agnoletto ha presentato
un’interrogazione alla Commissione europea,
chiedendo all’esecutivo Ue se la canzone «Luca
era gay» non violi il Trattato istitutivo della
Comunita’, la Carta dei diritti fondamentali, la
Convenzione per i diritti dell’uomo e che la
Commissione eviti tale violazione, e impedisca
appunto l’esecuzione della canzone.
Chi ha a cuore il benessere delle persone deve
certamente opporsi a ogni discriminazione.
Quelle che colpiscono gli omosessuali, come
quelle dirette contro gli ex gay, che con la
loro presenza disturbano una sessualità
«normalizzata», in stabili gabbie, organizzate
come partiti.
La sessualità è il luogo dell’inquieta ricerca
dell’altro. Da tutelare.
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